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 2015  agosto 02 Domenica calendario

IRAN, LA REPUBBLICA ISLAMICA CON LA FATWA ALLA NAPOLETANA

Quando ho detto agli amici che sarei andato in Iran, sono stato bombardato di avvertimenti ai quali ho cercato di contrapporre risposte rassicuranti: «Ma sei matto? Lì c’è la guerra» (ma, veramente quello è l’Iraq…); e se poi ti rapiscono?» (Ma quello è sempre l’Iraq, o magari la Siria…); «Ci sono gli attacchi kamikaze…» (Quelli purtroppo li fanno in Francia…). Poi le raccomandazioni: «non guardare le donne», «non dire che sei un giornalista», «nascondi eventuali simboli cristiani». Il viaggio non è stato una passeggiata, ma per il ritardo accumulato a Fiumicino che ci ha costretti a una corsa folle attraverso l’aeroporto di Istanbul per recuperare il volo per Teheran. Per non arrivare impreparato ho comprato una guida della Lonely Planet. Nell’introduzione dice: «tutto quello che credete di sapere dell’Iran è sbagliato… Al contrario di un popolo di oscurantisti scoprirete gente socievole, curiosa e aperta…». La ragazza che mi siede accanto in aereo mi chiede se sono italiano e mi dice che studia architettura a Firenze e che è della città di Isfahan. Quando viene annunciato l’inizio della discesa verso Teheran mi ha dato il numero di telefono dicendo che se avevo bisogno di qualcosa potevo chiamarla. Un punto a favore della Lonely Planet. Le dico delle preoccupazioni espresse dai miei familiari per il viaggio in Iran. Mi risponde che anche sua nonna, quando ha detto che andava a studiare in Italia, le ha detto: «ma sei matta, lì c’è la Mafia!»… All’improvviso l’aereo si anima. Tutte le donne si sono raccolte in fretta i capelli e hanno tirato fuori dalle borse fazzoletti e foulard di ogni genere, coprendosi la testa. Ho chiesto alla mia compagna di viaggio se coprirsi fosse una cosa che le pesava e mi ha risposto: «non è per il velo in sé, ma il fatto che sia un obbligo mi scoccia…». VENTI ETNIE In Iran ci sono regole rigide sul decoro. Una è che le donne devono avere il capo coperto, obbligo che viene soddisfatto in molte maniere diverse. In Iran ci sono circa venti etnie, con differenti culture e religioni. Così si vedono donne vestite come suore e altre che portano un fazzoletto annodato come le nostre nonne, altre avvolte in un lenzuolo nero che chiamano «mantò» e ragazze che portano eleganti pashmine appena appoggiate ai capelli raccolti dietro la testa con un lembo appoggiato su una spalla. Ci sono anche quelle vestite da ninjia, con il viso nascosto, ma sono arabe provenienti da uno dei due lati del golfo Persico. La regola dice anche che gambe e braccia devono essere coperte, il che in prevalenza si risolve con un jeans e una camicia fuori dai pantaloni. Ero convinto di essere un esperto di Paesi arabi e islam, ma in Iran mi rendo conto che è tutto diverso. Dopo due giorni sento che manca qualcosa. Realizzo che non ho sentito mai la chiamata della preghiera. «Ma non pregate cinque volte al giorno?» chiedo. «No. Siamo sciiti. Noi solo tre volte». Un iranologo mi aveva detto che la Persia non è né Oriente, né Occidente. Probabilmente è una definizione adatta. Gli iraniani sono indoeuropei, non arabi. E l’islam sciita è veramente molto diverso da quello dei vari integralisti sunniti ai quali ci siamo abituati con legittimo sconcerto. Questa è senza dubbio una «repubblica islamica», come si autodefinisce, nel senso che non c’è nulla che non venga ricondotto per la sua legittimità alla fonte legale suprema che è il Corano. Ho visitato una famosa clinica della fertilità, che via via si è tecnologicamente evoluta e attualmente realizza clonazioni animali e innesti di dna umano e animale. Mi spiegano che così le capre producono un latte che può curare molte patologie umane. Chiedo alla dottoressa quali siano i limiti di legge alla procreazione assistita. L’eterologa si può fare e ci sono anche gli uteri in affitto. La clonazione umana ovviamente no. Il mio interprete, che non è uno