Davide Vannucci, l’Unità 29/7/2015, 29 luglio 2015
AGNOSTICI E ATEI: GLI ARABI SENZA DIO
Gli esempi illustri non mancano. Lo scrittore palestinese Edward Said era un agnostico dichiarato. Il poeta Mahmud Darwish mise più volte in dubbio la religione. Eppure, l’equivalenza dettata dal senso comune va in direzione contraria: l’aggettivo “arabo” è sempre associato a “musulmano”, come se etnia e religione fossero perfettamente sovrapponibili. Certo, il senso comune ha le sue ragioni. La stragrande maggioranza degli arabi è islamica. Moltissimi Paesi hanno una religione ufficiale e leggi modellate sulla sharia. In alcuni casi, l’appartenenza religiosa è talmente importante da essere indicata sulla carta d’identità, e la libertà di scelta non è ammessa. Ma accanto a sunniti, sciiti, salafiti, wahhabiti, zaiditi, sufi, alawiti, ci sono milioni di cristiani, oltre a piccoli gruppi di drusi ed ebrei. E, soprattutto, ci sono loro, gli “Arabi senza Dio”, titolo di un ebook tradotto da poco in italiano, grazie alla casa editrice Corpo60 e a una tenace opera di crowdfunding.
Lo ha scritto Brian Whitaker, un giornalista del Guardian, che ha deciso di indagare un fenomeno in crescita costante, quello degli arabi che si dichiarano apertamente atei, agnostici e scettici. È molto probabile, scrive l’autore, che i non credenti siano sempre esistiti in Medio Oriente, ma oggi, grazie ai nuovi strumenti di espressione, come i social media, hanno modo di uscire dall’ombra, facendo “coming out”. Non a caso Whitaker prende in prestito il vocabolario dell’attivismo gay, perché nel mondo arabo sia l’ateismo che l’omosessualità sono ancora dei tabù e le conseguenze di un coming out viaggiano in parallelo: nel caso migliore, l’ostracismo della famiglia. Altrimenti, la mano severa della legge, dove sodomia e blasfemia costituiscono un reato.
Se in molte aree del mondo credere in Dio o meno è una scelta privata e personale, l’Islam ha forti aspetti sociali, basati sul concetto di umma (la comunità dei credenti). Atei ed agnostici, quindi, si pongono al di fuori della società e sono visti come una minaccia per la sua stessa esistenza. La lotta per il diritto a non credere, d’altronde, è parte di una battaglia più grande, quella per la libertà d’espressione, un sentiero che gli atei condividono sia con le minoranze religiose sia con milioni di arabi credenti, come quelli scesi in piazza durante la primavera.
Con alcune eccezioni, le credenze delle minoranze tendono ad essere più accettate dell’ateismo, che resta il tabù supremo, la cui violazione comporta spesso il carcere, l’esilio, la minaccia di pena capitale. La maggiore apertura al mondo esterno degli ultimi decenni, però, ha prodotto nel mondo arabo un’ondata di disaffezione verso le tradizioni, soprattutto tra i più giovani, e la religione, così fortemente politicizzata, non poteva sfuggire a questo scetticismo strisciante. Whitaker guarda alla non-credenza come a un fenomeno sociale, veste i panni dello storico delle mentalità e ripercorre questo processo raccontando vicende individuali e attingendo a piene mani da sondaggi, dati, codici.
Zoom in Arabia
La cartina di tornasole della sua indagine è l’Arabia Saudita, dove tutti i cittadini/sudditi sono ufficialmente musulmani e la pratica di altre religioni è vietata. Nel 2012, però, un sondaggio della WIN/Gallup International, condotto in cinquantasette Paesi, ha rivelato che nel regno il 19 per cento ha dichiarato di non essere religioso e il 5 per cento si è definito ateo convinto. “La percentuale di sedicenti atei”, scrive Whitaker, “è stata più alta in Arabia Saudita che in qualsiasi altri Paese a maggioranza musulmana oggetto della ricerca”.
