Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 06 Giovedì calendario

LA VITA È UN COCKTAIL DA BERE CON LEGGEREZZA

[Intervista a Raffaele La Capria] –
Guardare il mondo in controluce, attraverso un bicchiere di Martini. L’osservatorio sarà anche parziale, ma quel cocktail agevola la conversazione. Raffaele La Capria potrebbe adagiarsi sugli allori di una fama letteraria (la sua opera raccolta da Mondadori in due volumi tocca le 2.500 pagine), che lo rende tra gli autori italiani più letti e apprezzati. Lui al contrario, a quasi 93 anni, si diverte a scrivere insieme con lo psicanalista Umberto Silva, Al Bar: una sessantina di pagine pubblicate da Nottetempo, un resoconto degli incontri fatti la domenica mattina nel tempo di un aperitivo, ai tavolini di piazza di Pietra, a Roma. «Conosco Raffaele da vent’anni e in lui c’è questa mobilità di interessi unita a una totale, allegra mancanza di paura» racconta Silva. «Come quando, non più di cinque anni fa, si buttò in mare dall’albero del caicco su cui eravamo in crociera, al largo della Turchia. Rimanemmo alcuni secondi col cuore in gola, ma lui rispuntò tutto contento dell’acrobazia. È così: si tuffa ancora nella vita». Nei brevi episodi di Al bar sfilano gli orrori del reale accanto a considerazione sui mocassini e sui legami tra uomini e cani. Il bello e il brutto, il perfido e il misericordioso, i massimi sistemi e le minime esistenze, tutto mescolato come succede nella vita. Mescolato ad arte, però, come in un Martini ben fatto.
La Capria, qual è il vantaggio di meditazioni fatte al bar?
La leggerezza. In un’epoca così complicata, persino nelle definizioni intellettuali, mettercene un po’ nel discorso non è male. Fa levitare anche l’animo.
Lei è riuscito a tenersi leggero?
Ho cercato di liberarmi dalle pesantezze, talvolta riuscendoci. L’istinto mi ha portato a questo. E mi ha aiutato passare l’adolescenza a Posillipo, uno dei luoghi più belli di Napoli, che per i greci significava «il posto dove cessa il dolore». Abitavo a palazzo donn’Anna, che si sporgeva sul mare: mi tuffavo direttamente da una delle finestre... Tutto questo mi ha dato questo senso della luce, che è diventato un po’ visione della vita ed è entrata nel libro La bella giornata. Un’aspettativa di felicità che il mio protagonista, come ognuno, nutre dentro di sé. Poi, però, anche se il cielo è azzurro e brilla il sole, qualcosa non torna. Il tran tran quotidiano non è pieno di possibilità come lui si aspettava. L’occasione persa riguarda anche Napoli, la sua città.
Com’è Napoli, oggi?
Io vedo la vita moderna come un fiume che scorre: ai suoi lati si allargano piccole anse dove l’acqua è ferma. In una di queste c’è Napoli, con la sua meravigliosa arretratezza. Fa parte di un tempo antico superato, di cui però abbiamo nostalgia. Lì c’è il dialetto, che avvolge come una coperta: un tipo di espressione fatto più sottintesi che di cose esplicite, e che fa capire tutto mirabilmente. E c’è la fraternità che unisce in una rete i napoletani e ancora c’è una cultura viva. Poi, però, Napoli è Giano bifronte. Ha la faccia del bene, di cui non possiamo fare a meno. L’altra è quella del male, ogni male possibile. Luce e ombra vanno insieme.
Questo Paese riuscirà a cambiare?
La mentalità è tra le cose più difficili da trasformare. Viviamo in una zona del Mediterraneo dove la corruzione si nasconde anche dietro le parole, persino le più nobili. Prenda il termine, «amico»: per noi, già sottintende quello che ci può favorire, che costituisce una scorciatoia in caso di necessità.
Ha scritto che l’italiano è un «cinico sentimentale».
Una sua caratteristica è che si conosce e non si piace. Siamo una strana commistione di sentimento e cinismo, appunto. Assassiniamo il prossimo con la stessa dolcezza con cui poi chiediamo di essere perdonati. Siamo una nazione di perdonati e perdonanti.
Parlando in termini letterari: Matteo Renzi è più vicino a un machiavellico Principe 2015 o a Don Chisciotte di Cervantes?
È un piccolo politico italiano, come tanti altri. Emergenze ambientali, migrazioni, trasformazioni del lavoro, i politici semplicemente non sono all’altezza dei problemi, spesso irrisolvibili, che dovrebbero affrontare. E guadagnano troppo rispetto a quel che fanno.
Beppe Grillo e Matteo Salvini?
Banalizzano tutto perché non capiscono. Oppure capiscono troppo bene. Intanto, prendono voti. Lei ha tre nipoti: pensa al loro futuro? Dovranno cercare soluzioni ai guasti che lasciamo loro in eredità. Non siamo stati molto bravi e morali, alla fine.
Se la caveranno?
I giovani sono sempre belli, mettono allegria e riconciliano con la vita. Alcuni sono intelligentissimi. Però, mi sembra che non diano il peso che noi riconoscevamo alla cultura. Qualcosa che secondo me rende il vivere più accettabile.
Oggi ci sono i social network.
Mi danno un’impressione di gelo. Non mi piace questo parlarsi a distanza. Con gli amici, c’incontravamo «da Rosati», a via Veneto... Eppure la tecnologia è utile: uso il computer, correggo gli errori. Per lo scrittore è straordinario: esce il testo pulito. Zac! Tutti i tormenti di una pagina non si vedono più.
Quali intellettuali avevano una funzione nella società?
