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 2015  agosto 07 Venerdì calendario

LE VACANZE DEI GIAPPONESI IN GIAPPONE

Se in una notte estiva di luna piena vi ritrovate in fila indiana come sulle scale mobili della metropolitana di Tokyo nelle ore di punta, con il naso gocciolante per il freddo, schiacciato sul sedere di chi vi precede che, a sua volta, un passo più su, rantola per la fatica; e dovunque guardiate attorno a voi, non vedete che segmenti di un infinito serpentone di esseri umani nelle stessa vostra disastrosa postura, strisciante come un mostruoso millepiedi, sinistramente illuminato da torce tremolanti, non datevi pizzicotti per svegliarvi da un incubo kafkiano: per quanto incredibile, siete in piena realtà. State compiendo la scalata ideale del Monte Fuji, l’impresa sognata da ogni giapponese: scarpinare l’intera notte per arrivare distrutti, semicongelati, ma puntuali in cima e vedere il sole che sorge, maestoso. È l’agognato goraiko, pochi ideogrammi che significano «l’alba vista dalla cima del Monte Fuji». Spettacolo invero mozzafiato da cui provengono la denominazione di Paese del sol levante e la bandiera nazionale, un grande sole rosso in campo bianco.
Non sei un vero giapponese se almeno una volta nella vita non ti metti in fila con migliaia di persone per scalare il Fujiyama (yama vuol dire montagna). Se lo fai una volta nella vita sei bravo, se lo fai due volte sei pazzo, dicono coloro che ritornano distrutti dalla fatica. Che dire allora dello stato mentale della guida Fusakichi Kaji che in 50 anni di lavoro l’ha compiuta 1.672 volte, record da poco battuto? Ogni anno, una travolgente orda di oltre mezzo milione di persone di ogni ceto, sesso, età si mette in marcia verso la vetta del Monte Fuji che con i suoi 3.776 metri è la più alta e la più sacra montagna del Giappone. Fra i tanti suoi titoli, vi è anche quello di «montagna più visitata al mondo». Fino al 1872 la sua scalata era proibita alle donne, ma la signora Tatsu Takayama si beffò della legge, giungendo in vetta travestita da uomo 40 anni prima che il divieto fosse abolito. Dal primo luglio al 14 settembre, la stagione delle scalate autorizzate, possono raggiungere picchi di diecimila al giorno gli infervorati pellegrini che si inerpicano in un’interminabile fila indiana sulle pendici del vulcano.
Molti partono con un esagerato equipaggiamento da sherpa, ma molti altri si avviano come per una passeggiata nel parco della propria città. Dopo tutto, nelle belle giornate, il Monte Fuji con il suo svettante cono ricoperto di neve dieci mesi all’anno, lo si può vedere dal centro di Tokyo, a 113 chilometri di distanza. Da Shinjuku, nel cuore della capitale, irto di grattacieli, lo si raggiunge in meno di due ore e mezzo, e si può pagare il biglietto con banconote da mille yen (circa 6 euro) dove è magnificamente raffigurato il vulcano, la cui ultima eruzione risale al 1707, quando uno spesso strato di cenere ricoprì le strade della gaudente Edo, l’attuale Tokyo. La sua vista è così famigliare ed è così semplice raggiungerlo che è difficile immaginarlo come una meta temibile. Molti, anche famiglie con figli adolescenti, partono allegramente come per una scampagnata fuori porta. È tra questi sprovveduti e spensierati scalatori che il Fuji-san (il signor Fuji, come viene chiamato con affettuoso rispetto), forse offeso per essere preso così sotto gamba, miete gran parte delle sue vittime, in media otto all’anno, per fame, freddo, crisi respiratorie, mal di montagna, cadute. Molti altri scampano alla morte grazie ad un efficientissimo servizio di assistenza che trasporta negli ospedali più vicini centinaia di scalatori vittime di incidenti gravi.
Ben più alto è il numero dei morti, tutti impiccati agli alberi della foresta di Aokigahara, che si stende per 35 chilometri quadrati alle pendici del Monte Fuji. È una selva oscura che per ragioni imperscrutabili attrae irresistibilmente giovani giapponesi decisi a toglierci di mezzo anzi tempo: una macabra media di cento all’anno, nonostante un accurato servizio di sorveglianza e grandi cartelli posti in punti strategici dalle autorità con esortazioni a rinunciare all’atto estremo e a concedere ancora fiducia alla vita.
Si ritiene che la foresta sia infestata dagli spiriti delle vittime dell’ubasute, l’antico e sbrigativo modo di risolvere il problema di una nonna troppo anziana per provvedere a se stessa: i figli le davano provviste di acqua e cibo sufficienti per pochi giorni e l’abbandonavano in luoghi impervi – la foresta di Aokigahara era uno di questi. Si dice che gli spiriti di queste donne si vendichino attraendo i giovani nell’intrigata foresta dove non penetra il sole, spingendoli poi al suicidio.
