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 2015  luglio 29 Mercoledì calendario

FRAMMENTO DEI FRAMMENTI CHE RISPONDONO ALLA VOCE "SHERLOCK HOLMES" E "CONAN

DOYLE"

Una delle storie più interessanti relative all´epoca vittoriana è quella di Daniel Mendoza, un pugile ebreo che sfidò ripetutamente l´idolo britannico Richard Humphries: gli incontri, pubblicizzati come la sfida tra l´«Ebreo» ed il «Galantuomo», consacrarono definitivamente la diffusione dello sport, e nel giro di poco tempo molti scrittori cominciarono a cimentarsi con i guantoni, tra i quali Conan Doyle. (La Repubblica 18 giugno 2008, Antonio Monda)

Il giovane Arthur Conan Doyle scriveva ambigue lettere alla madre: «Mum, c’è mai stata una storia d’amore come la nostra, da quando il mondo è iniziato?», oppure: «Anelo a baciare la mia cara mamma, una volta di più». (Luigi Offeddu, Corriere della Sera 30/8/2007, pagina 39)

Arthur Conan Doyle, prima di diventare famoso con le avventure di Sherlock Holmes, era un giovane sadico. Giovane medico di bordo, faceva il tirocinio su una nave baleniera in navigazione nell’artico. Spesso si univa ai massacri dei balenieri che abbordavano le foche con le loro scialuppe sulle banchise di ghiaccio, pestando mazzate a destra e manca e poi raccontando tutto nelle lettere che spediva alla madre. In una per esempio si vede un disegnino con la didascalia: «Questo sono io armato di alabarda insanguinata. Alle madri si spara, ai cuccioli si sfonda la testa». (Luigi Offeddu, Corriere della Sera 30/8/2007)

Lo scozzese sir Arthur Conan Doyle, medico di bordo fra Artide e Africa, inventò la figura del detective Sherlock Holmes applicando alle investigazioni criminali il modello diagnostico delle indagini cliniche. (Stefano Lorenzetto, il Giornale 29/5/2011)

Era medico anche Arthur Conan Doyle e le sue storie di Sherlock Holmes sono di per sé un piccolo trattato sul metodo induttivo. Non solo. Tra gli ispiratori della figura dell’investigatore maledetto, c’era Joseph Bell, maestro di Doyle all’università e rinomato medico legale. Chissà se questa strettissima vicinanza con la morte è all’origine della vena autodistruttiva di Sherlock, che nemmeno l’amico medico John H. Watson riesce a estirpare. Anche perché Doyle (come molti medici dell’epoca) cedette alle tentazioni dell’occultismo. (Roberta Scorranese, Corriere della Sera 5/5/2015)

