Daniela Fedi, Il Giornale 1/8/2015, 1 agosto 2015
«GLI ABITI, I PROFUMI, BALLA ECCO I MIEI 50 ANNI DI MODA»
[Intervista a Laura Biagiotti] –
DAL DIARIO In alto da sinistra una foto tratta da Harper’s Bazaar di Bob Krieger di un total look Laura Biagiotti del 1975, con sfondo delle Torri Gemelle di New York. La Biagiotti in piazza Tien An Men e nel backstage. Nella foto grande con la figlia Lavinia. Sopra il celebre abito «Bambola». Sotto un abito della collezione 2015.
La prima cosa che vedi dalla strada è la bandiera italiana issata sulla torre del castello di Marco Simone, meraviglioso edificio dell’XI secolo alle porte di Roma. «L’ho cucita io con le mie manine - spiega Laura Biagiotti - quelle che trovi comunemente in commercio si sfilacciano subito e non sopporto nemmeno l’idea del tricolore malandato». Basterebbe questo per far capire di che pasta è fatta la signora che in questi giorni compie 50 anni di moda e li festeggia senza clamore con la figlia Lavinia, vice presidente dell’azienda oltre che depositaria di una tradizione al femminile ormai giunta alla terza generazione. «Decideremo insieme quale restauro finanziare in omaggio a questo benedetto cinquantenario, non credo nelle autocelebrazioni ma nelle cose che restano» dice salendo le scale verso la cosiddetta stanza dei profumi, ovvero l’ufficio in cui conserva la sua sterminata raccolta di boccette e campioncini d’ogni epoca e paese, un luogo incantato per qualunque donna dai 9 ai 90 anni purché respiri. Questo antro delle meraviglie dove tra l’altro è esposto anche l’abito indossato dalla Cardinale nella scena del ballo de Il Gattopardo, si affaccia sui locali della Fondazione Biagiotti-Cigna che ospita 270 opere di Giacomo Balla, la più grande collezione al mondo del genio futurista. Si tratta di abiti, bozzetti, disegni e dipinti d’incredibile fama e bellezza come il ritratto di Tolstoi che toglie il fiato per l’intensità dello sguardo oppure il celeberrimo autoritratto dipinto dall’artista a 70 anni e spiritosamente intitolato «Autoballasettanta». C’è perfino una cameretta da bambino, un curioso appendiabiti, i cosiddetti «modificanti» inventati da Balla come alternativa alla cravatta, la porta del suo studio e la testata di un letto in cui non è riuscito a dormire fino a quando i padroni di casa non gli diedero il permesso di dipingerlo con i suoi colori profumati di futuro. La stilista ha acquistato le prime opere nel 1982 con l’adorato marito Gianni Cigna prematuramente scomparso nel 1996, subito dopo un’importante esposizione sul futurismo al Museo Puskin di Mosca, la prima di tante mostre organizzate in giro per il mondo con l’aiuto della fondazione. La regina del cashmere (così viene definita dal New York Times) ha visto partire i suoi tesori dal castello almeno 500 volte, l’ultima delle quali pochi mesi fa quando ha prestato all’Expo di Milano la mastodontica tela d’arazzo dipinta per l’esposizione universale di Parigi del 1925.
La sua è una passione o un secondo lavoro?
«Direi entrambe le cose se non la quadratura del cerchio con la storia della mia vita. Avevo 22 anni quando nel 1965 ho fondato con mia madre (Delia Soldaini ndr) il Gruppo Biagiotti. Lei aveva una sartoria in via Salaria 126 che l’anno prima aveva vinto l’appalto per le divise delle hostess dell’Alitalia. Io ero una figlia unica amata e vezzeggiata come poche, ma anche molto brava a scuola tanto che mi ero iscritta a lettere antiche e studiavo archeologia cristiana con la mitica Margherita Guarducci, la grande epigrafista che ai tempi di Paolo VI scopre le ossa di San Pietro. Un bel giorno decido di dedicarmi solo alla moda: mi sarei laureata prima dicevo a 60 anni, poi a 70 e adesso ho scoperto che i miei esami sono scaduti, li dovrei ridare tutti».
Sì, ma Balla che c’entra?
«Balla, c’entra sempre. Con lui nell’82 incontro l’uomo che con il futurismo ha inventato la modernità. Nel 1912 inserisce l’abito tra i mattoni di ricostruzione dell’universo. Lo teorizza nel 15 con Depero facendo il manifesto. Insomma una grande consolazione per me che avevo studiato le catacombe di Priscilla e le edicole del primo secolo per poi mettermi a fare vestiti: il più grande movimento artistico del ’900 italiano fa passare anche attraverso l’abito un messaggio di perennità».
È questo che si aspetta dai suoi modelli?
«Non oso nemmeno sperarlo, mi sembra troppo. Poi però succedono cose che fanno riflettere. Recentemente mi è capitato di sfogliare Clic e chic, un bellissimo libro fotografico di Bob Krieger. C’è l’immagine di una modella con un mio poncho bianco scattata nel 1975 tra i giganti di Manhattan, ovvero le Torri gemelle. Ecco la moda è il massimo dell’impermanenza, dopo 50 anni lo posso dire. Eppure questi vestiti ci sono ancora, sono giù nel mio archivio mentre questi edifici così grandi e belli non ci sono più. Ne traggo una grande lezione».
Insomma sente la caducità del mestiere?
«Moltissimo. Per combattere la sensazione sono venuta ad abitare in questo posto antico e l’ho restaurato con amore. È stato un restauro complicatissimo, soldi infiniti e non parliamo dei limiti imposti dalla sovrintendenza alle belle arti. Abitare in un monumento nazionale è come avere un bambino eternamente malato e bisognoso di cure, ma anche una gioia sconfinata: senti il respiro della storia, butti lo sguardo sull’eternità».
Chanel diceva che la moda non è arte, deve morire perché viva il commercio. Lei cosa ne pensa?
«Coco era crudelissima, diceva che bisogna uccidere i tessuti “il faut tuer le tissue“. Io non sono così».
Infatti ha trasformato la sua passione per l’arte in qualcosa che vive e che ha un commercio...
«Anche questo mi sembra troppo. Certo sto qui nel mio adorato castello, con i miei vecchi profumi, i miei Balla di là e ancora lavoro come una pazza: firmo 70 collezioni all’anno e adesso penso che dovrei riprendere a far sfilare la moda uomo, perché trovo sia molto divertente. Mi sorregge la curiosità, questo è sicuro. E amo le storie che raccontano gli abiti. Certo detesto l’autoreferenzialità del mondo della moda. Facciamo vestiti che magari possono durare più a lungo delle torri gemelle, ma non abbiamo inventato il vaccino contro il cancro. Insomma diamoci una regolata tutti quanti».