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 2015  agosto 06 Giovedì calendario

CHE DISASTRO, INGEGNERE

A fare scandalo basterebbe, da sola, la cupa contabilità parallela dei decessi. All’Ilva di Taranto la Procura imputa 386 morti dal 1998 al 2010: 32 all’anno. E quell’inchiesta da tempo campeggia su tutti i giornali. Alla centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure si attribuisce dal 2005 al 2010 un numero di morti compreso tra 427 e 657: da 85 a 135 l’anno, una strage da tre a cinque volte superiore a quella pugliese. Eppure finora quella di Savona è quasi un’inchiesta fantasma, l’indagine forse più ignorata d’Italia.
E lui? È stato completamente ignorato dai giornali. Protetto. Graziato in anticipo. Carlo De Benedetti, nemmeno indagato in quanto formalmente lontano dalle decisioni aziendali, ha sempre avuto una capacità singolare nel far sì che l’opinione pubblica non venisse minimamente scossa dalle inchieste sulle sue imprese in campo ambientale. Il risultato vale oggi per le centinaia di decessi di cui è accusata la sua Tirreno Power, esattamente com’è stato ieri per la ventina di morti causate dalla polvere d’amianto usata nella sua Olivetti dal 1981 in poi. È vero che nel dicembre 2014 i giornali (ma solo alcuni) hanno scritto che la Procura d’Ivrea ha chiesto il rinvio a giudizio dell’Ingegnere, che dell’Olivetti fu amministratore delegato dal 1978 al 1996, e di 30 manager, accusati di «non aver voluto procedere alla bonifica dei reparti». Ma nel silenzio dei mass media l’udienza preliminare prima è stata sospesa in maggio perché gli imputati hanno ricusato il giudice, poi è stata rinviata al prossimo 23 settembre. E tutto è scivolato via, come acqua sulle piume di una papera. Come sempre: l’Ingegnere è uscito «pulito» da tutti i suoi giudiziari, anche perché spesso trattati con clamorosa lentezza dai tribunali.
Chissà, forse un giorno ci penserà uno storico a mettere ordine nelle carte e a raccontare la vera storia delle aziende dove De Benedetti ha infilato lo zampino. In quel caso, magari, il ritratto che ne uscirà correggerà la sua immagine. Resta il fatto che il finanziere, una volta acquistato nel 2002 per 145 milioni circa il 40 per cento di Tirreno Power e dopo averla fatta entrare nell’orbita di Sorgenia, la società del gruppo Cir attiva nell’energia «pulita», non ha certo brillato per sensibilità ecologica. Che bel paradosso: i suoi giornali, dall’Espresso alla Repubblica, hanno sempre bastonato senza pietà chiunque incappasse nel minimo guaio giudiziario in campo ambientale. Ma prima di essere ceduta nello scorso marzo alle banche creditrici per colpa di un «buco» monstre da 1,9 miliardi di euro, per 13 anni la verdissima Sorgenia della famiglia De Benedetti è stata la seconda azionista di Tirreno Power, dopo Gaz de France, e a sentire gli inquirenti a Vado Ligure ha speculato come uno dei peggiori inquinatori dei nostri tempi. Nel senso che, pur consapevole dei pericoli delle emissioni della centrale e dell’obsolescenza dei suoi impianti, ha contribuito a sfruttarli fino all’ultimo, investendo il meno che poteva in sicurezza e tutela ambientale.
Eppure, interrogato il 13 marzo 2015, Riccardo Zingales, per sei anni a capo del collegio sindacale di Sorgenia, ha messo a verbale che da Vado «piovevano soldi come latte dal rubinetto; erano anni d’oro, c’era un grosso differenziale tra il costo di produzione e il valore di vendita». La Procura calcola che, dalla sola centrale di Vado, Sorgenia e gli altri azionisti abbiano incassato un profitto di «oltre mille milioni di euro tra 2002 e 2013»: un terzo del margine prodotto da Tirreno Power in quel periodo. Sfruttando gli impianti a carbone ereditati dall’Enel alla fine degli anni Novanta e adottando comportamenti senza scrupoli, mirati «sempre e solo alle soluzioni più redditizie», come nascondere i dati e fare pressioni su enti locali e ministeri per ottenere vantaggi indebiti.
