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 2015  agosto 08 Sabato calendario

ARTICOLI SU DONALD TRUMP DAI GIORNALI DI SABATO 8 AGOSTO 2015


MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA –
Vince Marco Rubio, che nel campionato della nomination repubblicana per la Casa Bianca al momento è un concorrente di mezza classifica. Ma c’è tempo per recuperare (la stagione delle primarie inizierà solo a febbraio, in Iowa) e nel dibattito televisivo di ieri a Cleveland, il primo della stagione, il giovane senatore della Florida è parso il più fresco e determinato: credibile quando ha detto di capire meglio degli altri candidati la rivoluzione in atto nell’economia e nel mondo del lavoro (Amazon, il più grande commerciante d’America, senza nemmeno un negozio), pungente quando ha attaccato il vero avversario, Hillary Clinton (cosa che altri leader sul palcoscenico, impegnati a marcarsi l’un l’altro, si sono dimenticati di fare).
Donald Trump all’inizio tiene bene la scena. Non fa il piacione, punta sul solito «cliché» del duro che usa un linguaggio ruvido, magari anche offensivo, ma dice le cose come le sente ed è convinto, da imprenditore, di poter governare con più efficacia dei politici di professione. Poi, però, scivola nelle risposte a domande sempre più incalzanti. In testa, e di parecchio, nei sondaggi, il tycoon temeva di diventare oggetto degli attacchi concentrici dei suoi avversari che, invece, si tengono a debita distanza (con l’unica eccezione del radicale libertario Rand Paul che lo assale all’inizio, ma poi si azzuffa soprattutto col governatore del New Jersey Chris Christie ed esce dal dibattito nettamente sconfitto).
Ad incalzarlo senza tregua sono, invece, i tre giornalisti della Fox, la rete conservatrice Usa per eccellenza, che conducono il dibattito. La vecchia volpe Chris Wallace, Bret Baier, ma soprattutto Megyn Kelly, l’unica donna sul palcoscenico dell’arena di Cleveland, che lo inchioda elencando le espressioni più offensive da lui usate nei confronti dell’universo femminile: «scrofe grasse», «animali disgustosi» e altro ancora. Donald prova a lamentarsi per il trattamento riservatogli, ma gli anchor fanno domande spietate a tutti i candidati. Poi il miliardario, evidentemente allergico a marce indietro e correzioni di rotta, pensa di cavarsela con un «ho detto quello che ho detto, non ho tempo da perdere col politicamente corretto»: salva la sua maschera di duro, ma offende tutto l’elettorato femminile.
I suoi due concorrenti diretti, Jeb Bush e il governatore del Wisconsin Scott Walker, che gli sono alle spalle nei sondaggi, però non ne approfittano: non commettono errori, ma i loro interventi sono piatti. L’ex governatore della Florida ostenta il suo «aplomb» presidenziale, ma ripete monotonamente il suo record di buon amministratore dello Stato nel quale vive. E anche Walker, con la sua fama da «ammazzasindacati», svolge il suo compitino senza infamia e senza lode, forse preoccupato di non apparire troppo aggressivo, come gli è accaduto in alcuni recenti comizi.
Fanno una figura molto migliore Mike Huckabee, l’ex governatore dell’Arkansas, e l’attuale governatore dell’Ohio, lo Stato che ha ospitato il dibattito, John Kasich. Ma sono candidati minori e Huckabee è ormai percepito come un uomo del passato che tenta per la terza volta la sfida presidenziale. Anche quattro anni fa fu brillante nei dibattiti, ma non emerse mai nelle primarie. Una che invece potrebbe venire fuori a sorpresa è l’ex capo della Hewlett Packard, Carly Fiorina. Non era sul palcoscenico del dibattito serale perché è molto indietro nei sondaggi, appena l’1 per cento di consensi. Ma nel dibattito pomeridiano riservato agli altri sette candidati che inseguono i «magnifici 10», è stata lei, unica donna e unica non professionista della politica in quel panel , a vincere nettamente il confronto. Ora potrebbe recuperare terreno nei sondaggi e presentarsi al prossimo dibattito, a settembre in California, nel girone dei primi in classifica.
