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 2015  agosto 04 Martedì calendario

ARTICOLI SULLA MORTE DI GIOVANNI CONSO DAI GIORNALI DEL 4/8/2015


GIOVANNI BIANCONI, CORRIERE DELLA SERA –
È stato un maestro del Diritto il professor Giovanni Conso, morto ieri all’età di 93 anni; uno studioso che ha attraversato le università, le commissioni di riforma dei codici, l’Accademia dei Lincei e le più alte istituzioni: il Consiglio superiore della magistratura, del quale fu anche vice-presidente, e la Corte costituzionale, di cui fu eletto presidente. Una vita spesa per una procedura penale efficiente e garantista insieme, come ricorda l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano: «Ha lasciato un segno elevato e duraturo per la nobiltà e disinteressata dedizione all’interesse generale del Paese e alla causa della democrazia costituzionale» .
Ma in una carriera così lunga e intensa, è l’anno da Guardasigilli, dal febbraio 1993 al maggio 1994, ad aver segnato più di ogni altra attività la sua immagine pubblica. Una breve parentesi in un periodo, la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, segnato da eventi clamorosi e drammatici: da Mani Pulite allo stragismo mafioso. Di entrambi i passaggi il ministro Conso è stato protagonista, sul momento e in seguito, fino a ritrovarsi indagato per «false comunicazioni al pubblico ministero» nell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia.
È la storia ormai nota degli oltre 300 decreti di «carcere duro» non prorogati ad altrettanti detenuti, a novembre 2013. Un segnale della disponibilità dello Stato ad arretrare di fronte al ricatto mafioso — secondo l’accusa —, per fermare le bombe e porre le basi di un nuovo patto di convivenza con i boss. A tutto questo l’ex ministro Conso s’è sempre dichiarato estraneo, sostenendo che fu una sua decisione presa «in solitudine», senza alcun mercanteggiamento: «L’idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato... Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!”, sbottò davanti alla corte d’assise di Firenze. Lo scorso 3 febbraio doveva comparire al processo di Palermo, ma le condizioni di salute già critiche glielo impedirono.
Nella ricostruzione di Conso sono rimasti passaggi poco chiari e interrogativi senza risposta (non solo da parte sua), ed è probabile che nella sua concezione di ministro responsabile dei propri atti ci fosse l’idea di trovare soluzioni mediate (oltre che meditate) che potessero garantire la tenuta delle istituzioni; indipendentemente da minacce o altro. Come tentò di fare con l’altra grande emergenza di quella tormentata stagione: il decreto per una «uscita politica» da Tangentopoli, con la depenalizzazione retroattiva del finanziamento illecito dei partiti. Una mossa bloccata dopo che i magistrati di Mani Pulite presero le distanze e il presidente della Repubblica Scalfaro pose il proprio veto.
Da non politico, il professor Conso cercava vie d’uscite politiche alle crisi che si trovò a fronteggiare, finendo per rimanere impigliato in polemiche che — rivestiti i panni dello studioso — a tanti anni di distanza faticava persino a comprendere. E come lui tanti giuristi, magistrati, allievi e estimatori che da ieri lo piangono con commozione e gratitudine.