Madre irlandese, padre italiano, nato nel centro povero di Manchester, e «vero Sherlock Holmes», almeno secondo la sua biografa Angela Buckley. Jerome Caminada fu alla fine del XIX secolo uno dei più brillanti e geniali poliziotti vittoriani, il primo a raggiungere l’alto grado di Superintendent nel dipartimento di investigazioni criminali della città inglese. Risulta non avesse pari nell’uso della logica, coltivasse una fede profonda del lavoro della scientifica e amasse travestirsi per rendere più efficaci poste e inseguimenti. «Ci sono così tanti paralleli - assicura la Buckley - da far apparire chiaro il fatto che Doyle abbia attinto a questo personaggio reale per costruire l’investigatore di Baker Street». Non ci sono prove che sia vero. Non per il momento. La genesi letteraria di Sherlock Holmes è stata studiata in ogni dettaglio, frotte di appassionati hanno scandagliato l’abbondanza di lettere e testi scritti sull’investigatore di cappa e pipa dal dottore, e baronetto, scozzese. Ogni eroe è figlio del suo tempo, ma Sir Arthur non fece mai segreto aver traslato delle pagine di «Uno studio in rosso», il primo romanzo sherlockiano, lo stile e le sembianze del professor Joseph Bell, un chirurgo che fu suo insegnante di medicina a Edimburgo. Per lo stile letterario scelse Auguste Dupin, il poliziotto raccontato da Edgar Allan Poe. Su Caminada, nessun riferimento. Eppure Doyle era un avido lettore di cronaca nera, per passione e necessità: si può pensare che conoscesse le vicende di Caminada, una vita che è romanzo essa stessa, conclusa quando il poliziotto abbandona il distintivo e diventa investigatore privato. Cosa che, ovviamente, solleva l’interrogativo sul chi sia stata la sua fonte di ispirazione, visto che Holmes era un best seller nazionale dal 1887. Destini incrociati, comunque la si guardi. Caminada vide la luce a Deansgate nel 1844, un quartiere di pub e bordelli, densamente popolato da operai e disperati, una zona dove il crimine era la regola del giorno. Nel 1868 entrò nei ranghi della Polizia di Manchester, della quale divenne sergente quattro anni dopo, passando alla nuova divisione investigativa che aveva sede nel Municipio. Era la crema del mestiere. Ci restò per trent’anni, rispetto da colleghi, giudici e criminali, quasi con la stessa passione. I malavitosi lo chiamavano Detective Jerome. Il cognome era per loro troppo ostico. Si guadagnò la nomina a ispettore a 34 anni e intraprese una carriera che, stando alle cronache, gli portò 1.225 arresti. Era solito girare con la pistola, onere che in genere Sherlock Holmes affidava all’esperienza militare del fidato Watson. Per la cronaca, si spara in sette delle sessanta avventure del detective di Doyle, su uomini e sul cane dei Baskerville. Come Holmes, Caminada aveva un debole per il travestimento, gli serviva a mescolarsi negli ambienti meno salubri della città. Vantava una larga serie di informatori che incontrava nella chiesa di Saint Mary, forse non speciali come quelli del Signor Sherlock, che si appoggiava a un gruppo di ragazzini senza chiara dimora, gli irregolari di Baker Street. Uno dei suoi casi più celebri è tutto giocato sulla rapidità: in tre settimane, nel 1889, portò davanti al giudice l’assassino di un vetturino, un uomo inizialmente fuori dalle spettro delle indagini. Praticava metodi moderni, era ammirato e temuto. Si ritirò nel 1899 per mettersi in proprio, poi diventò consigliere comunale nel 1907. Suo padre, l’emigrato italiano, sarebbe stato fiero del figlio, «il Garibaldi dei detective». Morì nel 1914, per i postumi di un incidente, e ora il libro della Buckley - «The True Sherlock Holmes» - gli rende un’altra possibilità di fama. La scrittrice trova anche una Irene Adler, l’amore di una vita per l’uomo di Baker Street, in una donna inglese di incerta fama che fece arrestare non senza provare qualcosa per lei. Doyle, che scrisse «Uno scandalo in Boemia» l’anno dopo, lesse la storia? Chissà. Si può però adottare una delle massime holmesiane classiche, «se eliminiamo le soluzioni impossibili, quella che rimane, per quanto improbabile, sarà la verità». E cullarsi nel pensare che magari sia andata davvero così. (Marco Zatterin, La Stampa 17/3/2014)

Per vendicarsi dei persecutori, nel 1838 alcuni mormoni costituiscono l’organizzazione segreta dei Daniti: le loro violenze saranno materia di romanzi a sensazione, tra cui ”Uno Studio in Rosso”, la prima avventura di Sherlock Holmes. Arthur Conan Doyle studiò a lungo il mormonismo prima della sua conversione allo spiritismo, che cercò di divulgare anche nello Utah. Nel 1923 i mormoni lo accolsero nel Tabernacolo di Salt Lake City, dove potè presentare le sue prove dell’esistenza degli spiriti. (Massimo Introvigne, I Mormoni. Dal Far West alle Olimpiadi, Elledici)

Nelle intenzioni del suo creatore, sir Arthur Conan Doyle, doveva chiamarsi Ormond Sacker il medico londinese spalla di Sherlock Holmes. Intenzioni poi modificate: il nome, riletto, sembrò a sir Arthur troppo bizzarro per il personaggio che aveva in mente. E lo cambiò nel più rassicurante John H. Watson. Poco male, visto che anche Holmes, nei primi abbozzi, non si chiamava Sherlock ma Sherringford (o Sherrinford). (Giulia Ziino, La Lettura 19/8/2012)