M. Ga.

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MARIA LAURA RODOTA’, CORRIERE DELLA SERA – 
Il primo combattente pubblico per la political correctness in America è stato Marx. Groucho Marx. Autore, settant’anni fa, di una lettera aperta contro gli stereotipi razzisti — sui neri, gli ebrei, gli italiani — nel vaudeville e nella commedia. Due dei comici criticati replicarono come usa ancora oggi, come fa il molto comico (anche) Donald Trump: denunciando la dittatura del politicamente corretto; sostenendo di fare molte battute su scozzesi e svedesi che non si erano mai lamentati. «I McPherson e gli Joansson non sono una minoranza soggetta a oppressione, restrizione, segregazione o persecuzioni», fu la risposta di Groucho, uomo con senso dell’umorismo ma anche delle proporzioni. La campagna da lui iniziata, comunque, cominciò a funzionare, anche perché la Seconda guerra mondiale era finita da poco e «dopo Adolf Hitler, prendere in giro le etnie diverse era diventato di cattivo gusto», come racconta Kliph Nesteroff, autore di un saggio in uscita sui commedianti americani. E a Hollywood produttori e autori ebrei erano tantissimi; e poi nel Sud partivano le lotte per i diritti civili dei neri; e poi dopo ovunque le donne diventavano femministe; e poi ancora a San Francisco veniva eletto il primo consigliere comunale gay, Harvey Milk, poi assassinato da un collega politicamente scorretto. E la nuova America culturalmente molto ebrea, per la prima volta orgogliosamente nera, in cui le donne volevano decidere della loro vita e un pochino pure gli omosessuali, aveva bisogno di usare nuove parole e di scoraggiare parole vecchie, che servivano a mettere al suo posto chi era diverso anche solo un po’. Da qui «politically correct», espressione inaugurata dalla sinistra americana negli anni Quaranta. Codificata nel suo attuale uso politicamente scorretto dal colto commentatore reazionario William Safire; che già nel suo Political Dictionary del 1970 lo definisce «conforme al pensiero liberal o di estrema sinistra su questioni razziali, sessuali o ambientali». Safire cita l’uso che ne fanno saggiste nere e femministe. Risale alla prima volta in cui l’espressione fu usata, nel 1793, quando uno che brindava «agli Stati Uniti d’America» fu criticato da un altro che disse «Non è politicamente corretto. Bisogna brindare al popolo degli Stati Uniti d’America». Safire biasima poi le «idee corrette» imposte dal presidente Mao. Molti liberal non prendevano il termine così seriamente. Negli anni Settanta e Ottanta, nelle università e dintorni, «politically correct» e «PC police» erano espressioni ironiche, usate per sfottere i troppo zelanti. Uscirono manuali da ridere sul politicamente corretto (non si dice «vivo in un brutto palazzo» ma «vivo in un palazzo esteticamente svantaggiato»). L’ironia non scongiurò la guerra culturale. Nei primi anni Novanta, il concetto di «political correctness» fu reinterpretato dai neoconservatori e usato come arma contro tutto ciò che era troppo liberal, o multiculturale, o anche anti-discriminatorio. Diventò di uso comune tra filorepubblicani e neocon, a volte insieme all’espressione «polizia del pensiero» (nei campus e nei media). Diventò popolare anche nel Regno Unito, dove la commentatrice Polly Toymbee, nel 2001, sintetizzò: «E’ una copertura per quelli che vogliono ancora dire Paki (pakistano, ndr), spastico o checca». O anche cessa, cicciona, animale, ecc., alla Trump (ma poi: che fatica parlarne in Italia, dove un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, ha paragonato una nera a un orango ed è ancora vicepresidente del Senato; negli Usa, per dire, rimarrebbe solo con un presidente Trump, Donald Trump).

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MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA – 
Un prodotto degenerato della civiltà televisiva dell’«infotainment», della politica-spettacolo. Non è il caso di sottovalutarlo: per molti è una meteora, ma potrebbe anche diventare il Berlusconi della politica americana. Da settimane il «columnist» del New York Times Frank Bruni analizza con crescente preoccupazione e pessimismo il fenomeno Donald Trump, man mano che il suo gradimento cresce rapidamente nei sondaggi, nonostante le sue affermazioni offensive e a volte razziste che fanno rabbrividire mezza America.
Dopo il dibattito lei sembra sollevato: ritiene che il «tycoon» sia uscito sconfitto?
«Non so se ha perso. Dopo questi dibattiti ci vogliono un paio di giorni prima che, sedimentate le emozioni, emergano i giudizi veri. Ma secondo me Trump si è fatto del male da solo: non ha approfittato dell’occasione televisiva per espandere lo spessore della sua candidatura. Chi è orientato a sostenerlo sa già che è e salace e impudico. Magari l’altra sera avrebbe voluto ottenere anche qualche rassicurazione sulle sue idee, i programmi: non ha avuto nulla».
Nei suoi commenti lei parla di Trump come del Berlusconi della politica americana, ma lo descrive anche come un Frankenstein creato dal partito repubblicano. Creatura della politica «mainstream» o figlio dell’insofferenza di molti cittadini, delle spinte verso l’antipolitica, come sta avvenendo anche in Europa e in Italia?
«In Trump ci sono tutte e due le cose: in parte è una creatura degenerata del suo partito perché la sua xenofobia, la rabbia, l’idea della supremazia americana sono istinti e pulsioni che i repubblicani hanno coltivato e incoraggiato. Ma è anche una creatura che trascende i partiti: gli americani sono ormai molto cinici non solo rispetto al governo e al Congresso, ma anche rispetto alle altre istituzioni. Non hanno più fiducia nei loro politici, ma nemmeno nella stampa, nelle corporation, negli insegnanti. Così quando Trump si dice stufo di tutto questo, attira l’attenzione. Ma non ti porta da nessuna parte: quella che gli è mancata l’altra sera è stata la capacità di trasformare la rabbia in movimento politico. Non ha provato a offrire soluzioni».
Lei ha scritto che la nostra categoria, i giornalisti, è responsabile per la crescita del fenomeno Trump. L’abbiamo alimentato con la nostra propensione per i conflitti, le espressioni forti, le semplificazioni. L’altra sera, però, sono stati i giornalisti a riscattarsi: non sono stati certo gli altri candidati a mettere sotto pressione Trump.
«Trump vive all’intersezione tra “media”, intrattenimento e politica. Una confluenza che genera una pericolosa confusione tra realtà e teatro. Niente di nuovo: un pericolo denunciato già una quarantina d’anni fa da film come Network e Nashville . Ora ci risiamo con quelli che gridano che sono stufi di tutto, che vogliono rovesciare il tavolo. E’ vero, a Cleveland i tre giornalisti della Fox hanno fatto un eccellente lavoro. Forse solo loro potevano riuscirci: chiunque altro avesse fatto domande tanto taglienti ai candidati sarebbe stato accusato di partigianeria filo-democratica. Sono stati bravi: hanno fatto domande dure e, soprattutto, hanno chiesto le cose giuste, mettendo in luce le debolezze dei candidati. L’hanno fatto non solo per amore di democrazia, ma anche per esigenze spettacolari. L’altra sera siamo stati fortunati: gli interessi della politica e quelli del teatro coincidevano».