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LA REPUBBLICA –
Funerali di Stato per l’ultimo addio a Giovanni Conso, che si è spento a Roma all’età di 93 anni (era nato a Torino nel ‘22). Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che parteciperà domani mattina alle 11 nella Basilica di Santa Maria degli Angeli alle esequie dell’ex presidente della Corte costituzionale, nella cui sede da questa mattina verrà allestita la camera ardente. Un uomo di «grande rigore, cultura, integrità morale» lo ha ricordato il presidente della Repubblica nel messaggio di cordoglio inviato alla famiglia, facendo piazza pulita delle polemiche che hanno segnato alcuni passaggi della sua lunga carriera. Giurista, due volte ministro della Giustizia con Amato e Ciampi, candidato al Colle dal Pds nel ’92 quando prevalse Scalfaro, vicepresidente del Csm, eppure il nome di Conso viene soprattutto associato a due drammatiche vicende che lo videro protagonista nell’annus horribilis 1993 segnato dalle stragi mafiose da un lato e dal ciclone Tangentopoli dall’altro. Perché come Guardasigilli dell’epoca, Conso firmò due provvedimenti che hanno lasciato una scia di polemiche e sospetti che si trascinano ancora oggi. Nell’oscura partita della trattativa fra Stato e mafia proprio in un decreto dell’allora ministro della Giustizia i magistrati di Palermo hanno visto una conferma alla loro ipotesi del patto sciagurato con Cosa Nostra: nel marzo del ‘93 Conso decise infatti di non rinnovare il 41 bis per 300 mafiosi sottoposti a carcere duro. Decisione sempre rivendicata come «scelta personale », un gesto non ispirato e non dettato da nient’altro se non dalla propria coscienza e dalla convinzione di poter così allentare in qualche modo la tensione. Niente a che fare insomma con la trattativa Stato- mafia. I magistrati di Palermo però lo citarono a deporre in tribunale ma Conso non si è mai presentato in aula per ragioni di salute.
Ed è sempre di quel tumultuoso marzo 1993 l’altro episodio che trascinò Conso nella bufera. Stavolta sul fronte Tangentopoli. Propone e firma un decreto, con valore retroattivo, per la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti. Un colpo di spugna sui reati di molti degli inquisiti, che provoca la sollevazione dell’opposizione di sinistra e la rivolta dei pm. Si dimette il ministro Carlo Ripa di Meana, contro il colpo di spugna si mobilitano le piazze. Alla fine, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro decide di non firmarlo. Conso offre le dimissioni, respinte da Amato. Il decreto finisce in soffitta.
Grande cordoglio per la sua scomparsa, da Grasso alla Boldrini, al presidente emerito Giorgio Napolitano.

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FRANCESCO GRIGNETTI, LA STAMPA – 
È morto il professor Giovanni Conso, presidente emerito della Corte costituzionale, ex ministro della Giustizia, ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ex presidente dell’accademia dei Lincei. Un giurista laico, rigoroso, affabile, di assoluta specchiatura morale, che muore amareggiato per essere stato indagato nel procedimento palermitano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Giovanni Conso era nato a Torino il 23 marzo 1922. Professore ordinario di procedura penale, era stato nominato Giudice Costituzionale il 25 gennaio 1982, dopo essere stato membro del Csm e suo vicepresidente nel 1981. Quella volta subentrò a Ugo Zilletti, travolto dallo scandalo della P2. Fin da allora Conso era considerato una riserva della Repubblica da far scendere in campo nei momenti di crisi. Così come accadde nel 1993-94, in piena bufera di Tangentopoli, quando Conso fu nominato ministro della Giustizia nei governi Amato e Ciampi, succedendo a Claudio Martelli.
In quel frangente Conso si trovò a fronteggiare due gravissime crisi politico-istituzionali. La prima, un decreto di amnistia per il reato di finanziamento illecito ai partiti, contenente un colpo di spugna anche retroattivo, e che Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di controfirmare. Il colpo di spugna era stato un blitz tentato da Giuliano Amato all’insaputa di Conso, che s’indignò, presentò le dimissioni, ma fu caldamente invitato a ritirarle per carità di patria.
La seconda crisi ha a che fare con le stragi mafiose del ’93. Nelle segrete stanze si era subito capito che la mafia reagiva con le bombe alla stretta dello Stato, ovvero il 41 bis nelle carceri. A Giuliano Amato nel frattempo era subentrato il premier Carlo Azeglio Ciampi. E fu Conso, nel marzo a non rinnovare il 41 bis a circa 300 mafiosi sottoposti a carcere duro. «Fu una mia scelta», dichiarò però in commissione Antimafia.