Solo nel triennio 2006-2009, proprio quando in base agli accordi con il ministero dell’Ambiente avrebbe dovuto avviare intense ristrutturazioni degli impianti liguri e il passaggio dal carbone al metano «pulito», Tirreno Power regala agli azionisti dividendi per 429 milioni. Il metano di Vado, invece, è rimasto un miraggio. Però quel miraggio è stato pubblicamente sbandierato fino all’ultimo: anche a metà del 2014, quando l’inchiesta di Savona è già emersa alle cronache da quasi un anno. Il passaggio al metano è una finzione scenica che serve per giustificare le continue richieste di proroghe ambientali e insieme per coprire i comportamenti e le reali intenzioni degli azionisti di Tirreno Power, come mostrano gli ammonimenti che nell’aprile di un anno fa Francesco Dini, dal 2004 direttore degli affari generali della Cir di De Benedetti e suo manager di fiducia, rivolge a Massimiliano Salvi, direttore generale della società. Dice Dini: «Vado Ligure 6 (cioè l’impianto a metano mai realizzato, ndr) va tenuta in vita perché dà coerenza a tutto il progetto e soprattutto smentisce la tesi della Procura». Per giustificare i ritardi, aggiunge Dini, «devi dire che è la crisi, è la congiuntura che mi impedisce di fare degli investimenti. Perché non è finanziabile, perché i miei soci non me l’approvano in quanto non redditizio».
Che l’azionista non abbia alcuna voglia di spendere nella centrale di Vado, in realtà, è sicurezza antica. Dal 2009 in azienda viene addirittura ridotto il budget per la manutenzione ordinaria e straordinaria. E proprio mentre la Sorgenia debenedettiana in quegli anni vende agli italiani il mito dell’energia «pulita», prodotta da fonti rinnovabili che intanto regalano alla società una media di 20 milioni l’anno in sussidi pubblici, la centrale di Vado va ad acquistare in Colombia e Indonesia un carbone di qualità molto inferiore a quello finora comprato in Russia e negli Stati Uniti: e meno costoso perché ha un tenore di zolfo molto più elevato.
A Vado non si fa nulla nemmeno per ridurre le pericolose emissioni di polvere dall’immenso «carbonile», il deposito all’aperto dove giacciono in media da 200 a 300 mila tonnellate di carbone, a diretto contatto col terreno: e questo malgrado risalgano al 2001-2002 gli impegni aziendali per contenere la polvere nera, che alla prima brezza vola via per chilometri e viene inalata da migliaia di residenti. La soluzione, parrà incredibile, è spruzzare acqua sul deposito (forse causando infiltrazioni nella falda) spesso senza centrare i cumuli di combustibile.
Nel 2012 la società di nuovo s’impegna formalmente con il ministero dell’Ambiente a realizzare una copertura efficiente del carbonile. Ma è un’altra finzione scenica. «È una manfrina: non ci sono i soldi, non si sarebbe mai fatto» dice Pasquale D’Elia, capo della centrale, intercettato. La Procura denuncia di avere le prove di una «fittizia trattativa» con alcune ditte costruttrici, intavolata di recente al solo scopo di dimostrare un’irreale volontà riparatrice. Il rappresentante di una ditta dice a verbale: «Se potessi (a quelli di Tirreno Power, ndr) gli metterei le dita negli occhi. Perché noi abbiamo speso soldi per fare progetti che poi era chiaro che non gli interessavano per niente».