Massimo Gaggi

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PAOLO GUZZANTI, IL GIORNALE –
«Lei è abituato a comprare e vendere politici», lo accusa stizzito il candidato Rand Paul. E Donald Trump risponde: «A te, ti ho comprato di sicuro. E anche con un sacco di soldi». Quello della scorsa notte a Cleveland, Ohio, nella sede della rete televisiva Fox News è stato uno dei più grandi spettacoli pubblici offerti dalla politica americana. Regole di ferro e niente sconti. Fox News è nota come televisione di destra, se non una sezione del partito repubblicano. Ma nella notte fra giovedì e venerdì quella televisione si è guadagnata i galloni di una macchina giornalistica micidiale e rispettosa delle regole dell’informazione. Il New York Times, di orientamento democratico, ha coperto di lodi la televisione repubblicana che si era posto il compito durissimo di contenere l’antieroe della serata, lo stramiliardario Donald Trump, un incontenibile ribelle con un passato democratico (ha finanziato Hillary Clinton a piene mani prima di mandare all’inferno Obama e il suo partito) e che ha deciso di farsi largo nel Grand Old Party, attaccando tutti gli esponenti repubblicani. Ha cominciato con l’ex candidato John McCain, considerato un eroe perché fu abbattuto sui cieli del Vietnam e soffrì una lunga e dolorosa prigionia: «E che razza di eroe sarebbe, uno che si è arreso? Io considero eroi quelli che non si arrendono, non quelli che alzano le mani». Un putiferio durato mesi.
Trump dominava il palcoscenico e sfidava la political correctness, il codice di quel che può e di quel che non può essere detto. I candidati avevano di fronte a sé un piccolo plotone d’esecuzione: quello dei tre moderatori Chris Wallace, Megyn Kelly e Bret Baier. Megyn Kelly è una bionda che potrebbe impersonare il comandante di una flotta spaziale, bella e impenetrabile. Megyn attacca: «Lei parla delle donne in modo inaccettabile. Le paragona spesso ad animali disgustosi, le descrive grasse come maiali, sgraziate come vacche... Come pensa di poter chiedere il loro voto per diventare presidente degli Stati Uniti?».
Trump alza le spalle: «Senta, io ne ho piene le scatole della political correctness, si tratta soltanto di ipocrisia. E sa che le dico? Anche il nostro Paese ne ha abbastanza di questi minuetti su quel che si può dire e quel che non si può. Io e gli Stati Uniti non ne possiamo più. Qui fuori c’è un mondo in cui si tagliano le teste dei cristiani, si commettono crimini mai visti prima d’ora e noi ce ne stiamo qui a cincischiare sull’uso delle parole. Io dico che noi dobbiamo uscire e andare a fare il nostro lavoro nel mondo qui fuori».
Donald Trump è stato certamente lo special guest della serata e del resto tutta la sua forza politica consiste in questo: prendere a pugni tutti gli altri, non fare alleanze, impersonare il cavaliere solitario che ha spalle larghe e pugno duro.
Ma il vero candidato repubblicano - finora - non è l’imprenditore sfrontato e senza peli sulla lingua, ma Jeb Bush, ex governatore della Florida, fratello dell’ex presidente George W. e figlio del vecchio George. Jeb si è costruito una fama di moderato. Ha governato la Florida puntando sulla pubblica istruzione, una spesa sociale importante e ha ottenuto come risultato una rivoluzione dello «Stato del Sole», famoso fino a pochi anni fa soltanto per le sue spiagge e i suoi ricchi pensionati che giocano a golf in attesa della morte. Con Bush la Florida si è trasformata nella mecca delle giovani coppie, specialmente intellettuali, scienziati e insegnanti, attratti da una eccellente rete di scuole e università pubbliche e college, ammortamento molto invitante per l’acquisto di case e di piani di per per i figli. Hanno cercato di incastrarlo chiedendogli cosa pensava dell’intervento in Irak deciso dal fratello ed ha risposto che se avesse avuto le stesse informazioni che aveva avuto George, avrebbe fatto le stesse scelte.
Nessuna sorpresa dunque se Hillary Rodham Clinton, scesa in campo anche lei, abbia ignorato Trump e attaccato direttamente Jeb Bush, che considera il suo avversario. In realtà né Hillary, né Donald sono stati ancora nominati dai loro partiti e la strada è ancora lunga per entrambi. Anche per Hillary Clinton i giochi sono tutt’altro che fatti: la sua candidatura è considerata debole all’interno del partito democratico e sono molti coloro che la considerano mortale perché priva di carisma, di una «vision», schiacciata com’è fra gli stereotipi della correttezza politica.
Di questa debolezza pensa di approfittare Joe Biden, il vicepresidente di Obama, un avvocato di 73 anni in eccellente forma fisica e che si è visto raramente sulla scena politica, benché abiti alla Casa Bianca. Biden ha perso recentemente un figlio, Beau, e tutto il Paese ha potuto ammirare sia la compostezza che il dolore di quest’uomo. Ora Biden dice che è stato proprio il figlio in punto di morte a fargli giurare che non avrebbe mollato, che avrebbe dato seguito alle aspettative di tutti coloro che credono in lui. Biden non ha ancora sciolto la riserva, ma lascia che si dica in giro che è pronto a correre. Lo sostengono coloro che odiano i Clinton, la loro potenza politica ed economica, la loro immagine di mostri sacri e politicamente correttissimi.