La lingua araba non ha un esatto equivalente della parola “ateo”, che deriva dal greco antico; i termini più utilizzati in questo senso – “mulhid” per atei e “ilhad” per ateismo – hanno una connotazione più ampia. Mulhid, ad esempio, si riferisce anche ad altri tipi di dissidenti, come gli apostati e gli eretici. Nella storia del pensiero mediorientale non mancano trattati polemici in cui vengono attaccati coloro che negano l’esistenza di Dio, né parodie del Corano, che al giorno d’oggi scatenerebbero reazioni difficili da gestire. L’ateismo di oggi, quindi, non è il semplice adattamento di un prodotto occidentale.
La diffusione del marxismo, accompagnato da idee laiciste, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non portò a diffondere in pubblico la non-credenza. La stessa Repubblica democratica popolare dello Yemen, fondata nel 1967, unico esempio di governo marxista-leninista in Medio Oriente, promosse una versione socialista dell’Islam. È alla fine del ventesimo secolo, grazie ad Internet, e agli inizi di quello successivo, con lo sviluppo dei social media, che fanno la loro comparsa gli scettici arabi.
Nel mondo del web il rapporto di forza tra atei e islamisti è completamente sproporzionato. La rete è il megafono dei fondamentalisti, più che degli scettici. Ma oggi una semplice ricerca su Facebook restituisce un centinaio di pagine che contengono nel titolo mulhid, più una ventina che usano l’espressione inglese “Arab atheist”. Malgrado i tentativi di boicottaggio dei salafiti, la rete degli atei arabi è sopravvissuta e adesso ha più di 18.000 iscritti. Una pagina di Facebook, Arab Atheist Library, fornisce il download gratuito di libri difficilmente accessibili, tra cui traduzioni arabe di opere occidentali: filosofi come Spinoza, Hannah Arendt e Bertrand Russell, scienziati come Stephen Hawking e Richard Dawkins. E poi ci sono i video. L’Arab Atheist Broadcasting è un canale YouTube che a venerdì alterni produce un programma di due ore, un dibattito a cui si può partecipare via Skype. Sempre su YouTube c’è un talk show, “Black Ducks”, diretto da Ismail Mohamed, un ateo egiziano.
Focus sul web
Nelle interviste di Whitaker la questione citata più volte come primo passo sulla strada del non credere è l’apparente iniquità della giustizia divina, che agirebbe non diversamente da un dittatore arabo o da un patriarca vecchio stile. L’abbandono della religione, in generale, è un viaggio privato, solitario, un processo intellettuale dettato anche dall’esperienza personale. Nessuno vede nell’ateismo un pretesto per uno stile di vita dissoluto – occidentale, agli occhi dei suoi nemici – per quanto le influenze straniere giochino un ruolo spesso determinante.
Il coming out, però, è sempre prudente. La maggior parte degli intervistati, racconta l’autore, ha chiesto di non essere identificata con il vero nome, anche per evitare di turbare le famiglie (la stessa identità di Arab Atheist è segreta).
I sistemi differiscono da Paese a Paese, e non è facile stabilire l’esatta natura giuridica dell’apostasia (il ripudio di una fede). Molti Paesi hanno leggi contro la conversione dall’islam, per altri è un crimine (teoricamente) punibile con la pena di morte. Fare esibizione di ateismo, d’altra parte, è un rischio ovunque. Basta chiedere a Waleed al-Husseini, 25 anni, palestinese, arrestato a Qalqilya, nella West Bank. Aveva creato una pagina Facebook, chiamandola “Ana Allah“ (“Io sono Dio”). Nel primo post aveva annunciato che in futuro Dio avrebbe comunicato con le persone tramite Facebook, perché, “pur avendo inviato dei profeti secoli fa, il suo messaggio non era stato ancora recepito”.