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 2015  agosto 03 Lunedì calendario

GEORGE STEINER: «CI SARA’ UNA GUERRA E TORNEREMO A LEGGERE» – 

«No, niente passeggiata». Lo hanno intervistato tante persone illustri. Non ha senso. E poi, a 86 anni, è troppo cagionevole. Capisco che sta per riattaccare. «Aspetti, che ne pensa di due passi in giardino, attorno alla casa?». Pensavo ad Albert Speer a Spandau, a come il vice di Hitler girando in tondo per il cortile del carcere immaginava di andare a Heidelberg. Ma Spandau non è Cambridge e Speer sotto ogni profilo è l’opposto di George Steiner. Nel mio pensiero Steiner è un girovago intellettuale che si è lasciato indietro gran parte della sua generazione. Avevo 17 anni quando ascoltai un suo coraggioso discorso sulla supremazia della letteratura che avvalorò la mia scelta della facoltà di Lettere. All’università studiai i suoi “La morte della tragedia” e “Dopo Babele” e avrei preferito avere lui come docente invece degli pseudo-campioni dello strutturalismo che continuavano, in maniera scandalosa, a negargli la cattedra. Quindi se esiste un intellettuale con cui non mi dispiacerebbe fare due passi, anche solo un giretto, è proprio Francis George Steiner. All’altro capo del filo c’è esitazione. «Va bene».
L’uomo in maglia bianca mi apre la porta con un sorriso. Sotto il mento ha una barbetta da mandarino cinese. La stretta di mano è goffa – come il Kaiser e Lord Halifax non riesce a ruotare il braccio per via di un’atrofia muscolare congenita. «Nasce tutto da lì», dice. «I primi anni di vita li ho passati in terapia, cliniche a Parigi e in Svizzera. Mia madre ha lottato contro la mia menomazione come una leonessa. Mi costringeva ad allacciarmi le scarpe – avrei potuto averle con la zip, ma no. Dovevo per forza scrivere con la destra – potevo farlo benissimo con la sinistra, ma no. Mia madre non mi permetteva di aggirare il problema. Quando avevo quattro anni arrivò il momento fatidico in cui mi disse: “Non ti rendi conto della fortuna che hai: non farai il militare”. All’epoca la leva durava tre anni, ti distruggeva la vita. Ne fui così felice che non mi sentii mai più menomato né condannato, ma speciale e privilegiato». Può anche essere che ne derivi quello che Steiner considera il suo maggior talento: «La mia prima dote nella vita è stata una sfacciataggine cosmica».
«Ora che mi avvicino alla fine dei miei giorni mi affascinano i limiti di tutta la narrativa. Né Shakespeare né Dante sarebbero riusciti a inventare Stephen Hawking, la sua persona, le sue opere. Dal minuscolo margine di una palpebra è al centro dell’universo».
Anche Steiner abita i margini. Ha passato gran parte della sua vita a bordo ring degli studi umanistici definendosi “l’uccellino pulitore dei rinoceronti”, un piccolo volatile giallo che vide in Africa che, appollaiato sul dorso del rinoceronte, segnalava a tutti l’arrivo dell’animale. Analogamente, dice, un insegnante e un critico validi ti diranno cosa leggere e perché.
Sulla poltrona gialla di fronte si sono seduti scrittori che hanno fatto esclamare Steiner di meraviglia. In questa stanza è entrato misurando i passi Jorge Luis Borges, il mago cieco d’Argentina. Per Steiner «Borges rappresenta un particolare momento della storia dell’immaginazione. Ha lasciato una sorta di incantesimo, seppur breve».
All’epoca Steiner aveva due bimbi piccoli. «Borges si sedette su quella poltrona a raccontargli storie. Volle che non fossi presente. Lo portammo in auto alla facoltà di lettere dove avrebbe tenuto un’importante conferenza. Lo accompagnai all’ingresso. “Non vorrà certo entrare”, mi disse. Era capace di una finissima, soprannaturale empatia. La facoltà di lettere mi aveva comunicato che non mi sarebbe stata assegnata una cattedra, per cui non avevo accesso alla sala docenti».