Gli inquirenti sono convinti che non sia l’unica volta che la società ha giocato sporco: hanno scoperto che dall’inizio del 2013 la centrale di Vado, per almeno un anno, nei suoi impianti obsoleti ha bruciato perfino «Ocd», cioè olio combustibile denso, con un tenore di zolfo ancora più alto del carbone, tra lo 0,3 e l’1 per cento. L’Ocd è vietato per legge dal 2006, ma in questo caso la direzione dello stabilimento, cinicamente sfruttando la confusione e la lentezza della burocrazia statale, ha presentato una formale richiesta di utilizzo al ministero nel marzo di quell’anno, ottenendone l’inevitabile risposta negativa soltanto in dicembre. Il risultato di tutti questi comportamenti? Dal 2000 al 2013 dai due camini di Vado sono uscite quasi 67 mila tonnellate di velenosa anidrida solforosa: per intenderci, il peso della colossale portaerei Kuznetsov, l’ammiraglia della flotta russa lunga 306 metri, con i suoi 52 aerei da guerra. Più altre 20 mila tonnellate di ossidi d’azoto. Più 1.700 tonnellate di polveri, e chissà cos’altro. Questo, scrivono i magistrati, nonostante l’azienda avesse «la possibilità tecnica ed economica, grazie agli ingenti profitti, di applicare modalità di gestione almeno corrispondenti a quelle adottate in precedenza dall’Enel». La Procura calcola che i «mancati, minimi interventi di ambientalizzazione», compresa la copertura del carbonile, sarebbero costati 100 milioni: un decimo dei dividendi incassati da De Benedetti e dagli altri azionisti. Non soddisfatta, la dirigenza aziendale avrebbe miscelato le ceneri di carbone e di Ocd, una pratica proibita perché le seconde sono «rifiuto speciale pericoloso» e vanno trattate con costose procedure ambientali. E avrebbe perfino manomesso i sistemi di rilevazione delle emissioni: nel dicembre 2012 Tirreno Power s’era impegnata a installare un misuratore di veleni all’interno di una delle sue due ciminiere. In realtà avrebbe collocato l’apparecchiatura in un condotto orizzontale. Intercettato, il responsabile ambientale della centrale, Alessandro Colaprico si fa sfuggire queste parole: «Ci prescrivevano di mettere il misuratore al camino (...). Diciamo che è virtuale...».
C’è poi il capitolo, forse ancor più imbarazzante per un finanziere che pochi anni fa si era detto «tessera n° 1 del Pd», delle pressioni esercitate da una sua azienda sulla politica. Dalle intercettazioni emerge che dirigenti di Tirreno Power e Cir hanno avuto incontri e contatti con l’ex viceministro dello Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, oggi sottosegretario a Palazzo Chigi (ma non indagato). Negli atti giudiziari compaiono alti funzionari ministeriali che, pur consapevoli di lavorare per presunti inquinatori, s’impegnano alla stesura di ambigue leggine riparatrici, con scadenze allungate, scritte su misura per consentire all’impianto di andare avanti. Nel maggio 2014 viene intercettatto Giuseppe Lo Presti, responsabile della divisione Rischio del ministero dell’Ambiente: con alcuni colleghi sta scrivendo il decreto che deve sbloccare il sequestro della centrale, ordinato due mesi prima dal Tribunale di Savona perché l’azienda, dopo mesi d’indagine, non ha ancora fatto nulla per rimediare al disastro. Il dirigente interviene per dilatare tempi e termini delle prescrizioni, e pare consapevole di quel che sta combinando: «Cerchiamo di fare una porcata, ma che almeno che sia leggibile». È un tipo spiritoso, Lo Presti: «Mi sputerei in faccia da solo; della serie “che fai in ufficio?” Il bastardo!». Poi ragiona su quanto è stato già fatto dal suo ufficio per l’Ilva e sarà applicato anche a Vado, in nome dell’occupazione. Ride: «Stiamo a fa’ una legge più dirompente dell’altra. Qui stiamo scardinando tutti i principi base dell’ordinamento». Nelle 34 mila pagine accumulate dalla Procura compare anche una richiesta inverosimile e disperata, in apparenza diretta allo stesso De Vincenti affinché si adoperi per indurre il ministero della Giustizia ad aprire un’ispezione sulla Procura di Savona.