Goffredo Parise era il migliore. A parte la leggerezza con cui ha saputo vivere, ha scritto uno dei più bei libri del ’900. Italo Calvino scriveva romanzi importanti, ma con quell’impalcatura intellettuale, a volte distante. Parise, no: nei suoi Sillabari c’è vita, quella che lui amava, bellissima, che fugge e bisogna prendere al volo perché non c’è tempo.
Lei ha molto scritto sulla bellezza. Anche su La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Ha visto anche l’ultimo film, Youth?
Sono un suo amico e ho visto quei film. Sono girati da una persona che conosce bene l’estetica delle immagini, però insomma non hanno una trama.
E se non c’è storia non c’è neppure la responsabilità dell’autore rispetto a quello che afferma.
Nel suo Al bar c’è questo personaggio femminile, laterale ma non secondario, che è «la brunetta». Quali rapporti intrattiene con la bellezza femminile?
Quando vedi passare per strada una ragazza carina, hai la dimostrazione che in natura la bellezza esiste. Come quando vedi zampettare un passerotto su un davanzale. Non c’è bisogno di spiegazioni. E la bellezza ha mille facce: ci salva. Nell’arte, per esempio, oggi viene un po’ trascurata. Bisogna prima spiegare l’opera e quindi, forse, magari, si prova una sensazione, non necessariamente di bellezza. Mi chiedo: quando i Bronzi di Riace furono ripescati dal mare, ci sono volute tante spiegazioni? Ma anch’io, lo so, semplifico troppo.
Come dev’essere un Martini, per lei?
Dry. Molto gin con un desiderio di Martini. Allo stesso modo della scrittura, dello stile di una persona. Ho scritto di recente un articolo sulla caratteristica che Calvino avrebbe dovuto aggiungere nei consigli per questo millennio. Per me è l’adeguatezza. Nella scrittura non una parola di troppo, ma «q.b.», quanto basta. Non si spara alle formiche col cannone. E la Venere di Milo non sarebbe la stessa con un grammo di marmo in più.
Sta scrivendo qualcosa?
Soprattutto articoli per giornali, cercando di racimolare un po’ di soldi. Ma insomma, scrivere mi aiuta a tenere la mente sveglia. A una persona di novant’anni serve a uscire da una vita fatta d’immobilità, che è il più grosso inconveniente. Immobilità relativa: suona il cellulare ed è il direttore teatrale Ruggero Cappuccio, che chiama La Capria per un intervento che ha in programma a un festival, nel Cilento. Nonostante tutto, lui si metterà in treno e arriverà a Salerno.
Scrittura a parte, un’altra passione?
L’esplorazione dei fondali marini, che richiede però giovinezza... E ora anche quella è diventata materia televisiva. Tolgono la sorpresa che provai io all’inizio e che ho raccontato in Ferito a morte. Entravo in un mondo favoloso. Oggi anche l’oceano è uno sceneggiato televisivo.
Al Bar, con tono svagato, lei e il suo interlocutore Umberto Silva scendete in profondità?
Le cose anche importanti vanno toccate così, di passaggio. Perché anche noi siamo «en passant».
Andrà nella sua Capri quest’estate?
I suoi saliscendi non fanno più per me. È, come suggerisce il nome stesso, capricciosa. Ma quando ci andavo, avevo casa sotto il monte Solaro. Ci si arrivava dopo 200 scalini. Una volta in cima, però, mi facevo un bagno più che in piscina in quella specie di bagnarola che mi ero fatto costruire. C’era il mare infinito, davanti. Ora sono diventato marinaio di campagna: andrò qualche giorno nella casa di Ilaria (Occhini, sua moglie, ndr) ad Arezzo.
Anche qui non si sta male: dal suo terrazzo si vedono, a destra il Pantheon, a sinistra la cupola del Gesù e, più lontano, quella di San Pietro.
Roma è sempre stupenda dal punto di vista estetico. Ma gli amministratori è come fossero ciechi, non vedono tanta bellezza. L’altro giorno mi sono affacciato su piazza del Popolo, la mia preferita, neoclassica, perfetta. Mi è venuto un colpo al cuore: era sconvolta da cartelloni, auto mal parcheggiate, tende. È come se la bellezza infastidisse, uscisse dai soliti canoni.
Marino ha le sue colpe?
Mi pare una brava persona. Ma con tutti i casini che ha Roma... Vanno oltre le sue possibilità.
A ottobre compirà 93 anni. Festa?
Macché! La mia paura è arrivare ai 100, ai 150.
Cinquant’anni fa lei ha sposato sua moglie, Ilaria Occhini.
Per fortuna l’amore si trasforma. Quello romantico, giovanile, con le tempeste del cuore e le liti, è vero se col tempo diventa un’altra cosa. Quel sentimento bellissimo, riposante e per fortuna senza obblighi, che è il legame coniugale. Non più battibecchi, sussulti del cuore, gelosie...
Era geloso?
Moltissimo. Perché Ilaria era bellissima e, come le donne belle, molto corteggiata.
Si sente ancora Candido, come dal titolo di una sua antologia?
Soprattutto, mi sento inadeguato. Ogni volta mi sembra di non essere all’altezza di ciò che devo affrontare. In questo sono rimasto adolescenziale. Resto un uomo in bilico, perplesso, non per nulla il mio segno zodiacale è la bilancia: sempre oscillante.
Però è anche la molla che le ha fatto scrivere.
Tutto è cominciato da un canarino che mi si posò sulla spalla. È sempre il desiderio di trasmettere con le parole, a chi mi legge, la forza di quell’emozione che provai.
Di notte, prima di spegnere la luce, l’ultimo pensiero della giornata?
Un piccolo progetto: domani è un altro giorno e io che cosa posso fare per riacchiappare il filo.