Ieri, alla notizia della sua morte, le istituzioni hanno reso unanime onore all’uomo. «Grande passione civica, sostenuta da rigore personale e spirito di indipendenza», scrive il Capo dello Stato, Sergio Mattarella. «Ha lasciato un segno elevato e duraturo per la nobiltà e disinteressata dedizione», gli fa eco il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Eppure non gli viene risparmiata un’ultima ombra anche nel giorno della morte. «Non ha fatto in tempo ad affrontare una corte di giustizia», lamenta l’Associazione vittime di via dei Georgofili. E dice Maurizio Gasparri: «Con Conso scompare anche un testimone della verità sulla resa dello Stato alla mafia».

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SILAVIA BAROCCI, IL MESSAGGERO –
La stanchezza e la delusione trasparivano, nell’ultimo anno, dalla voce sempre più flebile e dallo sguardo che aveva perso la vivacità di un tempo. Giovanni Conso è scomparso l’altra notte all’età di 93 anni. Giurista acuto e uomo sensibile, la sua è stata una lunga vita da avvocato, professore universitario, vicepresidente del Csm, presidente della Corte Costituzionale, ministro della Giustizia, presidente dell’Accademia dei Lincei e persino di candidato al Colle. Ha sempre mantenuto il sangue freddo, Giovanni Conso, anche quando contro di lui si erano indirizzati gli strali dell’opinione pubblica per quel decreto del marzo 1993 che depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti. Lo avevano ribattezzato ”decreto Conso”, dal nome dell’allora Guardasigilli, o meglio ”colpo di spugna” perché grazie a una norma retroattiva avrebbe salvato molti degli inquisiti eccellenti di Mani Pulite. Come andò a finire è cronaca: l’allora presidente della Repubblica Scalfaro non firmò e Conso presentò le dimissioni che, però, furono respinte. Tutti i protagonisti di quella drammatica stagione politica ben sapevano che la paternità del provvedimento era dell’allora premier Amato, ma Conso ha sempre voluto assumere su di sé le responsabilità di un incarico pesante, quello di ministro della Giustizia in un arco di tempo compreso tra le stragi di mafia e Tangentopoli. Lo ha fatto fino all’ultimo, riportando alla sua unica responsabilità il mancato rinnovo, il 2 novembre del 1993, di oltre 300 provvedimenti di 41 bis. Quelle affermazioni gli sono valse, due anni fa, l’iscrizione sul registro degli indagati per false dichiarazioni al pubblico ministero da parte dei magistrati di Palermo titolari dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Ecco, per chi lo conosceva bene, è stato questo il momento in cui Conso si è lasciato andare a una profonda amarezza. Mai esplicitata, come era suo costume. Ma che senz’altro gli stava rendendo gli ultimi anni di vita molto più faticosi.
L’ATTESA
D’altronde, e lui stesso lo sapeva bene, per vedere cadere o meno l’infamante accusa di aver mentito ai pm avrebbe dovuto attendere la fine del processo di Palermo, che se va bene si chiuderà con una sentenza di primo grado non prima del prossimo anno. Era stato collocato tra coloro che son sospesi, Giovanni Conso. Proprio lui che oggi molti magistrati di Md, la corrente di sinistra delle ”toghe”, ricordano come «uomo integro e probo». Giorgio Napolitano, che nel processo sulla trattativa Stato-mafia ha accettato di testimoniare dal Quirinale, è certo che Conso lascerà «un segno elevato e duraturo per la nobiltà e disinteressata dedizione all’interesse generale del paese e alla causa della democrazia costituzionale». Il presidente Sergio Mattarella, che molto probabilmente assisterà ai funerali che si terranno mercoledì nella basilica di Santa Maria degli Angeli, ne ha esaltato «la cultura giuridica» e la «riconosciuta integrità morale».
La «specchiata onestà» di Conso, ricordata da tanti giuristi della ”sua” Torino, tra i quali Carlo Federico Grosso, stride assai con il sospetto che, non confermando il carcere duro per oltre 300 boss, l’allora Guardasigilli possa essere stato strumento di un incoffessabile accordo: la fine della stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure previste dal regime del 41bis.
