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 2015  luglio 30 Giovedì calendario

I DELITTI DI WORMS


Worms è una cittadina della Renania, a circa 60 chilometri da Francoforte. Sono tanti i motivi per cui merita di essere visitata, primo fra tutti le testimonianze di un passato glorioso: il Duomo, per esempio, e poi il cimitero ebraico, il più antico d’Europa. Ma Worms è soprattutto la città dei Nibelunghi, la stirpe dei nani che abitava le viscere della Terra, padrona dei segreti della fusione del ferro. A capo dei Nibelunghi era Sigfrido, figlio di Odino, capace di gesta incredibili, uccisore di draghi e padrone di un immenso tesoro. Tutte cose che non lo avevano messo al sicuro dal tradimento e dalla morte.
Non c’è dubbio che quella dei Nibelunghi sia una delle saghe più affascinanti mai prodotte dall’uomo, capaci di ispirare a J.R.R. Tolkien un capolavoro come Il signore degli anelli e a Wagner pagine musicali indimenticabili.

La pralina avvelenata

Ma in quella stretta via della vecchia Worms, la Grosse Fisherweide, non c’erano note ad allietare né racconti epici a emozionare. Soprattutto quel lunedì pomeriggio, il 15 febbraio 1952.
Nella povera casa in fondo alla strada abitavano Eva Ruth, una vedova di 65 anni, insieme al figlio Walter, alla figlia Annie e alla nipotina Uschi, che all’epoca dei fatti ha soltanto sette anni. Annie era rientrata a casa affamata, e aveva aperto le antine della credenza, trovando sui ripiani una pralina al cioccolato. Le era bastato un morso per avvertire un sapore tremendo e sputare a terra ciò che aveva ancora in bocca.
Pochi istanti dopo aveva gridato di sentirsi male: le gambe non la reggevano più, e tutto intorno a lei si era fatto buio. Eva, l’aveva soccorsa, e quando erano subentrate le convulsioni aveva chiamato aiuto. Purtroppo però, all’arrivo dei soccorsi Annie era già cadavere.
Ma non era il solo corpo senza vita sulla scena: anche il cane della famiglia, che aveva raccolto da terra le briciole della pralina, giaceva morto.
Gli investigatori classificavano da subito il caso come un omicidio volontario, e scoprivano che quello stesso pomeriggio Annie aveva ricevuto la visita di un’amica, Christa Lehmann. Era stata lei a portare cinque praline, mangiandone una, una seconda l’aveva presa Annie, poi era toccato a suo fratello e a una vicina. Nessuno però si era sentito male. La quinta e ultima spettava a Eva, che però l’aveva messa da parte, con l’idea di donarla alla piccola Uschi, che in quel momento non era in casa. Allora l’aveva riposta nella credenza.
In attesa dei risultati tossicologici, agli investigatori era toccato indagare su tutti, cercando un movente, e quando erano arrivati a casa di Christa la donna non aveva mostrato alcun segno di tensione, ammettendo di essere stata lei a comprare le praline al cioccolato. Ma questo suggeriva agli inquirenti altre ipotesi di investigazione: e se il dolce fosse stato avvelenato alla fonte, nella pasticceria dove la donna aveva fatto il suo acquisto? E se il colpevole fosse da ricercare tra il personale del grossista che riforniva la pasticceria?
Delle 140 praline messe in vendita, soltanto sette erano ancora in attesa di un acquirente, ma in nessuna c’era traccia di veleno; la polizia decideva allora di lanciare un messaggio via radio, invitando tutti coloro avessero acquistato quel dolciume a non assaggiarlo, e a mettersi in contatto con le autorità.
Quando anche questa pista si rivelava infruttuosa, l’unica conclusione possibile era che la manomissione fosse avvenuta durante il tragitto tra la pasticceria e la credenza di casa Ruth, dove la povera Annie l’aveva trovata. L’ispettore Dahmen, incaricato dell’indagine, tornava allora a concentrarsi su Christa Lehmann, e il ritratto della donna che pian piano emerge è a dir poco inquietante.