L’ascesa alla sommità del Fujiyama si può compiere seguendo almeno quattro diversi itinerari. Il più affollato è quello di Hakonè, famosa stazione termale, con acqua a 42 e più gradi centigradi proveniente direttamente dalle viscere del vulcano in cui stoicamente i giapponesi si crogiolano prima o dopo la scalata, alloggiando nei numerosi ryokan, locande tradizionali dove il tempo sembra essersi fermato a qualche secolo fa.
Il percorso è suddiviso in dieci stazioni. La maggior parte degli scalatori parte a piedi da una delle stazioni del quinto livello, raggiungibile in macchina e in autobus. La più frequentata da chi viene da Tokyo è la Kawaguchi-ko, a 2.305 metri altezza. Dalla fine della strada asfaltata alla cima ci vogliono almeno cinque ore di marcia. Molti, non paghi, – è nota la passione al limite del masochismo dei giapponesi per lo sforzo fisico – ce ne aggiungono ancora due per compiere il periplo del cratere del cono vulcanico, sgobbata supplementare denominata Ohachi meguri (giro attorno alla pentola) prima di iniziare la marcia di quattro ore del ritorno. Che per i più arditi include la osunabashiri, una vertiginosa «scivolata» sulle terga lungo un costone di sottile sabbia rossa: una picchiata in stile libero di oltre un chilometro, stando bene attenti a non smarrire nell’inevitabile serie di capitomboli il bramato certificato tanto faticosamente conquistato che conferma l’effettivo raggiungimento della vetta.
I meno spericolati, prima di affrontare l’impegnativa discesa, fanno abluzioni con l’acqua che sgorga da due sorgenti sacre presso la cima: la Fonte dell’acqua e dell’oro lucente e la Fonte dell’acqua e dell’argento lucente, entrambe, secondo la leggenda, dotate di potenti proprietà taumaturgiche.
Il Fuji è una montagna sacra alla religione shinto sin dal diciassettesimo secolo. Dalla base alla vetta spuntano santuari shinto che si alternano ai quaranta rifugi pronti a rifocillare ed assistere pellegrini esausti. La religione shinto onora circa otto milioni di deità, tra queste quella della Principessa Konohanasakuya, la dea del Fujiyama, la cui icona è il bocciolo del ciliegio.
Una raccomandazione da non trascurare è quella di portare con sé molte monete da 100 yen (0,70 euro), perché solo con quelle si può avere accesso ai gabinetti chimici approntati con generosa frequenza lungo tutto il percorso. Di fare i propri bisogni all’aperto sulle pendici del sacro monte non se ne parla neanche. Piuttosto si muore. La principessa potrebbe offendersi e scatenare vendicativi tifoni. E poi, con tutta quella folla, come scovare un angolo dove appartarsi? Una cosa invece che si deve assolutamente fare, una volta arrivati in cima, è spedire una cartolina dall’ufficio postale più alto del mondo, come certificato da timbri e francobolli. Il servizio postale giapponese è cosi efficiente che con tutta probabilità l’irrefutabile prova della «missione compiuta» arriverà al destinatario prima ancora che il mittente rientri a casa.
In un’ideale classifica delle più appassionate giornate di vacanza giapponesi, subito dopo la scalata al Monte Fuji, vengono le feste di origine religiosa. Ce n’è almeno una al giorno. I giapponesi ne vanno pazzi e vi partecipano in massa. Si chiamano matsuri (festa) e sono essenzialmente centrati sul trasporto a spalla di pesanti altari con grandi effigi delle deità che si intendono adorare ed implorare. La processione zigzaga per ore nelle vie centrali della città sempre attorniata da fedeli ebbri di sakè, spesso distribuito gratis. I due matsuri più amati e caldamente partecipati sono quelli di Kanamara, nella città di Kawasaki, e di Honen, nella città di Komaki. Sono entrambi dedicati al dio della fertilità e la statua trasportata raffigura un enorme pene (d’acciaio nel primo, di legno nel secondo) contro cui si strofinano donne seminude che chiedono la grazia della fertilità. Il primo pene ricorda quello forgiato da un fabbro leggendario per deflorare una promessa sposa dentro la cui vagina si era nascosta un demone-femmina con una vagina dentata. Il secondo, quello ligneo, alto 2,5 metri e pesante 280 chili, all’apice della festa viene masturbato freneticamente dai pellegrini a mo’ di orazione finale, prima che adorato e adoratori siano fatti festoso bersaglio di piccoli dolci di riso aspersi dagli officianti, chiaro simbolo dello sperma divino che rendere fertili matrimoni e raccolti.
Per chi ama vacanze meno impegnative, rimangono i bagni nelle acque vulcaniche ribollenti delle montagne del nord dove può capitare di dividere la larga pozza fumante in cui ci si è immersi con una famiglia di pacifici macachi a cui si possono offrire uova sode lessate nella stessa acqua.
Ma non si scoraggi chi predilige vacanze dell’anima a quelle del corpo: a loro sono dedicati raffinati giardini, veri poemi scritti con piante, foglie, sassi e acqua. Giardini da meditazione. Come quello della città di Okayama. Si chiama Korakuen e vuol dire : riflettete gente - «giardino |per ottenere piacere più tardi».
Silvio Piersanti