varie, 7 agosto 2015
APPUNTI SU DONALD TRUMP PER IL FOGLIO –
«La pigrizia è un tratto caratteristico dei neri». «Il Messico non ci manda i migliori, spedisce da noi drogati, criminali, stupratori». «L’unica differenza tra me e gli altri candidati è che io sono più onesto e le mie donne sono più belle». Mezza America, compresa buona parte di quella conservatrice, è terrorizzata perché più Donald Trump le dice grosse, più cresce, nei sondaggi, il suo vantaggio sugli altri repubblicani in corsa per la Casa Bianca [Massimo Gaggi, Corriere della Sera 6/8].
«La scienza rigorosamente imperfetta dei sondaggi mette il magnate Donald Trump lassù, in cima alla colonna di gradimento nella lunga lista dei candidati repubblicani. Un segno che il linguaggio provocatorio ed eccessivo dei reality show paga, almeno nel breve termine. Blasonate dinastie politiche, secchioni della policy, trascinatori di folle con laurea ad Harvard e altri eroi politici più o meno credibili, per il momento, si trovano a dover inseguire le intemerate del più sgargiante degli avversari, l’immobiliarista con il ciuffo più famoso d’America. E se ne stanno lì esattamente come li ha rappresentati una copertina del New Yorker: aggrappati ai bordi di una piscina a guardare preoccupati un enorme Trump che si tuffa a bomba» [Mattia Ferraresi, Panorama 6/8].
Donald John Trump è nato nel quartiere di Queens, New York, il 14 giugno del 1946, nel Flag Day in cui gli americani festeggiano la prima comparsa della bandiera a stelle e strisce [Davide Piacenza, Rivistastudio.com 3/8].
Nato al Queens nel 1946 in una famiglia di costruttori, da ragazzo era così indisciplinato che il padre lo aveva mandato all’Accademia militare di New York, nella speranza di raddrizzarlo [Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/8].
Il padre, Fred Trump, era un imprenditore edile di successo con proprietà a Brooklyn e Queens, figlio di immigrati tedeschi (il nome originario della famiglia era Drumpf) arrivati a New York negli ultimi anni dell’Ottocento [Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/8].
Quando Donald e suo fratello Robert erano bambini, un giorno si trovarono insieme a giocare coi blocchi colorati da costruzione in salotto. Donald aveva un progetto ambizioso, e i suoi pezzi non gli bastavano. Ne chiese un po’ in prestito al fratello minore, che glieli concesse a patto che gli fossero restituiti in seguito. Donald prima si impossessò di alcuni dei blocchi del fratello, poi di tutti quanti, senza ridarglieli [Davide Piacenza, Rivistastudio.com 3/8].
Magnate del business, investitore, showman e scrittore, Trump, 69 anni, figlio d’arte – è nato ricco – è l’amministratore delegato e presidente della Trump Organization e il fondatore del Trump Entertainment. Tre matrimoni e cinque figli, tra cui Ivanka, figlia di Ivana, la prima moglie, che gli fa concorrenza sulle riviste di gossip, Trump entra regolarmente nella classifica di Forbes dei paperoni del mondo. Ma se la rivista gli attribuisce ‘solo’ 2,9 miliardi di dollari, lui ne vanta in tv 9 e il Washington Post avalla la sua pretesa [Giampiero Gramaglia, il Fatto Quotidiano 5/8].
La decisione di lanciarsi nel settore dei casinò, col Taj Mahal, lo aveva portato alla bancarotta nel 1991. In totale quattro sue compagnie sono fallite, però ha sempre trovato il modo di ripagare i debiti e tornare alla grande a costruire. Il simbolo della rinascita era stata la Trump World Tower, completata nel 2001, 72 piani davanti all’Onu che all’epoca erano la torre abitativa più alta del mondo [Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/8].
Rispetto agli altri tycoon della sua epoca, Trump ha capito che non deve essere miliardario per essere famoso, ma al contrario che il prerequisito necessario all’incremento del proprio patrimonio è la fama [Davide Piacenza, Rivistastudio.com 3/8].
Tre mogli, tutte bellissime, Ivana, Marla Maples e ora Melania Knauss, cinque figli e sette nipoti [Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/8].
Ha militato nel Partito repubblicano, riformista, democratico, indipendente, e ora di nuovo repubblicano [Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/8].
Dopo essersi inimicato i latinos sostenendo che gli immigrati clandestini in arrivo dal Messico sono “stupratori” e “delinquenti”: lui vuole costruire un muro sul confine, perché “i messicani non sono nostri amici” [Giampiero Gramaglia, il Fatto Quotidiano 5/8].
Fece causa a Tim ‘O Brian del New York Times per avere insinuato che lui “valesse” soltanto 250 milioni e il resto fossero solo debiti [Vittorio Zucconi, la Repubblica 5/8].
Lui stesso, è ben diverso dal personaggio clownesco che interpreta, forte di una laurea in Economia ottenuta in una più selettive università americane, la Wharton School of Economics.