Un altro occupante della poltrona gialla fu Bruce Chatwin, di ritorno dalla Scozia, dove, a quanto sosteneva, era stato a caccia di cervi. Dice Steiner: «Ho una teoria sugli uomini belli. Esser belli è difficile e Bruce era bello davvero. Seduto su quella poltrona lesse brani interi del manoscritto de Le vie dei canti. Avevo contattato Shawn al New Yorker segnalandogli Chatwin, il suo libro sulla Patagonia mi aveva fatto impazzire. Shawn lo bocciò. Il suo riserbo era leggendario: lasciava trapelare una profonda diffidenza, come se non credesse a una sola parola».
«Appartengo a una specie bizzarra in estinzione, quella degli intellettuali impegnati. Un tempo si usava il termine russo, intellighènzia», dice con un ampio gesto della mano. «Questa stanza è un’enciclopedia di umanesimo perduto. Qui ho esemplari che credo non si trovino né a Cambridge né alla Biblioteca Bodleiana. La prima pubblicazione, su rivista, del Tractatus di Wittgenstein. La prima edizione di Essere e tempo di Heidegger. E il talismano della casa!». Si alza di scatto per tirarlo giù, un libriccino blu che estrae a fatica dalla custodia di cartone. Lo solleva con deferenza mostrando un nome stampigliato sull’ultima pagina in inchiostro violetto: “F.Kafka”. Non mi dica… «Sì, sì, della sua biblioteca sono sopravvissuti solo tre libri, questo è uno». Leggo il titolo, Was du tust, das tue recht, e noto che è stato stampato a Stoccarda nel 1910. «Ciò che fai andrà bene», traduce. «Una tesi pedagogica, del tutto mediocre sull’istruzione femminile». Lo ha letto? «No, è un libro insulso, ma spesso l’ho preso in mano e ho sentito un brivido intenso lungo la schiena al pensiero che Kafka lo aveva avuto a sua volta tra le mani».
Come Kafka, il padre di Steiner, Frederick, lavorava per una banca a Vienna. Sigmund Freud e Frederick Steiner erano amici. Andavano a passeggio a Vienna e sui colli intorno, chiacchierando. Steiner, maestro di connessioni, non riesce a immaginare che Hitler, Freud, Mahler e suo padre non si siano mai incontrati a passeggio sul Ring. «È inevitabile, soggiornando nella stessa città per due, tre anni». Aveva cinque anni quando udì la frase che, a suo dire, ha improntato tutta la sua vita. Stava osservando dalla finestra a Parigi la folla che urlava “morte agli ebrei! “ e suo padre disse: «Non devi mai aver paura; quel che hai davanti agli occhi si chiama storia».
Steiner non andò incontro al destino di tutti i suoi compagni di classe ebrei, tranne due, grazie alla dritta di un uomo d’affari tedesco nella neutrale New York. Nel gennaio 1940 in una toilette del Wall Street Club, il padre di Steiner si imbatté in un conoscente, un dirigente della Siemens, che afferrandolo per un braccio gli disse: «Mi ascolti bene, che le piaccia o no. Molto presto arriveremo in Francia. Porti via la sua famiglia, costi quello che costi». Quando, cinque mesi dopo, i carriarmati nazisti entrarono a Parigi, gli Steiner erano in America.
Nell’estate del 1943 giunse un altro momento decisivo. «Ero in vacanza a White Plains, fuori New York, e in uno studio medico vidi sulla rivista Life un paginone dedicato ai membri dell’Accademia sovietica della scienza, in cui erano indicate le rispettive competenze: radiologia, biochimica, matematica». A 14 anni Steiner restò molto colpito dal fatto che non si trattasse di artisti, bensì di scienziati. «Mi incaponii a fare quello da grande, non so spiegarlo, ma fu decisivo. La mia unica ambizione divenne studiare scienze a Chicago». Ebbe insegnanti di tutto rispetto, Enrico Fermi di fisica, Harold Urey di chimica. Ma non servì. «Mi dissero che tecnicamente ero un idiota. Potevo contare sulle capacità mnemoniche esercitate al liceo nel sistema scolastico francese, ma non avevo un briciolo di creatività. Se almeno, come un certo Jim Watson, fossi stato indirizzato alla biologia… Fu così che, col cuore a pezzi, approdai alla letteratura e alla filosofia».
