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 2015  luglio 30 Giovedì calendario

IL FRAGILE CAPITALE DELLA CINA

Già nel 2008 Liu, il mio amico agente immobiliare, mi aveva portato dentro una filiale della Bank of China che a Pechino si trova vicino a dove abitavamo entrambi. Eravamo in una zona a tiro di schioppo dalle ambasciate e dai quartieri della «movida» pechinese, ma la banca si ergeva poco prima di un complesso residenziale piuttosto popolare. Case a sei piani, mischiate in un mini «compound», come lo chiamano i cinesi quando si esprimono in inglese, con cortili dove ancora arrivano i venditori di soia, di tofu, di uova. Tutte le mattine sono lì, ognino con il suo slogan, la sua canzone e la sua cantilena, come accadeva nella Pechino imperiale. Una della tante immagini contraddittorie di questa Cina contemporanea, perché appena si girava l’angolo l’arteria stradale cittadina mostrava il suo volto di scintillanti grattacieli e regalava poco spazio alla Pechino che fu. Nella banca c’era una stanzetta adibita a «sala Borsa», dove decine di persone erano impegnate a osservare, parlare e chiedere consigli agli operatori. Molti erano anziani. «Sono pensionati» mi aveva detto Liu. Quelle persone erano lì, già nel 2008, perché il governo le aveva invitate a giocare in Borsa, poco prima del grande evento mondiale delle Olimpiadi. Ma non
tutto è andato secondo i piani. Fuori da Pechino, fuori dal cosiddetto «sesto anello», la circonferenza attuale della capitale cinese che ingloba14 milioni di abitanti, ci sono interi quartieri composti da grattacieli stellari appena realizzati o quasi. Forme artistiche, frutto di pensate di grandi architetti (per un certo periodo la Cina è stata una specie di paradiso per tutti gli architetti del mondo). Ma si tratta di complessi vuoti, completamente disabitati. Non solo, perché c’è anche il caso di Ordos in Mongolia interna, la «città fantasma» ormai per eccellenza (vedere anche le schede a pag. 72), e di chissà quante città nella cerniera occidentale del Paese che hanno fatto la stessa fine.
Ma non bisogna andare troppo distante, perché anche nel centro di Pechino moltissimi palazzi sono vuoti. A pochi passi dalla banca, che ancora oggi è nella stessa posizione del 2008 (e si tratta di una rarità per la velocità dei cambiamenti della capitale) c’è un palazzo completamente deserto. Accanto, c’è un altro grattacielo dove risiedevano gli uffici di chi doveva vendere quei palazzi. Chiuso, sbarrato.
Le due bolle parallele
Liu fa al caso mio, perché per l’appunto di mestiere fa l’agente immobiliare. «Quando il governo spinse sulla Borsa, in realtà il mercato che funzionava al meglio era quello edilizio» spiega. «Quindi tanti piccoli risparmiatori preferirono investire e in tal caso indebitarsi perfino, per acquistare il mattone». Gli investimenti immobiliari rappresentano il 13 per cento del Prodotto interno lordo cinese. La casa, del resto, per i cinesi è una sorta di base sociale. Ci si sposa presto e si compra la casa, subito; appartamenti nei quali di solito si trasferiscono a vivere i genitori di uno dei due sposi.
Ma a un certo punto i prezzi sono cresciuti e gli investimenti non sono tornati, tanto che le autorità hanno cominciato a vietare alle banche di fornire credito per investimenti immobiliari. «Così il governo» mi dice Liu «ha spostato la bolla in un’altra zona». Ovvero in Borsa, che dopo un anno ai 300 all’ora, con impennate del 150 per cento rispetto ai valori iniziali, ha bruciato in meno di un mese (tra giugno e luglio di quest’anno) 3-4 mila miliardi di dollari. Si è parlato di un ‘29 cinese, del rischio di un contagio mondiale. Pericolo apparentemente rimandato dall’8 al 26 luglio con le iniziative del governo (chiusura delle contrattazioni per molte società e obbligo per le aziende di Stato di comprare), che hanno consentito alla Borsa di Shanghai di riprendersi. Però il 27 luglio ecco nuovamente un crollo dell’8,5 per cento: i piccoli azionisti, circa 90 milioni, insomma, sono terrorizzati. «Perché non si fidano del governo» racconta una fonte vicina al Partito comunista (che ha 88 milioni di iscritti) «e da quando le autorità hanno messo in atto manovre per limitare i danni, il panico si è diffuso ancora di più».
