Elena Dal Maso, MilanoFinanza 1/8/2015, 1 agosto 2015
ADDIO ALL’ORO NERO
Il petrolio in picchiata sta mettendo a dura prova i conti delle oil company. Il Wti americano ha perso quasi il 20% in un mese, peggior performance del 2015 e si è praticamente dimezzato negli ultimi 12 mesi. Secondo i dati del Nasdaq, un mese fa stava toccando 58 dollari al barile, per scendere venerdì 31 mattina a quota 47,93, perdendo quasi il 18% del suo valore.
Negli ultimi sei mesi ha toccato, a maggio, 63 dollari, ma per brevissimo tempo. Per non parlare di un anno fa: il barile veniva venduto a 92 dollari. Lo stesso si è visto con il Brent, il petrolio europeo, scambiato venerdì 31 a 52,96 dollari il barile contro i 62,5 di un mese prima. L’effetto di questo scivolone si è visto quando i gruppi petroliferi italiani ed esteri hanno pubblicato i conti semestrali. Eni ha chiuso con un utile netto rettificato in caduta nel semestre del 62%. Escludendo la controllata Saipem e i suoi problemi (si veda art. a pag. 17), l’utile netto rettificato di Eni nel semestre sarebbe stato comunque in calo del 47%. Nello stesso periodo, gli utili di Exxon Mobil si sono dimezzati. Stefano Cao, ad della stessa Saipem, è stato molto chiaro nel delineare lo scenario di un mondo che deve convivere con il petrolio a 48 dollari il barile. Il mercato si è «profondamente deteriorato», ha detto, «l’ulteriore repentino calo del petrolio ha creato discontinuità significative, che non prevediamo riassorbirsi nel breve-medio periodo e che hanno portato a un progressivo irrigidimento dei clienti sulla gestione commerciale dei contratti».
Non stanno meglio i colossi mondiali di settore.
Royal Dutch Shell ha annunciato giovedì scorso che taglierà 6.500 posti di lavoro e che ridurrà gli investimenti del 20% quest’anno (erano stati 30 miliardi di dollari nel 2014). Shell ha chiuso il secondo trimestre dell’anno con un calo del 37% nei ricavi a 3,8 miliardi di dollari.
Una situazione senza dubbio difficile, che non vede a breve la luce in fondo al tunnel. Tanto che Marketwatch (gruppo Wall Street Journal), ha appena pubblicato un editoriale in cui spiega i diversi fattori per i quali non vale la pena puntare sul settore energetico.
Anzitutto, gli Usa restano il maggior produttore di petrolio. Secondo la U.S. Energy Information Administration, la produzione di petrolio americano si assesterà a 9,5 milioni di barili al giorno nel 2015, in rialzo significativo rispetto agli 8,7 milioni del 2014.
In secondo luogo, il petrolio abbonda. L’Opec non ha voluto tagliare la produzione malgrado i prezzi bassi e le scorte in aumento negli Usa. Questo perché Paesi come l’Arabia Saudita intendono punire i gruppi petroliferi americani dello shale oil e che oggi sono concorrenti su scala mondiale. E anche perché, scrive Marketwatch, l’Opec non ha alternativa valida al continuare a produrre sempre di più. Così il prezzo dimezzato del petrolio rischia di mettere in ginocchio anche i governi arabi che vivono solo di questa materia prima. Quindi se i prezzi si abbassano, bisogna vendere molto di più per tenere in equilibrio introiti e spese.
A ciò va aggiunto il fattore Iran. Il Paese di lingua farsi sta per tornare in forze sul mercato mondiale, dopo lo storico accordo siglato fra Teheran e i Paesi occidentali, sulla progressiva riduzione delle sanzioni in cambio di una limitazione agli sviluppi nel nucleare.
La domanda peraltro è debole. La richiesta di petrolio nel mondo è in calo anche se le scorte restano alte. L’Agenzia Internazionale per l’Energia scrive che la richiesta mondiale ha toccato i massimi nel primo trimestre di quest’anno (grazie anche ai prezzi super cheap) e che scenderà lentamente fino a tutto il 2016.
Infine, ma non certo in ordine d’importanza (c’è chi sostiene anzi che sia il fattore chiave) arriva super dollaro. Il biglietto verde è ai massimi degli ultimi 12 mesi contro le principali valute mondiali. Al di là degli attuali problemi legati alla Grecia, al debito euro, alla Cina e all’economia giapponese che procede con passo ancora malfermo, è un anno che il dollaro si rafforza sulle altre valute. Si guardi ai due grafici a pagina 16. Il biglietto verde ha cominciato a rafforzarsi da quando, l’estate scorsa, il presidente della Fed, Janet Yellen, ha dichiarato che l’epoca dei tassi quasi a zero stava per finire. Esattamente in quel periodo è cominciata la discesa del greggio dall’Olimpo dei 100 dollari al barile, che non si è più fermata tranne gli alti e bassi degli ultimi mesi. Sostiene Ben Hunt, chief risk officer della società di gestione Salient Partners e autore della pubblicazione Epsilon Theory divenuta un riferimento nel mondo della gestione, le parole della Yellen dello scorso anno hanno sancito la fine del rialzo generalizzato di tutte le asset class. Consentito dal fato che era possibile indebitarsi in una valuta, il dollaro, a costo zero, per poi investire i fondi ottenuti, in azioni, bond, commodity e quant’altro. Tutto ciò è finito, soprattutto ora che il rialzo dei tassi Usa a settembre non è più un’ipotesi tanto remota. E c’è da scommettere che l’ex oro nero continuerà a soffrire.
Elena Dal Maso, MilanoFinanza 1/8/2015