Il manoscritto del primo libro con Sherlock Holmes, ricorda lo stesso Conan Doyle, «tornava indietro con la precisione di un piccione viaggiatore». (Mario Baudino, Il gran rifiuto)

Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, agli inizi della carriera sottopose il manoscritto di Studio in rosso a più di un editore. Una copia che era stata spedita in un contenitore cilindrico tornò indietro tutta curva, prova del fatto che non era stata neanche letta. Il libro uscì poi nel 1887 in una sorta d’annuario natalizio che conteneva anche cruciverba, giochi, notizie curiose. Somma per la quale furono ceduti i diritti dell’opera: 25 sterline. (Giulio Giorello, Corriere della Sera, 1/9/97)

Uno dei gialli più im­portanti della Letteratura è Uno stu­dio in rosso di Arthur Conan Doyle, pubblicato nel 1887 sul Beeton’s Chri­stmas annual e l’anno dopo in volu­me. Conan Doyle però non guada­gnò un granché, visto che cedette tut­ti i diritti per 25 sterline. (Luigi Mascheroni, il Giornale 5/8/2013)

L’8 gennaio 1887 viene pubblicato in Inghilterra il primo libro della serie dedicata all’investigatore privato Sherlock Holmes, A Study in Scarlet. L’autore è lo scrittore irlandese Arthur Conan Doyle, che per creare il suo personaggio pare si sia ispirato al chirurgo Joseph Bell, famoso per l’abilità di dedurre, da minimi dettagli, le caratteristiche psico-fisiologiche dei propri pazienti.

«Sherlock Holmes si iniettava droga nel braccio sinistro tre volte al giorno, alternando morfina e cocaina. Lo faceva con una siringa ipodermica che teneva in un astuccio di marocchino e sul suo braccio nodoso si potevano scorgere innumerevoli buchi. Il suo amico e compagno di avventure, John H. Watson, che era un medico militare, disapprovava ma non se la sentiva di protestare: malamente ferito in una guerra coloniale, viveva di una pensione non indecorosa, non disdegnava la bottiglia e, prima di incontrare Sherlock Holmes, passava molto tempo nei bar di Londra» (Dal romanzo "Uno studio in rosso", scritto da Conan Doyle nel 1887). (Mario Deaglio su La Stampa del 10/08/01)

Sherlock Holmes era un disposofobico, «incapace di distruggere un documento, li accumulava alle pareti». (Chiara Daina e Corrado Zunino, la Repubblica 06/11/2012)

Nello “Studio in rosso” Sherlock Holmes viene inopinatamente accostato al celebre investigatore di alcuni racconti di Poe. La contrarietà non potrebbe essere più grande: «Voi certo credete di adularmi, paragonandomi a Dupin. Credo però che Dupin non fosse che un tipo volgarissimo», dice piccato Holmes. (Antonio Gnoli, la Repubblica 07/01/2012)

Pipa Meer­schaum Mohagany Calabasch, la stessa resa celebre da Sherlock Holmes. (Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 01/10/09)

Secondo Fernando Savater, non è vero che Sherlock Holmes fuma la pipa ricurva(cachimba): "Holmes fumava quasi sempre sigarette o sigari e la sua pipa abituale era diritta come quella di Maigret. La cachimba è stata imposta dall’attore americano William Gillette, che rese popolare il detective sulle scene e inventò buona parte dell’uniforme che oggi lo caratterizza. Gillette si rese conto che in teatro nessuno può parlare con una pipa dritta in bocca, mentre è possibile farlo con una curva". (Fernando Savater, La Stampa 2/7/2003).