A porre la questione a Mariano Grillo, capo della Divisione valutazioni ambientali del ministero dell’Ambiente, è Massimiliano Salvi, direttore generale di Tirreno Power dal dicembre 2014. Intercettato, spiega all’amico: «Paola Severino (avvocato della società ed ex ministro della Giustizia nel governo Letta, ndr) dice che in ’sto Paese i procuratori possono fare quel che vogliono. In pratica (quel che si chiede, ndr) è un gesto molto, molto forte. Per cui dico... pure De Vincenti... ieri mi dice... ma non si può fare un esposto al Csm? Non si può far aprire un’indagine da parte del ministro della Giustizia?». Grillo inizialmente reagisce con dignità: «Io mi astengo, come rappresentante delle istituzioni. Me sto zitto per quel che penso». Poi, però, conclude: «Lo posso dire a De Vincenti». Chissà se la richiesta è mai pervenuta.
Alla ricerca di appigli contro la magistratura, la dirigenza di Tirreno Power cerca di strumentalizzare perfino il sindacato. Circa 90 giorni dopo il sequestro dell’impianto, il 16 giugno 2014 il direttore Salvi chiama Andrea Mangoni (vedi box a lato), dal giugno 2013 al marzo 2015 presidente e amministratore delegato di Sorgenia, nonché membro del consiglio di Tirreno Power e manager di fiducia di De Benedetti. E gli racconta, entusiasta, di avere trovato un contatto utile grazie all’intermediazione di Giuseppe Zampini, presidente degli industriali genovesi: «Ieri mattina all’alba» rivela Salvi «mi ha fatto incontrare un sindacalista molto importante. È uno che non riesce nemmeno a parlare italiano, che parla tipo calabrese, però è il referente di Zampini. Questo mi dice: “Ma dottore, che dobbiamo fare? Occupare l’autostrada o buttarci sulla ferrovia?» Gli ho detto: se decidete di farlo, o lo fate adesso o non lo fate più».
Sono continui, poi, gli scambi tra i vertici aziendali e la Regione governata all’epoca dal centrosinistra di Claudio Burlando, che infatti è indagato per disastro colposo e abuso d’ufficio con 13 assessori e vari funzionari. Sono accusati di avere «procurato ingiusto vantaggio economico ai proprietari della centrale» omettendo controlli e autorizzando il mantenimento in funzione dei gruppi a carbone «che non avrebbero mai potuto essere autorizzati così com’erano».
Burlando avrebbe compreso almeno dal novembre 2009 che il nuovo gruppo a metano non sarebbe mai stato realizzato: eppure ha esercitato «forte pressione sui sindaci dei Comuni sedi dell’impianto, contrari alla centrale, a partecipare alla gestione e al controllo del progetto». E pur disponendo di studi sanitari che «individuavano la centrale come un’importante fonte di danno alla pubblica incolumità», il vertice della Regione «cooperava al disastro per colpa dovuta a imprudenza, negligenza o imperizia». Per l’accusa alcuni funzionari hanno addirittura predisposto bozze di delibera «lasciando in bianco i numeri» per consentire a Tirreno Power di riempirli.
Dalle carte emergono comportamenti molto più gravi di quelli imputati, per esempio, ai Riva proprietari dell’Ilva di Taranto, che pure sono stati massacrati dalla Repubblica. Proprio il quotidiano della famiglia De Benedetti, dopo avere nascosto per 18 mesi l’inchiesta giudiziaria su Tirreno Power, oggi ha improvvisamente scoperto il caso. Come se l’uscita della Cir dall’azionariato, in marzo, avesse liberato le sue penne.
Mangoni, che è stato uno degli uomini più importanti dell’Ingegnere in Sorgenia e in Tirreno Power, lamenta che qualche (raro) giornale abbia scritto di lui. E se la prende anche con Repubblica, ricordando che «come Sorgenia, era controllata da Cir». Mangoni accusa il quotidiano della casa di avere partecipato alla gogna mediatica, di avere presentato «ricostruzioni deliranti». Effetti assai minimalisti della legge del contrappasso. De Benedetti, però, non se ne dev’essere nemmeno accorto.