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FLAVIO POMPETTI, IL MESSAGGERO –
Buca lo schermo ma non convince gli elettori Donald Trump, il colorito imprenditore newyorkese che ha dominato il primo dibattito tra gli aspiranti repubblicani alla corsa presidenziale del 2016. Trump occupava la posizione centrale tra i contendenti, sul palco dell’arena di basketball di Cleveland, che ospitava il dibattito. Si era guadagnato quel posto giungendo all’appuntamento in ritardo, a bordo del suo Boeing 757 personale, ma con un saldo margine di vantaggio nei sondaggi, e ha usato il pulpito per sparare a zero su tutti: i suoi compagni di viaggio, i moderatori del dibattito, e l’intera classe politica «di stupidi e di incompetenti» che regna al momento a Washington. Ma già la risposta alla prima domanda: “e perderai nelle primarie, sei disposto ad accodarti tra le fila del partito, e appoggiare il vincitore?" gli ha alienato il supporto del pubblico in sala e di quello televisivo. Nel caso di sconfitta, Trump non rinuncerà alla tenzone e si ripresenterà come indipendente, forte del carisma personale e di un narcisismo che lo rende incurante delle conseguenze del suo gesto. La candidatura da indipendente spaccherebbe il voto conservatore, e consegnerebbe ai democratici il trono della Casa Bianca.
TWEET TRIVIALI
Non è andata meglio con la seconda domanda, quella che lo accusava di misoginia e gli rinfacciava tweet triviali contro le donne che contestano le sue ambizioni presidenziali. Trump, che nel carnè degli insulti ha già inscritto in passato la frase «non mi importa quello che le giornaliste scrivono di me, purché abbiano un bel culo» si è difeso dicendo che la scena politica americana è infestata dall’ossessione per la correttezza politica e ha rivendicato il suo diritto di esprimersi come vuole. Se Megan Kelly, anchor sovrana della Fox che gli aveva rivolto la questione non era d’accordo, peggio per lei.
Da quel momento in poi, ha sparato a zero su tutto e su tutti. «Ho capito, non vi piaccio e basta!» ha ammonito i moderatori che lo insidiavano con domande aggressive e irrispettose. «Non hai sentito quello che ho detto, hai un po’ di problemi di comprensione questa sera» ha detto al povero Rand Paul, che in effetti indossa un apparecchio acustico.
JEB BUSH
La veemenza aggressiva di Trump ha messo a dura prova un affabile Jeb Bush, determinato a ricondurre il dibattito entro i binari della decenza, in nome dell’unità finale del partito, ma troppo bonario per resistere alla violenza degli assalti mossi dall’immobiliarista. Al suo fianco si sono distinti per chiarezza delle idee un Marc Rubio dal tono forse un po’ troppo professorale, come faceva notare ieri la politologa Camille Paglia, e il governatore dell’Ohio John Kasich, che vibra di una gestualità contagiosa, e sprizza entusiasmo a ogni parola.
DELUSIONI
In ombra invece due delle promesse in ascesa tra i ranghi repubblicani: l’"intellettuale" Ted Cruz, accusato di spaccare il fronte repubblicano sulla deriva estremista, e il governatore del Wisconsin Scott Walker, evidentemente intimidito alla prima apparizione di fronte al grande pubblico televisivo. Le posizioni in comune sono chiare: ripudio dell’Obamacare e lotta all’ultimo decreto per l’eliminazione dell’aborto, tema che aggrega una base molto vasta di attivisti del movimento per la vita. In politica estera, abiura del patto firmato dal presidente sul nucleare iraniano «un atto di debolezza, una concessione senza contropartite» e minacciosi pronunciamenti su un maggiore interventismi in Medio Oriente e nella lotta a un estremismo che ognuno dei candidati è determinato a definire "islamico". Poco spazio invece per un vero dibattito interno: l’aggressione verbale della meteora Trump travolge al momento ogni tentativo di dibattito e lo deraglia verso i pantani dell’insulto.
Flavio Pompetti

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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA –
FEDERICO RAMPINI
SE NON mi scegliete come candidato repubblicano, potrei correre da indipendente. Lo annuncia il magnate immobiliare Donald Trump. È la vera “bomba” del primo dibattito televisivo nella sfida per la nomination. La minaccia di Trump – per ora in testa ai sondaggi tra i repubblicani – getta lo scompiglio a destra. L’establishment del partito lo teme o lo disprezza, ma ora deve vedersela con questo scenario. Una terza candidatura da indipendente potrebbe dirottare su Trump voti preziosi e garantire la vittoria di Hillary Clinton. Ripetendo quel che accade a suo marito Bill: conquistò la Casa Bianca per la prima volta nel 1992 grazie al “disturbatore” Ross Perot, anche lui un businessman, un indipendente che rubò voti decisivi a George Bush padre.
Tutti contro Trump, e Trump contro tutti. Così gli esperti di marketing elettorale hanno riassunto il primo match televisivo tra i candidati di destra. “Mister 10 miliardi di dollari”, come misura lui stesso la propria ricchezza, ha dominato l’attenzione. Egomaniaco, narciso, sbruffone, arrogante, ma certamente un uomo di spettacolo. Con la sua prepotenza ha ottenuto più tempo: 11 minuti di parola contro i 6 dei suoi avversari. Ha usato tutti gli artifici dello showman, a cominciare dagli attimi di suspense dopo la domanda cruciale dei moderatori. «Chi di voi non s’impegna fin d’ora a sostenere il vincitore della nomination, alzi la mano». Finta incertezza, poi una sola mano svetta so-litaria: la sua. Ha insultato Barack Obama e tutti gli altri governanti: «Abbiamo dei leader stupidi». È tornato a insolentire gli immigrati messicani: «Quel paese ci manda brutta gente». Ha aggredito la moderatrice, unica donna in scena, la brillante giornalista di Fox News Megyn Kelly, che lo incalzava per il suo sessismo ricordando le ingiurie che lui usò contro una donna (“cagna”), o quella volta che nel concorso televisivo The Apprentice disse «mi piacerebbe vedere una concorrente in ginocchio». A Megyn Kelly lui ha risposto seccamente: «Non ho tempo da perdere col politically correct, e l’America nemmeno ».