«Elementare, mio caro Watson». Sherlock Holmes non l’ha mai detto, Arthur Conan Doyle non l’ha mai scritto. Ma in una pagina de Il caso dell’uomo deforme c’è uno scambio di battute che può aver generato la leggenda: Watson, dopo aver ascoltato una delle proverbiali deduzione di Holmes, dice: «Semplice!» e Holmes risponde: «Elementare!». (Corriere.it 19/3/2009)

Se Conan Doyle avesse avuto «NewNovelist» a disposizione probabilmente si sarebbe risparmiato l’imbarazzo di fare emigrare la ferita di guerra del dottor Watson dalla spalla (dove si trovava in Uno studio in rosso) alla gamba (nel Segno dei quattro). (Vittorio Sabadin, La Stampa 29/8/2008)

Il 30 agosto 1889 J.M. Stoddart, intraprendente editore di Philadelphia in visita di lavoro a Londra, invitò a cena due giovani ma già affermati scrittori del posto (per la verità, uno irlandese e uno scozzese) per proporre loro di scrivere un romanzo breve o racconto lungo da pubblicare sulla sua rivista Lippincott’s Monthly Magazine. Il più giovane dei due, lo scozzese, che aveva trent’anni e si chiamava Arthur Conan Doyle, offrì subito una seconda e meglio sviluppata avventura del poliziotto che aveva inventato da poco. L’irlandese, che di anni ne aveva trentacinque, non aveva preparato niente, ma la sua specialità erano i racconti improvvisati. Ne creò uno a braccio, e il committente si dichiarò soddisfatto. Così nacquero Il segno dei quattro, che stabilì definitivamente il personaggio di Sherlock Holmes, e Il ritratto di Dorian Gray (…) (MASOLINO D’AMICO, La Stampa 8/6/2011)

Era una mattina nebbiosa e sopra i tetti delle case gravitava un velo che pareva rispecchiare la superficie fangosa delle vie». John Watson, ufficiale medico di Sua Maestà rientrato da poco dall’Afghanistan con una fastidiosa ferita di guerra, descrive con puntiglio la Londra che sta attraversando di corsa diretto a Brixton, risucchiato dal caso de Il Segno dei quattro, il suo avventuroso esordio al fianco di Sherlock Holmes. Siamo all’inizio del marzo 1881, la primavera è vicina, eppure la capitale è sospesa in un clima vaporoso e inclemente, nel magico tempo vittoriano che alimenta le fantasie di chi ama i libri. Il sipario s’alza nel teatro di mille crimini e delle imprese del primo grande detective privato della storia della letteratura gialla. (…) Quello che gli appassionati chiamano «il Canone», i 56 racconti e quattro romanzi sherlockiani scritti da Watson e firmati da Doyle, s’inizia in un punto preciso quanto misterioso. «Ho messo gli occhi su un appartamento in Baker Street», annuncia Holmes al buon dottore una mattina del gennaio 1881, il 6 per convenzione. I due si sono appena conosciuti all’ospedale Saint Bart, su segnalazione di un conoscente che Watson ha visto al Criterion di Piccadilly. Cercano casa, hanno poche sterline. Si studiano e si danno un appuntamento «per vedere i locali al n.221 B». «Due comode camere da letto» dall’arredamento «festoso». Il prezzo, «diviso, è conveniente». Affare fatto. I due si trasferiscono la sera stessa. Diventeranno inseparabili senza mai smettere di darsi del lei. L’indirizzo è un’invenzione. All’epoca della regina Vittoria, Baker Street era divisa in più segmenti, non arrivava al 221B. Oggi, all’equivalente moderno del civico, c’è il museo dedicato a Holmes, maniacale ricostruzione delle stanze della coppia, a partire dai diciassette scalini che portano allo studio. Per