Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 08 Sabato calendario

CARISSIMA BRUXELLES

Piccolo esercizio di memoria. Quattro anni fa, prima della lettera della Bce inviata al governo Berlusconi e all’inizio della tempesta sui debiti sovrani, come stavano l’Italia e la Grecia rispetto alla situazione attuale? Alcune cifre mostrano dati sorprendenti. Si prenda Atene. Nel 2011 era già stato avviato il primo salvataggio ma i numeri di oggi dicono che a poco è servito, visto che se ne sta varando un terzo.
Sbaglia chi si è stupito del crollo del 16% della borsa di Atene il primo giorno di riapertura dei listini dopo cinque settimane di serrata dei mercati e poco meno degli sportelli bancari: è già tanto che non si sia dimezzato il valore delle azioni e non è detto che questo non accada nelle prossime sedute, visto che da inizio anno il calo complessivo è circa del 20% e che i titoli dei maggiori gruppi bancari sono colpiti da perdite fortissime. Un Paese sprofondato nella recessione che di fatto viene tenuto in vita con le iniezioni di liquidità della Banca Centrale Europea, i prestiti ponte e una nuova maxi-emissione di prestiti per 86 miliardi di euro (più 25 almeno per gli istituti di credito) pur di restare nel consesso dell’euro a fronte di nuovi sacrifici, non può che avere un movimento ribassista sui listini. Il problema vero è che la Grexit è stata solo rimandata, se non ci saranno le condizioni per far ripartire l’economia ellenica. Alla fine l’opzione Schaeuble, drammaticamente messa sul tavolo nell’Eurosummit di metà luglio subito dopo il referendum greco, potrebbe essere l’unica soluzione. Questo lo ha spiegato bene la Bundesbank in meeting recente con gli addetti ai lavori.
Le trattative tra la quadriga (Bce, Fmi, Esm e Ue) e Atene per il programma supplementare di aiuti da 86 miliardi di euro, al quale va aggiunto il decisivo apporto di almeno altri 25 miliardi di euro per la ricapitalizzazione delle banche che continuano a cadere rovinosamente in borsa, è appeso ad un filo molto esile di rispetto dei Trattati. Secondo il presidente della Buba, Jens Weidmann, i contribuenti italiani o tedeschi probabilmente non si potranno aspettare che la Grecia paghi degli interessi adeguati sui crediti concessi e che li estingua nei prossimi anni. Gli interessi saranno presumibilmente dilazionati e il rimborso spalmato su svariati decenni. Difficile dargli torto: lo sanno tutti, ma nascondono la testa nella sabbia, da Jean-Claude Juncker a François Hollande. Come peraltro sono consapevoli che il programma di aiuti prospettato rischia di violare i principi di base dell’Unione Monetaria, in quanto il finto prestito potrebbe nascondere sotto la semplice veste di aiuti finanziari temporanei un mero trasferimento di denaro.
Ecco perché, se le trattative andranno per le lunghe e la Grecia continuerà a necessitare dei soldi degli altri per mandare avanti la macchina statale fuori controllo, auspicare un necessario taglio del debito da oltre 300 miliardi di euro significherà, almeno per Berlino, una cosa sola: l’uscita, temporanea o meno, della repubblica mediterranea dall’euro. Esattamente quanto proposto dal falco ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble.
Passando all’Italia, certo è in una situazione ben lontana da quella greca, basti pensare che la sola Lombardia ha un pil che è il doppio di quello ellenico. Ma non c’è dubbio che Roma sia ancora in credito con tutta l’Unione. Gli sforzi compiuti da quel lontano 5 agosto 2011 ad oggi per rispettare le regole di bilancio e partecipare allo stesso tempo ai vari organismi internazionali, superano di gran lunga i 200 miliardi di euro: solo di quota partecipativa a Fmi e vari Fondi salva-stati sono stati impegnati 110 miliardi tra il 2013 e il 2014, e a questi si deve aggiungere l’impatto fiscale delle numerose manovre correttive.
A ben vedere però, i risultati economici sono stati deludenti. Si è salvato il mercato dei titoli di stato ma l’economia è ancora sotto stress. Confrontando tasso di disoccupazione, crescita del prodotto interno lordo, spread e livello di export, il Belpaese sembra infatti ancora in difficoltà se non arretrato. Il livello dei senza lavoro è passato dall’8,4% del 2011 al 12,7% del giugno 2015, la ricchezza nazionale aumentava allora dell’1,4% e quattro anni dopo cresce solo dello 0,7%, lo spread per fortuna si è raffreddato, scendendo dai 370 punti base del 5 agosto 2011 ai circa 110 odierni, mentre il livello dell’export oggi come ieri continua a macinare surplus nei primi otto mesi superiori ai 30 miliardi di euro. È il quadro di un paese che ha vissuto un forte processo di deindustrializzazione e di perdita di posti di lavoro, nonostante una convinta partecipazione, e dalla prima ora, al progetto Unione Monetaria. Il conto, però, è ancora in perdita. Due esempi su tutti. Come noto, l’Italia è un contributore netto dell’Unione. Tra i partners europei, il Belpaese è infatti al quarto posto nella classifica del dare-avere con uno score negativo di 37,8 miliardi. Al primo posto c’è la Germania con 83,5 miliardi, di saldo negativo (e questo spiega molte cose sulle posizioni che Berlino prende nelle politiche Ue), seguita dal Regno Unito (48,8 miliardi) e dalla Francia (46,5). Ogni tedesco ha speso 1.034 euro per l’Europa, gli italiani si sono fermati a 623 pro-capite, mentre gli spagnoli hanno ricevuto a testa 335 euro, i polacchi 1.522, i portoghesi 2.100. Chi ha beneficiato di più? La Grecia: 2.960 euro netti a cittadino ellenico, per un importo complessivo di 32,2 miliardi di euro in più ricevuti rispetto a quanto versato.
Se questo non bastasse, va ricordato che la Banca centrale europea ha dovuto ammettere che la «convergenza» economica realizzata dai 12 Paesi fondatori dell’area euro nei suoi primi anni si è rivelata «deludente». I fatti dimostrano che in molti casi le divergenze tra i Paesi si sono allargate. E a rimetterci più di tutti è stata, pensate un po’, la tanto criticata Italia degli sprechi e della spesa facile, che nel 1999, anno di nascita dell’euro sui mercati finanziari (la circolazione monetaria è iniziata il 1° gennaio 2002), faceva parte del gruppo dei Paesi dal più alto pil pro capite; da allora, purtroppo, anche per una serie di concause legate alla scarsa competitività del proprio sistema economico, il nostro paese ha registrato «la peggiore performance» tra i 12 fondatori. Perché Spagna, Portogallo e Grecia erano già Paesi a basso reddito, mentre l’Italia lo è diventato dopo l’introduzione dell’euro.
Non si deve ovviamente concludere che la partecipazione all’euro sia stata un fallimento, tutt’altro. O strumentalizzare la lettera della Banca Centrale Europea e della Banca d’Italia del 2011 per sostenere che si stava meglio quando si stava peggio. Ma una riflessione su quello che è realmente accaduto in questi ultimi anni va avviata.
Roberto Sommella, MilanoFinanza 8/8/2015