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 2015  agosto 01 Sabato calendario

RIFUGIO TIBET. VIAGGIO NEL CUORE SEGRETO DELL’ASIA, DAL TRONO DI LHASA AI VILLAGGI SOCIALISTI (BASTA NON CHIEDERE DEL DALAI LAMA)

L’aria leggera, impalpabile che spinge i visitatori, appena scesi dall’aereo giunto da Pechino, a protendere in avanti il naso nello sforzo di inalare più ossigeno, regala inaspettatamente un’euforia condivisa, pare, anche da molti abitanti del Tibet. Almeno quelli autentici. «Siamo un popolo allegro, amiamo gli scherzi e le battute di spirito», dice la guida che accompagna la delegazione di giornalisti occidentali nella visita all’antico tempio di Jokhang, ai piedi del Potala: «Questo – spiega – è il luogo preciso dove è nata Lhasa, mille e più anni fa».
Sotto un sole implacabile, non filtrato dai 3.600 metri di altitudine, decine di fedeli si prostrano di fronte all’antico luogo sacro buddhista. La loro devozione è totale. Sui loro volti non c’è spazio per i sorrisi, solo per una concentrazione assoluta che li guida nei movimenti ripetuti all’infinito, rasenti il terreno, come bruchi che si inarcano per proseguire il cammino. «Ci sono due mondi in Tibet – annuisce la guida – mondi che difficilmente si incontrano». Uno è quello della spiritualità, profonda, coltivata da secoli di buddhismo che la Cina mostra di rispettare. Una dimensione dove, sembra incredibile, la figura del Dalai Lama è continuamente evocata: non solo dai fedeli che, al Palazzo d’Estate di Norbulingka, ultima dimora di Tenzin Gyatso prima della fuga nel marzo 1959, si inginocchiano di fronte al trono vuoto del loro antico sovrano assoluto. Sono in effetti gli stessi accompagnatori della piccola delegazione di reporter occidentali a raccontarne le gesta pre rivolta, stando attenti a non uscire dal seminato della religione. E se qualcuno osa chiedere come mai il capo del buddhismo tibetano non possa rientrare in Patria, la risposta è pronta quanto gelida: «Non ho mai sentito di una simile questione», taglia corto una guida cinese. E questo è il secondo mondo: quello della politica, che viene decisa nel centro dell’impero, e non può essere messa in discussione. Perché il prezzo può essere molto alto. Tanto è vero che un contatto non ufficiale rifiuta l’incontro e, al telefono, si limita a dire: «Giornalista? No, no, la situazione…». La situazione: politica e religione, che una volta erano una cosa sola, come testimonia l’imponenza del Potala, ottava meraviglia che domina su Lhasa e nasconde nei suoi meandri i sarcofagi in oro massiccio di una linea ancora vitale di Dalai Lama, adesso sono separate. Ai nostri occhi tutto questo può apparire una normale evoluzione. Ma nelle valli scavate dai ghiacciai eterni dell’Himalaya il tempo non scorre necessariamente in senso lineare. E molti monaci si sentono custodi di una tradizione che non può essere interrotta se non per volere dell’Illuminato (Buddha).
Pechino torna ad aprire le porte del Tetto del Mondo alla stampa internazionale. E il Corriere è l’unico quotidiano italiano presente, evento alquanto raro considerato che durante analoghi viaggi nella provincia autonoma, i giornalisti erano stati testimoni negli anni scorsi di continui «disordini», con decine di monaci che cercavano di denunciare «l’oppressione cinese». Nulla di questo è accaduto nei cinque giorni di spostamenti tra montagne brulle, villaggi modello e templi di incantevole bellezza. Soldati pochi, discreti ma bene armati. Gli ospiti sono gentili anche se rendono cortesemente improbabile una passeggiata solitaria. Il volto sorridente della guida compare all’improvviso: «Meglio non stare da soli».
Intorno al nucleo di quella che fu la capitale di un impero la cui influenza raggiunse gran parte dell’Asia orientale, Lhasa è avvolta oggi da una moderna città cinese cresciuta, in contrasto alle «sorelle» delle altre province, in maniera ordinata, precisa, pulita. Lhasa sembra destinata a diventare un modello di sviluppo: quello portato da Pechino e voluto, forse, solo da una parte di tibetani. «Vi spiego io qual è il sogno dei miei concittadini — dice a gran voce Jigme Wangtso, energico direttore dell’ufficio comunicazione del governo autonomo —. Il sogno è quello di tutti: una casa, risorse per curarsi, per l’istruzione dei figli. Strade per muoversi e modernità per stare al passo con il resto del nostro Paese, che è la Cina». Jigme Wangtso è un autodidatta: ha imparato il cinese che era già un ragazzino. Ora i suoi figli sono entrambi all’università: a Pechino e Shanghai. «Tutto questo — spiega deciso — il Dalai Lama non lo ha mai permesso. Con lui i contadini erano schiavi, la società immobile. E’ un involucro vuoto: nessuno lo considera più».
Il convitato di pietra continua a essere evocato. D’altro canto il governo di Pechino si sente legittimamente titolato a gestire quella che considera una provincia autonoma e a spingere sullo sviluppo economico e sociale. E le rivolte? L’unica «ammissione» viene da Lu Guangjin, direttore dell’Ufficio diritti umani: «Abbiamo incontrato delle frizioni nella modernizzazione del Tibet». A Lhasa è stato da poco aperto un campus universitario per 4 mila studenti: un investimento da 560 milioni di renminbi (cento milioni di euro) che ha, tra i vari compiti, spiega il professor Sherab Sangpo, docente di letteratura tibetana, anche quello di recuperare e restaurare le antiche pergamene devastate dalle Guardia Rosse durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976). Uscendo da Lhasa la presenza cinese si assottiglia: le case tradizionali, per quanto rare e sparse come chicchi di riso nell’aia, prendono il posto degli edifici a scatola. La politica di Pechino arriva comunque anche nelle riarse campagne. Da due anni, per esempio, è in corso un programma per la creazione di «nuovi villaggi socialisti», dove le famiglie più povere si raggruppano, ricevono una casa e i mezzi di produzione condivisi per occuparsi dei propri campi. Sarà un caso, ma sulle pareti interne, sono i ritratti di Mao e dei padri della Rivoluzione (Marx, Engels, Lenin e Stalin) a «proteggere» le vite misere di questi contadini.
All’antico ospedale di Lhasa (800 pazienti in day hospital; 300 letti), dove la medicina tradizionale si interseca con quella dell’Occidente, il dottor Tsewang Tanpa, spiega la «dottrina del caldo, del freddo e del neutro, i tre stati del nostro corpo», alla base di una conoscenza antica. Ma alla domanda su quale sia il segreto per una sana esistenza, in Tibet come altrove, risponde, serafico: «Il Buddha ha detto: moderarsi in tutto aiuta a vivere a lungo».