Da Chicago passò a Harvard, dove si laureò, quindi a Oxford, per vedersi respingere la tesi che divenne poi La morte della tragedia. («Stupefacente, non trova?»); poi vennero l’Economist, Princeton e, nel 1961, Cambridge.
Prende una chiave e a piccoli passi leggeri mi porta fuori, nel suo giardino all’inglese. Steiner scrive dell’importanza del camminare nel suo ultimo libro, The Idea of Europe. Kant che attraversa Königsberg con precisione cronometrica. Le passeggiate di Kierkegaard per Copenhagen. Il corpulento Coleridge che ogni giorno percorreva cinquanta chilometri su terreni ardui e montuosi poetando o ragionando su complessi temi teologici a ogni passo. Secondo Steiner è una pratica che ci differenzia dall’America. «In America non si va da una città all’altra a piedi».
L’Europa invece è stata plasmata e umanizzata dal piede umano. Non è esagerato affermare che tutta la nostra filosofia è stata condizionata dal camminare, dal semplice atto di mettere un piede davanti all’altro che in men che non si dica ci porta a destinazione.
Steiner inserisce la chiave nella toppa, mi invita a entrare. Il suo studio ha il perimetro pentagonale e il soffitto a piramide. La luce cade dall’alto sulla scrivania occupata da una macchina da scrivere elettrica di dimensioni ragguardevoli. Steiner vi si siede ogni mattina con un libro scelto a caso. «Prendo un paragrafo e lo traduco nelle mie quattro lingue » e scrive la traduzione su un pezzo di carta che getta nel cestino. Lo definisce «un esercizio musicale della mia pluralità ». Poi, dopo aver risposto alla mezza dozzina di lettere che riceve ogni giorno, legge per un’ora o due.
«L’idea era di avere qui i 1200 volumi indispensabili. Non funziona però. Sono costretto a fare sempre avanti e indietro». Me li presenta, come degli amici. Nietzsche, Hegel davanti a sé, sulla parete alla sua sinistra Celan, la scuola di Francoforte.
Cosa le piacerebbe aver scritto?, gli chiedo. «Narrativa di altissimo livello». Perché non lo ha fatto? «Ero troppo dispersivo e appassionato di troppe cose». O è stato qualcos’altro a limitarlo? Anche quando segnalava i nomi degli autori che dovevamo leggere avvertiva sempre che il rinoceronte su cui era appollaiato era una bestia pericolosa, capace di travolgere e distruggere. Che gli studi umanistici non sono di per sé umanizzanti, bensì troppo spesso legittimano la bestialità. In The Idea of Europe ci ricorda che «L’Europa è il luogo in cui il giardino di Goethe quasi confina con Buchenwald».
Steiner è pessimista, pensa che non abbiamo mai toccato un livello superiore di brutalità e vede profilarsi una catastrofe. «Ci sarà una guerra. Posso essere più preciso. È imminente». Una guerra religiosa islamica che darà il via al nuovo Armageddon. «Si tratta di odi implacabili. Già non si riescono a bloccare gli sbarchi di profughi in Italia. È un fiume in piena».
Però lo rincuora il pensiero che in tempi di catastrofe «la gente riprenderà a leggere, a riflettere, tornerà alla musica. Niente paura, il destino non ama la vacuità ». Mi parla dell’attacco dei ceceni alla scuola russa di Beslan. «I bambini erano rimasti per tre giorni senza cibo né acqua ma con un’insegnante coraggiosa, che il terzo giorno disse loro “Preghiamo assieme Dio e i vangeli”. I bambini si rifiutarono. “Noi preghiamo il mago di Harry Potter, lui verrà”. E i bambini avevano ragione».
©2015 Newsweek
Traduzione di Emilia Benghi