La sua abilità nel concludere deal, nel fare affari vantaggiosi, è leggendaria, come dimostrò acquistando da un ricco bancarottiere della Virginia una tenuta da 41 milioni per soli 6 e rivendendola sei mesi più tardi per 60 [Vittorio Zucconi, la Repubblica 5/8].
Ha promosso una campagna aggressiva e politicamente scorretta, al cui centro sono stati posti il tema dell’immigrazione illegale e la necessità di adottare misure più drastiche contro i clandestini. Il messaggio xenofobo e violento di Trump ha riscosso un successo inatteso tra l’elettorato repubblicano e messo sulla difensiva gli altri candidati [Mario Del Pero, Il Messaggero 6/8].
Nelle settimane scorse è riuscito a mettere in dubbio l’eroismo di guerra del senatore John McCain, un uomo che è stato prigioniero e torturato dai VietCong, ha rivelato il numero di telefono di un rivale, ha offeso le donne che allattano, e sostenuto che gli immigrati sono delinquenti che stuprano e rubano. E questo è solo un piccolo esempio [Anna Guaita, Il Messaggero 5/8].
L’annuncio della candidatura è stato fatto, a giugno, con un evento a New York, nella Trump Tower, davanti al Palazzo di Vetro dell’Onu. Introdotto dalla figlia Ivanka, Trump ha detto che “l’America ha bisogno di un grande leader”, mentre Obama non va bene neppure come cheerleader. Vestito con i colori della bandiera, l’abito blu, la camicia bianca e la cravatta rossa, l’aspirante presidente ha attaccato l’Amministrazione Obama su tutta la linea, ma anche i repubblicani che “fanno solo retorica e non parlano dei problemi reali dell’America” [Giampiero Gramaglia, il Fatto Quotidiano 5/8].
Tra le altre cose, durante l’annuncio il sessantanovenne ha anche rimarcato: «Non mi interessa fare lobbying, cercare fondi, non mi interessano le donazioni. Userò i miei soldi. Sono molto ricco, sapete?», e poi un disegno con la mano per aria, come a dire “lasciatemi in pace” [Davide Piacenza, Rivistastudio.com 3/8].
«Il suo reality show è talmente rumoroso e invadente da aver distratto l’elettorato da qualunque altro problema, anche dalla magagna delle email di Hillary, improvvisamente arrivate all’attenzione degli agenti federali. Lei anela a un alleggerimento della pressione e dell’incessante scrutinio di ogni sua mossa, e Trump è una specie di mortaretto che costringe il pubblico a distogliere lo sguardo dal palcoscenico» [Mattia Ferraresi, Il Foglio 7/8].
Secondo il politologo Ian Buruma, il miliardario non è solo la versione americana del populismo incarnato dai comici tipo Beppe Grillo, o i razzisti come l’olandese Geert Wilders. Trump è il primo candidato della post-politica, che interpreta la stanchezza verso i professionisti del voto, la rabbia della classe media, il risentimento verse le elite e la “casta”. Quindi non conta quello che dice, ma come lo dice. Può sbagliarsi, contraddirsi, insultare, come ha fatto con i programmi per distruggere l’Isis, costruire un muro al confine col Messico, riportare il lavoro dalla Cina all’America, boicottare i trattati per il libero commercio, degradare l’eroe di guerra McCain, ma il suo elettorato gli resterà comunque appiccicito. Un bel dilemma, dunque [Paolo Mastrolilli, La Stampa 6/8].
Un’amministrazione Trump dovrebbe fare chiarezza sulla politica fiscale. Fino a pochi anni fa Trump diceva che «il peso della società va portato da chi è in grado di contribuire di più», mentre oggi si è reinventato in qualche modo epigone del liberismo. Trump si è a tal punto contraddetto e ha a tal punto piroettato su se stesso e sulle maschere che ha indossato sul palcoscenico della politica che l’Huffington Post ha deciso di continuare a seguirlo, ma nella sezione dell’entertainment [Mattia Ferraresi, Panorama 6/8].
In realtà i sondaggi danno Jeb Bush davanti a Hillary Clinton in un ipotetico scontro elettorale diretto nel novembre 2016. Ma gli stessi sondaggi dicono che il vero problema di Jeb è arrivare alla « nomination » repubblicana, visto che il meccanismo delle primarie avvantaggia i candidati più estremi, quelli con un messaggio preciso e tagliente, anche se poco realistico [Massimo Gaggi, Corriere della Sera 6/8].
Trump è invece l’espressione estrema di un partito che nell’ultimo decennio, e ancor più dopo l’elezione di Obama nel 2008, ha conosciuto un’inesorabile radicalizzazione e che una volta assunto il controllo della Camera (nel 2010) ha mostrato poca o nulla disponibilità al confronto e al compromesso. Un partito nel quale, stando ai sondaggi, il 95% dei votanti alle primarie sarà bianco (è il 77% nel paese), con una chiara sovra-rappresentanza di maschi over-50. Un partito, in altre parole, che nella sua (non) diversità demografica e in alcune delle sue principali parole d’ordine pare assomigliare molto di più all’America di un secolo fa che a quella d’oggi [Mario Del Pero, Il Messaggero 6/8].