L’economia rallentata
Fino a un paio di anni fa la Cina è cresciuta a due cifre, perfino del 14 per cento nel 2008. Poi è cominciata una discesa, un «atterraggio morbido» come amano dire i cinesi, fino ad arrivare all’attuale 7. Il nuovo capo del Paese, Xi Jinping, aveva specificato che questo rallentamento era positivo, perché avrebbe permesso la trasformazione dell’economia cinese. Di fronte alla crisi della finanza mondiale e alle contraddizioni dello sviluppo cinese, Pechino ha capito che era necessario dipendere meno dalle esportazioni e sviluppare il mercato interno. «Ma per fare questo» racconta Zhang, giornalista di una rivista economica cinese «il governo doveva per forza di cose cambiare anche molto nella gestione delle aziende di Stato e negli apparati amministrativi».
E arriviamo alle questioni politiche. La sfiducia dei piccoli investitori nasce innan zitutto dal fatto che l’economia ha rallentato e ancora non si vedono le aperture promesse dal governo. La nuova classe media cinese, desiderosa d’investire e in attesa di aperture ai privati nell’economia dominata dai colossi statali, è ancora in attesa. E lentamente comincia a trasferire capitali all’estero.
La corruzione
Di fronte a questo scenario, Xi Jinping, al potere dal 2012, ha scatenato una campagna anticorruzione durissima, con un triplice intento: dimostrare che il suo slogan (il «sogno cinese») avrebbe poggiato su solide basi, sradicare quei meccanismi clientelari e familistici che avevano contraddistinto il cosiddetto «decennio d’oro» della ex coppia al potere Hu Jintao e Wen Jiabao che avevano regnato nei dieci anni precedenti, e infine sollevare da posizioni di potere tanti nemici politici e sostituirli con una propria squadra. «A capo del team anti corruzione» spiega Zhang «Xi Jinpgin ha messo Wang Qishang. Non ha figli, è un funzionario considerato morigerato. Senza figli, significa senza persone da piazzare, è il leader giusto della squadra che deve cacciare le tigri».
Infatti. Xi Jinping aveva specificato: «Colpiremo sia le mosche sia le tigri». Detto, fatto: migliaia le persone sotto indagine, centinaia i funzionari arrestati (200 mila quelli sotto inchiesta), espulsi, destituiti. Quadri del partito, segretari locali, generali dell’esercito. Un alto militare è stato arrestato direttamente in ospedale, dove era ricoverato per una grave malattia, è morto qualche giorno dopo. Xi Jinping non ha avuto pietà e ha colpito laddove nessuno aveva mai osato. Ha condannato all’ergastolo Zhou Yongkang, ex numero nove del Comitato centrale del Politburo, ex capo della sicurezza e al vertice della piramide che controllava il settore petrolifero. Si tratta del primo caso, dalla «Banda dei quattro» dopo la morte di Mao, di un funzionario di così alto rango portato a processo (svoltosi in modo totalmente segreto). «Xi Jinping ha dimostrato una cosa» racconta Zhao, web designer «e cioè che tutti sono uguali in Cina, sotto di lui».
Lo Stato di diritto
dell’Imperatore
Queste procedure, come sottolineano molte organizzazioni umanitarie che tentano di operare in Cina, dimostrano la forza della leadership cinese. Xi Jinping, figlio di uno dei padri della Patria, sposato a una cantante dell’Esercito popolare, molto «occidentale» nella sua immagine, in realtà è stato capace di attirare su di sé più potere di chiunque altro. «Neanche Mao o Deng avevano il potere che ha Xi Jinping» specifica la giornalista cinese.
Xi è capo del partito, dello Stato, dell’esercito, del team anti corruzione, dell’équipe che deve realizzare le riforme. Ha stabilito che la Cina deve affrontare il tema dello «Stato di diritto», ma ha specificato di esserne esente. Ha fatto arrestare centinaia di persone, compresi giornalisti, avvocati e professori universitari, ha lanciato strali contro i «valori occidentali», ha deciso unilateralmente di istituire una zona di difesa aerea sulle isole contese con il Giappone nel Mar cinese meridionale, decide tutto in politica estera e pare voglia prendere definitivamente in mano le redini dell’economia, a scapito dell’attuale premier Li Keqiang.
Soprattutto, Xi Jinping pare voglia allungare la sua permanenza a Zhongnanhai, il Cremlino cinese. Fonti vicine al Partito comunista assicurano che Xi, sulla scia di Vladimir Putin, sta pensando a far durare il suo regno ben oltre i dieci anni canonici. Mosche e tigri sono avvisate.