Donato Masciandaro, Il Sole 24 Ore 30/7/2015, 30 luglio 2015
L’AMBIGUITA’ DELLA YELLEN E LA VOGLIA DI STABILITA’
Può un banchiere centrale che ama avere le mani libere, come Janet Yellen, essere spinta dalle ragioni dei mercati e della politica a darsi una regola sui tassi di interesse per i prossimi mesi? È questa la domanda a cui la banca centrale americana deve dare una risposta, al di là della (non) decisione assunta ieri in merito al ritorno ad un innalzamento dei tassi di interesse, per la prima volta dal 2004 ad oggi. Domanda che ancora una volta è stata elusa dalla Fed, che continua ad accrescere con la sua condotta l’incertezza esistente oggi sui mercati.
Oltre un decennio dall’ultimo inizio di una restrizione monetaria è un periodo lunghissimo, soprattutto per i mercati finanziari. È stato calcolato che circa un terzo degli attuali operatori sui mercati statunitensi non hanno memoria di tale evento, cioè lavorano in finanza avendo visto solo tassi calanti, bassi, tendenzialmente nulli.
Anche per questo il lavoro della Yellen, almeno fino a qualche mese fa, è stato facile e piacevole. È stato facile perché dire ai mercati che i tassi di interesse saranno nulli, fino a nuovo ordine, significa non doversi legare le mani, e nel contempo essere popolare e gradita dagli stessi mercati finanziari, perché ad essi i tassi piacciono bassi e stabili, in modo da poter far crescere l’indebitamento privato.
È stato piacevole perché l’attuale orientamento del vertice della Fed è quello di utilizzare la politica monetaria per stabilizzare il ciclo economico; le cosiddette colombe controllano la politica monetaria, e hanno potuto farlo proprio perché dal settembre 2008 la politica monetaria è entrata in una fase straordinaria, in cui le regole di condotta prima in vigore sono state accantonate.
Fino a quel momento infatti la politica monetaria della Fed aveva seguito una regola di condotta. Avere una regola di condotta è stato ritenuto indispensabile per una banca centrale come la Fed, priva di un mandato statutario ben definito, a differenza della banca centrale europea.
Continua pagina 8 Donato Masciandaro
Continua da pagina 1 Formalmente la Fed deve cercare di perseguire contemporaneamente sia l’obiettivo della piena occupazione che quello della stabilizzazione dell’inflazione, trovando discrezionalmente di volta in volta una sintesi tra le due finalità macroeconomiche. La piena discrezionalità ha reso la Fed una sorta di Giano bifronte: una burocrazia molto potente, tenendo conto anche dei suoi poteri di vigilanza bancaria, ma al contempo molto esposta ai condizionamenti sia della politica che delle grandi banche. I rischi della discrezionalità si manifestarono in tutta evidenza negli anni 70, quando la non credibilità della Fed aveva minato l’efficacia della sua politica monetaria, in un contesto tossico di recessione e inflazione.
La Fed allora era stata costretta ad auto-imporsi delle regole, prima direttamente con obiettivi sull’inflazione, poi indirettamente attraverso una regola sui tassi di interesse. Come Ulisse, la Fed si era legata le mani, e la regola monetaria è stata associata ad effetti positivi sulla stabilizzazione dei mercati. Guardiamo ad esempio ai tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento della Fed a favore delle banche: nel periodo in cui la regola è stata seguita, e partendo dal 1999, la variazione mensile media - in termini di frazioni di punti base - è stata molto ridotta, nell’ordine del 4%. Poi, prima con Greenspan e poi con Bernanke, la regola è stata abbandonata. Scoppiata la crisi, i tassi sono velocemente scivolati verso il basso; in un anno la variazione media è stata del 26%, per poi appiattirsi sullo zero, e rimanerci in modo costante. Dall’inizio della crisi, la variazione media è stata complessivamente molto bassa, pari al 9%.
Ma ora la situazione straordinaria deve volgere al termine. I mercati sono “rassegnati” a non avere più tassi nulli, ma vorrebbero ancora la stabilità, che solo una regola può dare. Anche all’economia in generale una regola monetaria non può che far bene. Quando le espansioni monetarie durano più di un lustro, il rapporto tra orientamento della politica monetaria e robustezza del ciclo economico diventa molto ambiguo. Se una espansione monetaria è associata con una crescita ancora non consolidata - come oggi viene ritenuta quella americana - è perché l’espansione non è stata sufficientemente aggressiva, oppure è proprio il permanere dell’eccesso di liquidità che continua a mandare segnali ambigui, se non negativi, all’economia?
Ma che la stagione straordinaria debba volgere al termine ora lo vuole anche parte della politica, soprattutto tra i Repubblicani. I cosiddetti falchi stanno aumentando di numero e peso; chiedono un ritorno alle regole di politica monetaria, addirittura statuite per legge. I Repubblicani ritengono di avere una banca centrale al contempo troppo indipendente e troppo discrezionale; occorre ridurre la discrezionalità, e magari aumentare anche il controllo politico. È il paradosso dell’assenza di regole monetarie, che rischia di minacciare lo status quo istituzionale della Fed. Finora la colomba Yellen ha capitalizzato la natura straordinaria della fase crisi e post crisi. Per quanto ci riuscirà?