A dibattito concluso ha continuato ad infierire sulla moderatrice chiamandola “bimbo”, l’equivalente di “bella pupa”. Al termine di una sequenza di gaffe che avrebbero affondato qualunque altro candidato, alcuni esperti repubblicani già lo dichiarano finito. Ma durante il dibattito uno dei suoi avversari, il governatore dell’Ohio John Kasich, ha detto il contrario: «Trump tocca un nervo scoperto nel paese. La gente è stufa, frustrata. Chi lo sottovaluta sbaglia». Insomma è lui per adesso il magnete catalizzatore dell’anti-politica, del populismo, della xenofobia, della rivolta contro ogni élite ed ogni establishment… con l’eccezione degli straricchi. Invano altri cercano di attirare l’attenzione sulle sue tre bancarotte, o sul fatto che non è un self-made man bensì un ereditiero figlio di papà. In quanto alle donne già prima del dibattito in tv solo il 37% delle elettrici repubblicane era disposto ad appoggiarlo.
Gli altri nove concorrenti non hanno creato colpi di scena né suscitato particolari emozioni. Marco Rubio, il 44enne senatore della Florida di origini ispaniche, ha corteggiato la destra religiosa condannando l’aborto perfino in caso di stupro o incesto. Un battibecco sullo spionaggio digitale ha opposto Rand Paul a Chris Christie. Il libertario Paul, da sempre fautore di uno Stato minimo anche nel campo militare e poliziesco, ha dichiarato: «Voglio raccogliere più informazioni sui terroristi, meno sugli americani onesti».
Christie, governatore del New Jersey, lo ha attaccato: «Come fai a sapere a priori chi sono i terroristi? Queste sono sciocchezze che si dicono nelle commissioni parlamentari». Nonostante il ciclone Trump tutti si sono ricordati di spendere qualche minuto per attaccare Hillary Clinton, l’avversaria da battere. Contro di lei il più efficace è stato Rubio, con questo attacco alle candidature dinastiche: «Se l’elezione è una gara dei remake, allora la Clinton deve vincere, è stata al governo più a lungo di tutti noi. Ma l’elezione deve guardare al futuro, non al passato».
Le pagelle degli esperti danno buoni voti a Rubio e Ted Cruz tra i candidati della destra fondamentalista vicini al Tea Party; Kasich è stato promosso tra quei moderati che vogliono proporre un’immagine più aperta e inclusiva del partito repubblicano. Jeb Bush è stato considerato grigio e poco convincente. Il percorso verso la nomination è ancora lungo. Le primarie cominceranno nel gennaio 2016. Prima toccherà ad altri quattro dibattiti televisivi fare un po’ selezione entro dicembre.
Il campo repubblicano è affollatissimo: ben 17. Troppi per “governarli” dentro uno studio televisivo, tant’è che la Fox News ne ha ospitati solo 10 per il confronto di giovedì sera, scegliendoli sulla base della popolarità nei sondaggi. Gli altri 7 si sono dovuti accontentare di un dibattito di serie B, nel pomeriggio. Tra quelli si è distinta Carly Fiorina, unica donna in gara, la top manager che guidò Hewlett Packard. Se decolla nei sondaggi potrà essere promossa nei dibattiti tra i primi dieci.

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PAUL KRUGMAN, LA REPUBBLICA –
Molti commentatori erano convinti che questa tornata elettorale sarebbe stata l’occasione giusta, per i repubblicani, di dimostrare che anche loro hanno una “panchina lunga”. La corsa per la nomination vedeva in campo governatori esperti come Jeb Bush e Scott Walker, personaggi con idee nuove come Rand Paul e figure nuove e accattivanti come Marco Rubio. E invece nei sondaggi Donald Trump sta staccando tutti gli altri. Che cosa è successo?
La risposta, sostengono molti di quelli che sono stati colti di sorpresa dall’effetto Trump, sta nella credulità della gente, che non riesce a distinguere fra una persona che dà l’impressione di sapere di cosa sta parlando e una persona che gli argomenti in discussione li conosce sul serio. Ed è senz’altro vero che in giro c’è tantissima credulità. Ma se volete il mio parere, gli opinionisti si sono dimostrati (e si dimostrano) creduloni almeno quanto i comuni cittadini.
Perché se è vero che Trump fondamentalmente è un personaggio assurdo, altrettanto lo sono i suoi rivali. Se si presta un po’ di attenzione a quello che dice nella sostanza ciascuno di loro, invece di limitarsi a far caso a come lo dice, vengono fuori un’incoerenza e un estremismo esattamente identici a quelli che propone Trump. E non è una coincidenza: nel Partito repubblicano odierno, se vuoi arrivare da qualche parte non puoi esimerti dal dire delle assurdità.
Per esempio: le proposte economiche di Trump, una vaga accozzaglia di argomenti classici della destra e misure protezionistiche, sono indiscutibilmente confuse. Ma sono peggiori della voodoo economics al quadrato di Jeb Bush, della sua pretesa di essere in grado di raddoppiare il tasso di crescita dell’economia Usa? E i dati che Jeb porta a sostegno di questa sua pretesa — la crescita relativamente rapida sperimentata dalla Florida durante la colossale bolla immobiliare coincisa con il periodo in cui lui era governatore — non aiutano la sua credibilità.