qualunque ma un docente universitario di lingua e letteratura italiana del rinascimento, di appena trent’anni, che recita la Divina Commedia con tanto di metrica, mi spiega che i cittadini chiedono una fatwa (un «parere») a un esperto e poi possono scegliere tra i vari pareri quello che più gli conviene. Se non è vietato dal Corano si può fare. Forse questa è la ragione per la straordinaria euforia tecnologica e scientifica di questo strano Paese, dove le donne si devono coprire i capelli ma sono il sessanta per cento dei laureati, fanno le ricercatrici e vincono premi di matematica e fisica in giro per il mondo. PRIVATO E PUBBLICO Sulle libertà sessuali ci sono limiti evidenti, ma anche lì la questione non è semplice. E che le profonde differenze non siano tra società cristiana e società musulmana me lo precisa in modo molto animato l’arcivescovo Sebouh Sarkissian, primate della Chiesa armena in Iran. «Che c’entra il matrimonio tra omosessuali con il Cristianesimo?» mi chiede imperioso, come se il referendum irlandese fosse colpa mia. Nell’islam c’è un muro che separa il privato dal pubblico, il dentro casa dal fuori casa. Infatti se si va nel grande e splendido centro sportivo armeno Ararat a Teheran, considerato luogo «privato», le ragazze giocano a basket in pantaloncini e canottiera. E vincono il campionato. Le signore giocano a tennis in gonnellino. Il fanciullo erudito che mi fa da guida commenta la forma fisica delle donne iraniane. Sono magre e camminano con schiena dritta e passo elegante. Come tutte le donne del mondo, mi dice, anche loro ci tengono al loro aspetto e passano ore in palestra e nei beauty center. Sono perplesso. Ma non possono farsi vedere solo dal marito? «Ci sono le feste private» mi risponde stupito. Mi porta in giro per caffetterie. Qui non si beve, ma almeno si può fumare. Ragazzi e ragazze si scambiano sigarette, si stringono la mano e si guardano negli occhi. Nei locali c’è musica moderna (che pensavo fosse vietata). Ci sono anche caffetterie per sole donne, mi spiega, dove gli uomini non possono entrare. Club privati, dove le signore «si sciolgono i capelli». Passando in taxi per il parco del Palazzo Golestan, proprio di fronte al Ministero della Giustizia, vedo coppie che si baciano. «Sono studenti». Pare che qui gli studenti siano una categoria a parte. D’altronde quando chiedo a qualcuno dove ha conosciuto la moglie, inevitabilmente la risposta è «all’università». Guardando i volti delle ragazze per strada - che al contrario di quanto mi avevano detto non si infastidiscono e spesso ti sorridono - ho notato con inquietudine che molte hanno il naso rifatto. E anche molti uomini. La mia guida mi comunica che Teheran è la «capitale dei nasi rifatti». Ne fanno quasi centomila all’anno e i pazienti vengono da tutto il mondo. Costa relativamente poco e la qualità di medici e ospedali iraniani è rinomata. Dopo un’orgia di caffè con il mitico massmediologo Younes Shokrkhah e un gruppo di colleghi del colosso editoriale Hamshahri che vogliono sapere tutto sui contratti e la previdenza dei giornalisti, oso esprimere a una signora il mio disappunto per questo genocidio dei nasi persiani. Lei mi risponde senza imbarazzo che anche le donne iraniane vogliono vedersi più belle e visto che l’unica cosa che possono mostrare è il viso, si accaniscono su sopracciglia, occhi e naso. Gli iraniani parlano volentieri di qualunque argomento, ma io evito di creare imbarazzi con domande politiche. Nelle conversazioni private c’è ancora il ricordo di quando «certe cose non si potevano dire». Sembra sia un ricordo che si allontana nel tempo, ma ancora ci si scruta intorno per vedere chi ascolta. Una parola che stranamente non ho mai sentito pronunciare è «Israele». Nemmeno per attaccarlo o per criticare il contrasto all’accordo sul nucleare. Solo il tassista ricorda che, nella piazza che oggi si chiama Al-Quds, il nome arabo di Gerusalemme, fino al 1979 c’era l’ambasciata di uno Stato che portava quel nome.

(1. Continua)