Gabriele Romagnoli, la Repubblica 3/8/2015, 3 agosto 2015
LE FERIE DEI POPOLI ALLA RICERCA DELLA FELICITA’
Come ogni cosa su questa Terra anche il tempo è relativo. O meglio lo è la sua fruizione. Per ragioni religiose in luoghi diversi o per persone differenti variano i giorni festivi. Quel che per un cattolico è la domenica per un ebreo è il sabato e per un musulmano il venerdì. E in tempi remoti si provò perfino a onorare San Lunedì. Le vacanze sono invece un fenomeno sociale, che rispecchia una popolazione e le sue aspirazioni di vita. Dalla quantificazione e distribuzione delle ferie si può desumere facilmente quale sia la scala di valori di una parte di umanità. In natura non esistono i giorni della settimana e il weekend, così le pause dalla vita attiva.
Nel rapporto tra lavoro e tempo libero sono state individuate due linee di tendenza. Aristotele riteneva che lo scopo della vita fosse la felicità e il tempo libero uno strumento per conquistarla. Così come si combatte una guerra per poi ottenere una pace più duratura, allo stesso modo ci si dedica a un’occupazione per poter poi godere della sua interruzione. Nella sua scia si posero, in maniera diversa, Karl Marx e il filosofo cattolico Josef Pieper, entrambi favorevoli a un progressivo affrancamento dalla fatica. Pensiero opposto è quello dell’etica protestante che santifica, al posto delle feste, il lavoro e considera un degrado della persona ogni riduzione della sua attività.
Se questo dualismo fosse rigido uno si chiederebbe come dal marxismo si sia arrivati a Stakanov e perché allora l’Austria sia il Paese che fa più giorni di ferie. Ha già risposto l’architetto e filosofo Witold Rybczynsky nel suo acuto saggio Aspettando il weekend: «Ogni società sceglie di dare una forma diversa al proprio lavoro e ai momenti di astensione e nel farlo rivela molto sul proprio conto: inventa, adatta, ricombina vecchi modelli, aggiungendo nuove varianti, giorni tabù, maledetti, sacri».
Il calendario di un popolo è la declinazione del suo stile di vita. Non sorprende il monolitismo tedesco che piazza un bel cuneo di quattro settimane in mezzo allo scorrere dell’anno e non se ne parli più: o si lavora o si va in vacanza, la vita procede senza sfumature. Né che gli americani, costituzionalmente votati alla ricerca della felicità abbiano preferito un calendario poroso, in cui i giorni di riposo si insinuano tra gli altri come infiltrati in una banda criminale, controllandone e a volte sovvertendone la funzione, sparpagliandosi e dilatandosi, così che alla fine non sai più se l’anno è mezzo pieno o meno vuoto (ma il naturale ottimismo farà propendere per il bicchiere rovesciato).
Quanto agli italiani, la loro tendenza al risparmio (metti via una settimana l’anno e a cinquanta fai il giro del mondo) viaggia (spera di viaggiare) al confine tra sindrome della formica e illusione che Provvidenza e previdenza siano infine una cosa sola, finendo per scontrarsi con il richiamo aziendale nel mezzo del cammin di una vita a usufruire delle ferie arretrate.
Alla fine anche in questo aspetto della vita come in ogni altro si rivela una guerra non dichiarata tra potere (governo, datore di lavoro) e libertà individuale. L’uno cerca di regolare le scansioni dell’esistenza, l’altra mira a sovvertirle. Si fa ricorso a qualunque arma, non ultimi i bambini di cui la scuola regola i tempi liberi diversamente nei diversi Paesi e le cui esigenze i genitori mettono avanti per poter staccare. Sta a loro, in ogni parte del mondo, reinventarsi mentre crescono il fluire della vita ora che sono caduti quasi tutti i ponti, che la villeggiatura è una versione a basso costo e di breve periodo rispetto al passato e il lavoro sta diventando, soprattutto per loro, l’intervallo tra due lunghe pause.