Trump, com’è noto, è un birther, cioè uno di quelli convinti che il presidente Barack Obama in realtà non sia nato negli Stati Uniti. Ma che differenza c’è con uno Scott Walker che dichiara di non essere sicuro che il presidente sia cristiano?
L’intenzione dichiarata di Trump di espellere tutti gli immigrati clandestini è indubbiamente estrema, e comporterebbe gravi violazioni dei diritti civili. Ma dove sono i difensori dei diritti civili nel Partito repubblicano di oggi? Basta vedere con quanta smania Rand Paul, uno che si definisce un libertarian, si è unito alla caccia alle streghe contro l’organizzazione abortista Planned Parenthood.
E se Trump è certo un modello per tutti coloro che diffidano di scienziati e intellettuali, non ci scordiamo che Marco Rubio ha posizioni negazioniste sui cambiamenti climatici e proclama con orgoglio di non essere uno scienziato (promemoria per Rubio: non è necessario che un presidente sia esperto di qualsiasi cosa, ma dovrebbe stare a sentire gli esperti e decidere a quali credere).
Il punto è che i media hanno dipinto i rivali di Trump come gente seria — Jeb il moderato, Rand il pensatore originale, Marco il volto nuovo — ma la loro presunta serietà è tutta in superficie. Se li si giudica sulla base delle loro posizioni, e non della loro immagine, si vede che sono soltanto una sfilza di pazzoidi. E come ho detto, non è una coincidenza.
È evidente da tempo che le convenzioni del giornalismo e dell’opinionismo politico rendono quasi impossibile dire ciò che è evidente, e cioè che uno dei due grandi partiti in America ormai è uscito di senno. Come hanno scritto gli analisti politici Thomas Mann e Norman Ornstein nel loro libro It’s Even Worse than It Looks (“ È ancora peggio di quanto sembri”), il Partito repubblicano è diventato un «emarginato eversivo che non si lascia convincere dai fatti, dai dati, dalla scien- za così come sono comunemente intesi». È un partito dove su molti dei temi principali non c’è il minimo spazio per chi difende posizioni razionali.
Se vogliamo metterla in altri termini, i politici repubblicani di oggi non possono essere seri se vogliono vincere le primarie e avere qualche futuro all’interno del partito. Proposte economiche strampalate, teorie scientifiche strampalate, idee strampalate in politica estera: sono tutti elementi imprescindibili per il curriculum di un candidato.
Finora, tuttavia, gli esponenti più in vista del partito hanno generalmente cercato di preservare una facciata di rispettabilità, aiutando i media a preservare la finzione di avere a che fare con un normale partito politico. L’elemento distintivo di Trump non sono tanto le sue posizioni, quanto il fatto che non gli importa nulla di mantenere le apparenze. E ora si scopre che la base del partito, che pretende posizioni estremiste, preferisce anche che queste posizioni vengano enunciate in modo esplicito. Cosa c’è da sorprendersi? Vi ricordate di quando dicevano che Trump sarebbe imploso dopo il suo attacco contro John McCain? McCain incarna alla perfezione la strategia di apparire moderati pur sostenendo posizioni estremiste ed è molto amato dai giornalisti, e grazie a questo compare continuamente in televisione. Ma gli elettori repubblicani, a quanto pare, di Mc- Cain se ne fregano.
Trump è davvero in grado di aggiudicarsi la nomination? Non ne ho idea. Ma anche se alla fine dovessero riuscire a metterlo fuori gioco, non prestate fede a tutte le analisi che leggerete sul ritorno a una politica normale, perché non è così: la politica normale ha abbandonato il Partito repubblicano parecchio tempo fa. Tutt’al più vedremo un ritorno a un’ipocrisia normale, di quella che ammanta politiche estremiste e disprezzo per l’evidenza sotto una retorica apparentemente convenzionale. E non sarà un miglioramento.
©2015 New York Times News Service
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA –
In un’altra era politica, prima della depressione economica, l’immigrazione vista come minaccia, il consenso costruito sui social media a colpi di 140 caratteri, gli sgozzamenti dell’Isis e l’ondata populista, un candidato alla Casa Bianca che si fosse comportato come Donald Trump giovedì sera durante il primo dibattito televisivo fra i repubblicani, il giorno dopo avrebbe dovuto chiudere la campagna. Invece adesso stiamo aspettando i sondaggi, e se nei prossimi giorni scopriremo che il suo consenso non è precipitato, dovremo cominciare a riconoscere che stiamo raccontando una storia nuova. Odiosa per alcuni, eccitante per altri, ma certamente inedita.
La trappola
Il clima del dibattito di Cleveland, nell’arena dove gioca il mattatore del basket LeBron James, si è capito dalla prima domanda: «Se c’è qualcuno di voi - ha chiesto il moderatore della Fox News - che non è pronto ad appoggiare chiunque vinca la nomination del partito, o escludere una sua candidatura indipendente, alzi la mano». Ovvia trappola per Trump che guidava i sondaggi della vigilia a dispetto dell’establishment. Con i suoi soldi, infatti, potrebbe finanziarsi una campagna da indipendente, togliendo voti al candidato repubblicano. Ebbene Donald, nello spirito della sua immagine da post-politico, non ha tirato indietro la mano: «Io. Corro per vincere, e se sarò nominato vi garantisco che appoggerò il nostro candidato. Se non lo sarò, però, voglio essere libero di scegliere».
