Silvia D’Onghia, il Fatto Quotidiano 30/7/2015, 30 luglio 2015
IL VELO D’ORO DELL’ISLAM –
Si fa presto a dire hijab. Mentre le nostre città si tingono ogni giorno di macchie di razzismo più scure, i Salvini di turno denunciano “l’invasione” delle nostre coste e l’Europa non riesce a trovare rimedio all’arrivo di poche decine di migliaia di disperati, c’è un settore dell’economia mondiale che ha ben compreso come l’islamismo sia tutt’altro che una minaccia. Semmai, quello che sta per diventare un marchio: iFash, che sta per “Islamic fashion”. Se è vero che la rivoluzione passa attraverso le donne, la moda femminile rappresenta sempre di più un motore di superamento delle barriere culturali e di sviluppo economico: l’Islamic Fashion and Design Council ha stimato in 300 miliardi di dollari il giro d’affari del 2014. Cifra che dovrebbe crescere fino a 484 entro il 2019.
Martedì scorso a Torino, quando due consiglieri leghisti hanno pensato (male) di portare via il tappetino di preghiera a due imprenditori (episodio sul quale la Procura del capoluogo piemontese sta ora indagando con l’ipotesi di discriminazione razziale), era in corso proprio un convegno sulla moda islamica, il Turin Modest Fashion Roundtable: 90 investitori e, appunto, imprenditori provenienti da Dubai e da altri 19 Paesi. “Un comportamento offensivo per la città e i suoi ospiti – ha commentato il sindaco, Piero Fassino – e una manifestazione di ignoranza”. Se non altro, per il giro d’affari che un evento del genere può contribuire a creare: coniugare le linee non aderenti degli abiti lunghi fino alle caviglie con il made in Italy sembra essere il nuovo terreno di caccia dei magnati del petrolio.
A Mosca un terzetto di giovani donne musulmane – come riporta il New York Times – ha messo in piedi un atelier, “Rezeda Suleyman”, che commercializza 40 brand islamici e promuove la moda iFash non necessariamente col hijab, il velo. Si stima che il 16 per cento della popolazione moscovita, circa due milioni di persone, sia di fede musulmana e che entro pochi decenni lo sarà il 25 per cento dei russi. Ma aprire le porte di un negozio di abiti di straordinaria fattura anche alle donne di diverse religioni significa aver intuito il business. Non a caso agli eventi organizzati dalle tre ragazze partecipano anche molte attrici russe. “Sono abiti da tappeto rosso – spiega al NYT una di loro, Nina Kurpyakova –, non importa quale religione li abbia disegnati”. “Una donna ci ha chiesto di poter leggere il Corano dopo aver acquistato un nostro abito” racconta ancora una delle fondatrici di Rezeda Suleyman. Una forma di integrazione al contrario.
Nessuno pensi al nero del burqa: gli abiti musulmani possono essere coloratissimi, ricchi di particolari, foggiati in stoffe preziose e molto sensuali, scivolando sul corpo femminile. E lo stesso velo può rappresentare uno strumento di seduzione laddove, come in Egitto, vengono intrecciati colori e forme con risultati invidiati in molte parti del mondo arabo. L’importante è che il tutto sia halal, cioè lecito, consentito. Un paio di anni fa il ministero iraniano per la Cultura e la Guida islamica ha aperto alle esigenze delle nuove generazioni e ha decretato la possibilità di posare e sfilare in pubblico, a patto che le modelle siano interamente coperte – ad eccezione di viso, mani e piedi – e che non assumano comportamenti provocatori. Che siano, appunto, halal.
Se il mercato arabo guarda all’Occidente, succede già anche il contrario. Ha cominciato DKNY, la “prima tra le grandi firme” a lanciare collezioni speciali per il Ramadan, il mese sacro del digiuno, seguita a ruota da maison come Valentino, Dolce & Gabbana, Prada, i cui prezzi non proprio accessibili attestano quanto il mercato punti molto in alto. Nel business non potevano mancare Victoria Beckham e Yamamoto e, da quest’anno, anche le popolari Zara, H&M e Mango. Però non è ancora abbastanza: Alia Khan, presidente dell’Islamic Fashion and Design Council presente a Torino in questi giorni, ha spiegato all’Ansa che siamo di fronte a una scarsa “consapevolezza e capacità di aggredire questo mercato ancora inesplorato, anche da parte delle aziende italiane” e che servirebbe invece uno “studio più attento dei consumatori musulmani che non si sentono compresi al 100 per cento”. L’IFDC sta lavorando al marchio iFash, che consenta ai brand internazionali di commercializzare prodotti islamici halal.
Non soltanto abiti: le donne musulmane amano i profumi, la cosmesi e la biancheria intima (tanto per sfatare pregiudizi e ignoranza). E anche in questi settori la creatività italiana potrebbe rivelarsi decisiva e soprattutto molto redditizia. Chissà se magari la prossima volta, prima di sottrarre un tappeto per la preghiera, arrivi alle narici dei leghisti il profumo dei soldi.