Stefano Semeraro, La Stampa 1/8/2015, 1 agosto 2015
DAI LUOGHI DELLE FIABE ALLE MEGALOPOLI I 20 ANNI CHE HANNO CAMBIATO LE OLIMPIADI
Ventotto anni per arrivare da Lillehammer 1994 (19 mila abitanti) a Pechino 2022 (20 milioni). Dall’utopia norvegese all’a-topia, al non luogo cinese. Dagli chalet nei boschi ad una città-stato che non ha confini chiari, anzi non vuole averne e che della triade freddo-neve-montagna se ne infischia: a gennaio la media è -4°, a Calgary si arrivava a -20°. Strano? Un po’. Non tantissimo se si ragiona su quello che sono stati e sono adesso gli sport invernali: prima una conseguenza sportiva e alpina del romanticismo, poi un oggetto difficile da definire, organizzare, collocare. Soprattutto da vendere.
REGNO FATATO
I Giochi di Lillehammer chiusero un’epoca in un modo indimenticabile. Un modello forse irripetibile e il motivo è semplice. La Norvegia è il regno fatato degli sport invernali, la sede di un culto. I laghi e i boschi di Hafiell e Bikebeirenen, il trampolino di Lysgårdsbakken, persino l’ortografia pattina e salta. Il re Harald V che inaugura, la squadra di bob di Trinidad che perde la valigia e si ammala perché resta in jeans. Gare tiratissime, duecentomila spettatori fissi attorno alle piste da fondo, le pallottole del biathlon biodegradabili per non avvelenare gli uccelli. Pochi sprechi, appena duecento milioni di debiti. Alla vigilia Lillehammer fu sepolta da una nevicata, 132 centimetri di candore. A Pechino al massimo saranno polveri cupe e sottili. Ma Lillehammer è stato forse un caso, il battito felice di un pendolo che ha spostato i Giochi invernali da paradisi chic come Chamonix, Sankt Moritz e Cortina a città vere e proprie come Innsbruck, Grenoble, Sarajevo, Oslo, Salt Lake City. Dal gelo che sapeva di miniera dell’enorme Calgary (1 milione di abitanti) e delle sue autostrade infinite da imboccare per spostarsi alle gare, all’artificialità orientale di Sapporo ’72 – dove il patto fu che le piste sarebbero tornate boschi appena finite le gare - a quella post-sovietica di Sochi 2014. Dalla marginalità vintage di Squaw Valley e Lake Placid all’incanto urbano di Vancouver e di Torino, l’edizione che ha dato una svolta metropolitana alle Olimpiadi invernali. Che ha segnato un confine. Lo spartiacque fra uno sport schiavo di orari e condizioni poco pianificabili (a Nagano il SuperG fu annullato perché non arrivava mai la giornata giusta, a Innsbruck per trasportare la neve sui campi di gara fu mobilitato l’esercito) e un prodotto da commercializzare: al momento giusto, senza imprevisti. Nel golfo arabo del resto da anni esistono piste di neve artificiale all’interno dei centri commerciali. Prossima tappa Dubai?
Stefano Semeraro, La Stampa 1/8/2015