Da lì in poi, il tema è stato quasi sempre lo stesso: domande dure per Trump, al chiaro scopo di farlo inciampare, ma domande dure anche per gli altri, impegnati invece a dimostrarsi seri e presidenziali. Alla fine Donald si è lamentato della parzialità del trattamento ricevuto, ma durante il dibattito non si è sottratto alla battaglia: «L’immigrazione illegale? Se non era per me, adesso non ne staremmo neppure parlando. Il Messico ci manda i suoi criminali, dobbiamo costruire un muro». La moderatrice Kelly lo ha incalzato sulle donne, accusandolo di averle insultate: «No, solo Rosie O’Donnell (un’attrice liberal che lo ha criticato, ndr). Guardate, il problema del nostro Paese è che siamo troppo politically correct. È ora di dire la verità». Quindi ha attaccato la stessa Kelly: «Ti tratto bene, anche se potrei non farlo, visto come tu tratti me». Gli hanno chiesto di giustificare i suoi quattro fallimenti: «Io non sono mai fallito, ho solo usato le leggi in vigore per proteggermi. Ho fatto un sacco di soldi, do lavoro a migliaia di persone, e ne sono orgoglioso».
Anzi, ha rivendicato di aver regalato soldi a tutti i politici, compresa Hillary Clinton: «L’ho fatto in cambio di favori. Chiunque mi chiama, do i soldi, così poi quando lo chiamo io mi aiuta. È un sistema corrotto, ma funziona. Li ho dati anche a Hillary, e in cambio è venuta al mio matrimonio». Del presidente Obama ha detto che «è un incompetente, ma non posso dirlo perché non è gentile». Poi ha aggiunto che «il nostro governo è stupido».
Davanti a questo ciclone, agli altri è rimasto poco. Christie ha litigato con Paul, perché ha chiesto di interrompere lo spionaggio sugli americani dopo il caso Snowden. Kasich, Bush, Rubio e Walker hanno cercato invece di essere più presidenziali.
Milioni di spettatori
Questo show ha attirato 24 milioni di spettatori, record di sempre per il primo dibattito delle primarie, e secondo un rilevamento di pancia fatto dal sito Drudgereport, Trump ha vinto per il 45% degli spettatori, con Cruz lontanissimo secondo al 14%. Donald ha dominato anche in termini di tempo in cui ha parlato: 10,32 minuti, contro gli 8,31 di Bush. Gli altri discutono e lui fa, sembra la percezione degli elettori, che perciò perdonano o apprezzano i suoi oltraggi: è miliardario, sa qualcosa che gli altri non hanno capito.
Molti analisti restano convinti che Donald stia correndo solo per fare pubblicità al suo brand, da rivendere poi nel business. «Non sarà lui il candidato», giura il guru dei dati Nate Silver, a ragione. Se però domani sarà ancora in corsa, bisognerà cominciare a chiedersi quali corde dell’elettorato risentito con i politici di professione sta toccando, come stiamo cambiando, ed entrare nella nuova era della post-politica.

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MARCO VALSANIA, IL SOLE 24 ORE –
Pochi vincitori e vinti e tanto Donald Trump. Il primo grande dibattito presidenziale repubblicano non ha saputo sfoltire il campo dei candidati del partito conservatore americano impegnato a riconquistare la Casa Bianca nel 2016. Ha piuttosto dato spettacolo con Donald Trump, mettendo in rilievo le sfide irrisolte del partito nella ricerca di un nuovo leader: il costruttore e stella del reality Tv fattosi candidato, tuttora in testa agli iniziali sondaggi facendo leva sull’insofferenza della base per i politici tradizionali, ha tenuto banco e fede alla sua fama di iconoclasta. Ha scosso i repubblicani fin dalla prime battute, rifiutando la promessa - unico tra i presenti - di non correre come candidato indipendente qualora non ottenesse la nomination. Anche quando gli è stato ricordato che così rischia di spaccare l’elettorato e consegnare la presidenza nuovamente a un democratico.
Altri candidati si sono sforzati di emergere dal folto gruppo di 17 aspiranti presentati all’appuntamento con le telecamere a Cleveland in Ohio. L’unica certezza sono state però le domande incisive, e spesso rimaste senza adeguate risposte, dei moderatori di Fox News. Tra i dieci scelti in base ai sondaggi per dibattito in prima serata, stando alle prime reazioni la pattuglia che ha fatto meglio comprende alcuni degli esponenti più “presidenziali”: Jeb Bush, Marco Rubio e Scott Walker. Bene anche un moderato entrato in campo all’ultima ora e che ha giocato in casa, il governatore dell’Ohio John Kasich, e la personalità radiofonica Mike Huckabee. Pallidi sono invece apparsi il senatore libertario Rand Paul, il governatore del New Jersey Chris Christie, il senatore texano Ted Cruz e il chirurgo afroamericano Ben Carson. Nel separato dibattito tra i sette candidati minori, la vittoria è stata invece unanimemente assegnata a Carly Fiorina, ex amministratore delegato di Hewlett-Packard, che potrebbe ora soppiantare in popolarità uno dei meno brillanti tra i favoriti.
Ma i fuochi d’artificio li ha forniti senza dubbio Trump. Ha parlato quasi il doppio degli altri, inanellando prese di posizioni senza rete. Ha difeso i suoi insulti alle donne affermando che, come il Paese, lui «non ha tempo per la correttezza politica». Ha detto di aver usato senza remore - ben quattro volte - le leggi sulla bancarotta per avvantaggiare le proprie aziende. Ha insinuato che i politici sono tutti venduti e lo sa perché li finanzia. Compresa Hillary Clinton, che è andata al suo matrimonio costretta dalle sue donazioni.