LA TESTIMONIANZA
Quel mancato rinnovo - spiegò Conso nel corso di un’audizione in Commissione Antimafia - «fu il frutto di una mia decisione, decisione solitaria, non comunicata ad alcuno. La decisione non era un’offerta di tregua né serviva ad aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi». Meticoloso, pignolo, lavoratore infaticabile. Il magistrato Eugenio Selvaggi, suo collaboratore al ministero della Giustizia, ricorda lunghi sabati e domeniche in Via Arenula. Alla fine era lui l’ultimo ad andare via. Persino a spegnere le luci del ministero. Tanto da aver lasciato una volta al buio il suo capo di gabinetto Loris D’Ambrosio.
Silvia Barocci

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MARIATERESA CONTI, IL GIORNALE –
«Morirò prima di arrivare a capire di cosa sono accusato». Ottobre 2012, un convegno a Roma. Da pochi mesi Giovanni Conso, morto la notte scorsa a 93 anni, non è più solo il «re» dei giuristi italiani, ex Guardasigilli e presidente emerito della Consulta, ma è uno degli indagati eccellenti del processo più infamante nei confronti delle istituzioni, quello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. E con le parole riportate all’inizio, gentile come sempre, Conso risponde ai cronisti che lo interpellano su un’accusa apparsa a tutti mostruosa e che spacca anche le toghe, a cominciare da Magistratura democratica, tanto abnorme sembra: false informazioni al pm, alias bugie, per occultare notizie utili alla ricostruzione del presunto patto tra i boss e lo Stato per fermare l’escalation stragista della mafia partita nel ’92 a Palermo con le stragi di Capaci e via D’Amelio e culminata nel ’93 nelle bombe di Roma, Firenze e Milano.
«Morirò prima di arrivare a capire», disse allora Conso. E in effetti, malato da tempo, se n’è andato prima di vedere tanto la conclusione del processo sulla trattativa, tuttora in corso in primo grado, tanto l’inizio del suo processo per false informazioni al pm (condizionato dalla fine del dibattimento principale), che a questo punto non comincerà nemmeno. Eppure. Eppure un personaggio del calibro di Conso una giustizia celere che spazzasse via le ombre mentre era ancora in vita l’avrebbe meritata. Anche perché i sospetti e i veleni che gli hanno ammorbato gli ultimi anni vengono dopo una vita intera spesa al servizio della legge, dello Stato, della cultura. Torinese, professore ordinario di procedura penale nelle università di mezza Italia, avvocato, diventa giudice costituzionale nel 1982, scelto da Sandro Pertini, e presiede la Consulta tra il ’90 e il ’91. Fa anche parte del Csm, ne è vicepresidente, nel 1992 entra pure in corsa per il Quirinale. E poi gli incarichi culturali, la presidenza dell’Accademia dei Lincei.
Fatale, per Conso è stata la politica attiva. E quell’incarico di ministro della Giustizia ricoperto in un annus horribilis sia sul fronte Tangentopoli sia sul fronte mafia: il 1993, governi guidati da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. Al nome di Conso, per quanto riguarda Mani pulite, si lega il decreto ribattezzato «colpo di spugna», con cui si depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti, poi bloccato dal Quirinale. E a una decisione di Conso fa capo quella che per i pm di Palermo rappresenta quasi la «pistola fumante», la prova che la trattativa Stato-mafia ci fu davvero: il mancato rinnovo del 41 bis (il regime di carcere duro) a oltre 300 detenuti per mafia. «Non ci fu alcun retroscena in quella scelta, decisi io, in solitudine», ha sempre sostenuto Conso. Ma i pm di Palermo non gli hanno creduto. E a giugno del 2012 lo hanno messo sotto inchiesta.
Non ce l’ha fatta nemmeno a deporre al processo sulla trattativa, Conso, al contrario di Napolitano, che invece i pm di Palermo hanno fatto a testimoniare da capo dello Stato. Citato nel febbraio scorso, Conso non si è presentato per motivi di salute. Unanime ora il cordoglio per la sua scomparsa, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Napolitano al Guardasigilli Andrea Orlando. La camera ardente è nella sede della Consulta. I funerali di Stato domani a Roma, nella basilica di Santa Maria degli Angeli.