Una sostanza misteriosa

Non si poteva certo dire che Christa avesse vissuto un’infanzia serena. La madre, schizofrenica, era stata più volte ricoverata in una clinica psichiatrica. Stanco della situazione, il padre si era separato, ma anche il secondo matrimonio era presto fallito, così come la sua attività di falegname.
La bimba aveva appena finito le elementari quando era stata costretta a trovare lavoro, prima in un laboratorio di concia delle pelli, poi in un colorificio. Lì aveva conosciuto Karl Franz Lehmann, congedato dall’esercito durante la seconda guerra mondiale perché zoppo e sofferente di un’ulcera cronica allo stomaco. Dopo pochi mesi si erano sposati, per trasferirsi a Worms nella casa dei genitori di Karl, che si era messo a lavorare come piastrellista, un impiego dai guadagni modesti.
Il fatto è che Karl si era ritagliato uno spazio nel commercio sul mercato nero, e il denaro, in casa Lehmann, non mancava. Peccato che insieme alla passione per i soldi facili l’uomo coltivasse quella per la bottiglia, e questo causasse litigi sempre più aspri tra i coniugi. Allora Christa si era messa a frequentare i soldati americani dell’esercito di occupazione, cosa che non aveva certo migliorato i suoi rapporti con il marito.
La prima a morire era stata la suocera. Di morte naturale, almeno questo era certo. Poi era toccato al marito, il 27 settembre 1952. E in questo caso la vicenda era più misteriosa. Quella mattina Karl era andato dal parrucchiere, poi era tornato a casa. Mezz’ora più tardi, in preda alle convulsioni, era improvvisamente mancato. Christa non aveva fatto mistero che la morte del marito l’avesse lasciata indifferente. Se solo non si fosse messo di mezzo il suocero, a criticarla, a insultarla per le sue compagnie. Suocero che, attraversando la città in bicicletta il 14 ottobre 1953, era stramazzato al suolo spirando dopo una mezz’ora di agonia. In entrambi i casi chi aveva assistito ai decessi aveva notato che gli uomini, prima di spirare, erano stati preda di forti convulsioni, proprio come era accaduto ad Annie.
Nel frattempo i tossicologi dell’Università di Mainz si erano messi al lavoro; con grande difficoltà, a dire il vero, perché non erano riusciti a isolare alcun veleno conosciuto a effetto convulsivante. Fino a quando a qualcuno non era venuto in mente il parathion, un potente insetticida sintetizzato in Germania verso la fine della seconda guerra mondiale. Il problema è che in letteratura erano stati segnalati pochi casi letali, ma tutti per intossicazione accidentale e tutti avvenuti negli Stati Uniti.
Nei laboratori di Mainz, seguendo le indicazioni trovate in alcuni lavori scientifici statunitensi, erano riusciti a mettere a punto un metodo colorimetrico per l’accertamento della presenza di parathion. E a scoprire, senza ombra di dubbio, che era presente negli organi e nei tessuti del suocero e del marito di Christa, come in quelli di Annie.

La confessione dell’assassina

Condotta in commissariato, accusata di triplice omicidio, la donna non aveva battuto ciglio. Poi, dopo un lungo interrogatorio, Christa aveva fissato negli occhi il procuratore, confessando di essere stata lei a uccidere il marito, il suocero e anche l’amica. Durante il processo, celebrato circa un anno dopo, viene condannata all’ergastolo, senza l’attenuante di alcun vizio di mente.
Ma perché si sarebbe trasformata in assassina? Il movente lo si intuiva per i due uomini, trasformatisi con gli anni in fastidiosi impicci nella sua vita allegramente disordinata. Quanto alla morte di Annie, racconta Christa, si era trattato di un incidente. La pralina avvelenata era destinata a Eva, e solo per caso aveva ucciso sua figlia. La donna non vedeva di buon occhio l’amicizia tra Christa e Annie, e rischiava di rompere il loro sodalizio. Un pericoloso ostacolo che andava eliminato.
Oltre che per la drammatica vicenda umana, il delitto di Worms rimane negli annali della tossicologia forense per il lavoro eccezionale degli specialisti su una molecola mai utilizzata in passato a scopo doloso. Ma anche qui va raccontato un piccolo retroscena. Durante il processo a Christa, qualche ricercatore fece notare che l’identificazione della sostanza tossica, che posta a contatto con un reagente assumeva una colorazione blu-viola, non era così certa. Anche i sulfamidici, i barbiturici e il sangue putrefatto innescavano la stessa reazione. Il fatto, per un buon avvocato dei nostri giorni, avrebbe costituito un ottimo argomento di contestazione. O forse no. Perché, in ogni caso, c’era la confessione dell’assassina.