Altri duelli, più politici, hanno acceso a tratti il dibattito: Paul e Christie si sono scontrati su sicurezza e spionaggio elettronico, con il primo che ha rivendicato la sua battaglia per metter fine a generalizzate intercettazioni e il secondo che le ha difese quale strumento anti-terrorismo. Bush ha spinto la sua proposta di riforma dell’immigrazione, che combina protezione dei confini a ipotesi di legalizzazione di chi è già nel Paese. E ha detto che questa sarà il volano per una crescita che salirà al 4 per cento. Rubio ha risposto che è lui il nuovo campione dei ceti medi, perché è cresciuto in una famiglia che davvero viveva di salario in salario. Walker, imbarazzato da una domanda sulla scarsa occupazione creata nel suo Wisconsin, ha ribattuto di essere stato eletto tre volte governatore. Kasich, forse il più efficace in assoluto, ha fatto colpo con il suo conservatorismo compassionevole: contrario al matrimonio gay ma capace di recarsi alle nozze omosessuali d’un amico. Tutti, infine, si sono uniti contro gli avversari democratici, contro le dottrine “Obama-Clinton” che hanno promesso di cancellare, dalla riforma sanitaria alle regolamentazioni finanziarie della Dodd-Frank fino all’accordo nucleare con l’Iran. Questo, però, non basta a dar vita a un vero candidato che sappia sfidare il prescelto democratico, anche una Hillary Clinton oggi indebolita, dentro il partito democratico, da polemiche sul suo passato e dubbi sulla sue fede liberal.
Marco Valsania

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MATTIA FERRARESI, IL FOGLIO –
Donald Trump ha twittato e ritwittato fino a notte fonda messaggi velenosi dopo il dibattito fra i primi dieci candidati repubblicani, secondo la selezione di Fox News. La sua furia non era diretta agli avversari politici, ma a Megyn Kelly, volto femminile di Fox che ha condotto il dibattito assieme a Bret Baier e Chris Wallace con stile pugnace, ai limiti dell’inquisitorio. Secondo Trump, Kelly non è stata professionale e lo ha attaccato personalmente, è stata ingiusta e viziata, insomma “un disastro”. E’ stata soprattutto la domanda a proposito delle uscite sconvenienti sulle donne a far imbestialire il dominatore dei sondaggi. Quando Kelly gli ha ricordato la volta in cui nel reality Celebrity Apprentice ha detto di una concorrente che “sarebbe bello vederla in ginocchio” lui ha perso interiormente le staffe, e ha riversato la rabbia nel dopo partita. Questo tanto per chiarire chi sono i vincitori percepiti di un dibattito troppo prematuro e con una line up troppo vasta per esprimere vincitori politici: Trump e Fox News. Dai primi rilevamenti Fox ha fatto uno share pazzesco, circa il triplo di quello incassato dal più visto dei dibattiti presidenziali nell’ultima tornata, e l’idea di mettere sotto torchio i candidati della propria parte politica ha messo sale e ritmo al dibattito. Se un altro network avesse impostato le domande in quel modo aggressivo per i repubblicani sarebbe stato accusato di faziosità, mentre i tre hanno avuto campo libero per provocare e mettere alle corde, con riferimenti sempre puntuali a quello che i candidati hanno detto o fatto in passato. Trump è finito nella colonna dei vincitori per il semplice motivo che è stato il candidato che ha occupato più spazio, energie e attenzione, e a questo punto della corsa i contenuti sono secondari, soprattutto per chi ha dimostrato il più totale sprezzo per il senso del ridicolo. Non esiste migliore pubblicità della cattiva pubblicità è il motto warholiano che Trump in questo momento sta cavalcando. Coscienti di questo, i più presidenziabili dei candidati, a partire da Jeb Bush, hanno evitato accuratamente di incrociare le lame con Trump, preferendo la difesa solida nella comfort zone argomentativa piuttosto che l’attacco in campo aperto. Inoltre, Trump è stato l’unico dei dieci candidati a dare una notizia, che non va sottovalutata: se non sarà lui il candidato del partito prenderà in considerazione una corsa come indipendente, e comunque non darà necessariamente il suo endorsement a chi uscirà con la nomination dalle primarie. Potrebbe essere soltanto un ballon d’essai, ma certo la prospettiva che la rumorosa azione di disturbo di Trump si prolunghi anche oltre la stagione delle primarie, contribuendo allo sgretolarsi di un partito già abbastanza sgretolato, non è allettante. Lo spiccare di Trump non significa che gli altri abbiano prodotto performance disastrose. Rubio ha avuto buoni momenti quando si parlava di policy, Huckabee ha dimostrato di padroneggiare bene la retorica televisiva, Cruz in certi momenti è sembrato quasi presidenziale, anche le domande rivolte a lui non hanno scatenato la vis polemica di cui è capace. La lite fra Rand Paul e Chris Christie, con frecciate personali incluse, ha regalato un buon momento televisivo, così come un paio di battute azzeccate di Ben Carson, di cui tutti si sono dimenticati per lunghi tratti. L’unico indiscutibile vincitore della giornata di dibattito è stata però Carly Fiorina, nel panel per i personaggi secondari tenuto alle cinque del pomeriggio. Nei sondaggi fatica a sfondare la barriera dell’1 per cento, ma nel confronto dal vivo ha menato scudisciate e messo a tacere i più ingessati avversari, presentandosi come l’alternativa all’establishment politico ampiamente rappresentato sul palco. E dire che non avendo mai avuto un incarico pubblico – e avendo corso una disastrosa campagna per il Senato – doveva essere quella meno equipaggiata per l’agone. Alla fine Rick Perry le ha involontariamente dato l’endorsement: “Abbiamo bisogno di un manager alla guida che faccia quello che non è mai stato fatto in questo paese”.
Mattia Ferraresi