i fan è «canonico», il migliore dei complimenti. C’è il coltello che pugnala la posta sulla mensola del camino, c’è la pantofola persiana col tabacco. Mancano il fumo acre della «pipa di terra nera» e l’odore dello zolfo. Il numero della casa è oggetto di dibattito da anni. Si pensa agli attuali 59, 61 o 63. (…) Intorno si esprime un gran business di cappa e pipa, bar, negozi, e il caro Sherlock Holmes Hotel. Le emozioni sono sotto terra, nei corridoi della metropolitana, tappezzati con la silhouette holmesiana nei colori delle quattro linee che l’attraversano. Sulla piattaforma della Jubilee ci sono sette illustrazioni ispirate alle storie di Watson. (…) A Montague Street si trovano gli alloggi che il giovane laureando Holmes scelse nel quartiere di Bloomsbury, terra di Virginia Woolf. C’è consenso, e non prove, che abitasse al 26: Doyle, guarda caso, abitò per diversi mesi al 23 di Montague Place nel 1891. Il British Museum è un passo, era l’hard disk di Sherlock, che si smarriva nei libri, quando non staffilava i cadaveri al Saint Bart, elaborando teorie criminali. Nell’ospedale, in Smithfield Square, una targa ricorda il primo incontro fra i due amici. Di qui ci si spinge verso l’East End, il cuore dell’altra Londra di Sherlock Holmes, i teatri, i giornali, la stazione di Charing Cross. Lo Strand comincia ad Aldwych, dove c’è il Lyceum, un teatro neoclassico, all’angolo con Wellington Street, ricostruito nel 1904. Fu davanti «alla terza colonna da sinistra» che Mary Morstan, con Holmes e Watson, s’abboccò il 7 luglio 1888 l’uomo che l’avrebbe guidati oltre il Tamigi nell’«oasi d’arte» di Thaddeus Sholto all’inizio de Il segno dei quattro. Mary, in seguito, avrebbe sposato il dottore di Baker Street. Wellington Street è il prolungamento di Bow Street, dove (L’uomo dal labbro storto) aveva sede un’ importante stazione di polizia londinese usata da Holmes. Non lontano, c’è «il nostro ristorante sullo Strand», Simpson’s, che è ancora lì. Ci andavano quando non erano a teatro, Saint James Hall di Piccadilly o Covent Garden Theatre (ribattezzata Royal Opera House) dove nel gennaio 1896 la coppia ascoltò un concerto di musiche di Wagner. Erano buongustai, amavano la cucina italiana del Goldini’s di Gloucester Road, a Kensington. Da Simpson’s un salto e si è a Charing Cross, dove Holmes fu aggredito nella primavera 1894 (La casa vuota). Dietro la stazione, qualche traccia del bagno turco di Craven passage (Il cliente illustre) frequentato dalla coppia il 3 settembre 1902. Li anche il Northumberland Hotel in cui alloggiò Sir Henry Baskerville al suo arrivo a Londra e prima di incontrare a Dartmoor il mastino che in realtà era un bracco. Ora accoglie lo Sherlock Holmes Pub e la più antica ricostruzione della stanza principale del 221B, realizzata nel 1951. (…) Dall’adiacente Trafalgar square si apre Pall Mall. Nei forzieri della banca all’angolo con Waterloo Place, «in qualche sotterraneo della Cox &Co., c’è una scatoletta da viaggio rigurgitante di carte, e quasi tutte sono registrazioni di curiosi problemi che Holmes ebbe occasione di esaminare in varie epoche». È il tesoro del biografo sherlockiano, il Graal delle avventure perdute che gli holmesiani cercano da sempre, quello che svelerebbe la verità nascoste sul Signor SH. Potrebbe dire cosa è successo nell’inedito caso del Grande topo di Sumatra (…) (Marco Zatterin, La Stampa 5/8/2010)

Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) confidò in una lettera di nutrire antipatia per la propria creatura letteraria Sherlock Holmes e di continuare a scrivere gialli per finanziare i medium e poter viaggiare da un capo all’altro del mondo come «missionario dello spiritismo». In un’altra lettera scrisse di aver ricevuto «un innegabile messaggio dall’aldilà»: aveva sognato che qualcosa di importante sarebbe accaduto in una località chiamata «Piave, mai sentita prima», visione onirica poi confermata dalla battaglia del ’17. Convinto della definitività di questa prova si spiegò il mancato compimento della fine imminente del mondo, preannunciata dal suo spirito guida, di origine araba, come «una straordianria burla giocata dall’aldilà al genere umano». (Marco Travaglio, la Repubblica 20/04/1999)

Leblanc fece incontrare più volte il suo Lupin con Sherlock Holmes (ribattezzato, dopo le proteste di Arthur Conan Doyle, Herlock Sholmés...). (Stenio Solinas, il Giornale 30/04/2010)

Conan Doyle diceva di provare per Sherlock Holmes «gli stessi sentimenti che ispira il paté di fegato a chi ne ha fatto indigestione una volta». (Piergiorgio Odifreddi "la Repubblica" 20/12/2002)

Conan Doyle, in treno con la famigliola diretto in Sudafrica, mollò un ceffone al figlio che aveva appena commentato in modo poco lusinghiero l’aspetto fisico di una signora: «Nessuna donna è brutta» fu la lezione. (Javier Marìas "Vite scritte" Einaudi 2004)

«Il grande destino femminile è quello che la donna diventi un supplemento dell’uomo» (Arthur Conan Doyle). (Luigi Offeddu, Corriere della Sera 30/8/2007)

Durante gli anni in cui la sua prima moglie, Touie, era ammalata di tubercolosi, Conan Doyle già amava quella che sarebbe diventata la seconda, Jean Leckie, ma di un amore platonico finché la prima rimase in vita. Al cognato Hornung, che gli aveva appena fatto notare che non c’era molta differenza tra una relazione platonica e una fisica, rispose: «È tutta la differenza fra l’innocenza e la colpa». (Javier Marìas "Vite scritte" Einaudi 2004)

Quando Arthur Conan Doyle, nel 1893, «uccise» Sherlock Holmes nel tentativo di liberarsi di un personaggio così popolare da impedirgli di scrivere altro, ventimila lettori cancellarono per protesta l’abbonamento alla rivista che pubblicava le sue storie. E la stampa britannica riferì che a Londra uomini d’affari giravano con i cappelli listati a lutto. Alla fine Doyle fece «resuscitare» il suo detective. (Elena Tebano, la Lettura Corriere della Sera 08/01/2012)

Sherlock Holmes, fatto morire in un romanzo e poi resuscitato a furor di popolo (i londinesi giravano col lutto al braccio) in "Il mastino dei Baskerville". (Enrico Franceschini, la Repubblica 11/7/2007)

Dopo aver fatto morire Sherlock Holmes (nel 1893), Conan Doyle importò sci dalla Norvegia, ipotizzò un canale sotto la Manica e concepì gli elmetti d’acciaio per i soldati e i giubbotti gonfiabili per i marinai.
(Pico Floridi su la Repubblica del 24/08/01)

Nel 1893, Arthur Conan Doyle fece morire Sherlock Holmes nel racconto "L’ultima avventura", pubblicato a puntate sullo "Strand Magazine": sdegnati, ventimila lettori annullarono l’abbonamento alla rivista e alcuni impiegati infilarono sul braccio una fascia nera in segno di lutto. Nell’agosto del 1901, sempre sullo "Strand Magazine", Doyle riportò in vita il «consulente investigativo» con il racconto "Il mastino dei Baskerville": di fronte all’edificio che ospitava la redazione si formarono lunghe file di lettori, ci furono dodicimila nuovi abbonamenti. Sulla prima pagina, una nota dell’autore: «Questo racconto mi è stato suggerito dal mio amico Fletcher Robinson, che mi ha aiutato con l’intreccio e con i dettagli locali». Nelle edizioni successive, però, il riferimento scomparve: Robinson morì sei anni dopo la prima uscita del romanzo. Causa ufficiale del decesso, il tifo. Secondo lo scrittore Rodger Garrick-Steele, invece, Robinson venne avvelenato con del laudano dalla moglie Gladys, amante segreta di Doyle.
(Pico Floridi su la Repubblica del 24/08/01)

Per scrivere "Il mastino dei Baskerville" Conan Doyle copiò un manoscritto dell’amico Bertram Fletcher Robinson (cui aveva soffiato pure la moglie). Costui morì di tifo nel 1907, ma uno studioso inlgese è convinto che fu ucciso da una dose massiccia di laudano somministratagli dalla moglie. (Luigi Mascheroni, "Il Giornale" 4/12/2002.)

Nel 1894, durante un viaggio in America, un conducente di taxi chiese a Conan Doyle un invito per la sua conferenza invece del normale pagamento. Doyle, meravigliato, gli chiese come avesse fatto a riconoscerlo, e quello: «Se lei permette, il bavero del suo cappotto è gualcito nel punto dove gli insistenti reporter newyorkesi lo hanno afferrato. I suoi capelli hanno il taglio quacchero dei barbieri di Filadelfia e la tesa stropicciata del suo cappello mostra che lei lo ha stretto fra le mani nella folla di un pranzo letterario a Chicago. La sua scarpa destra conserva un pezzo di fango della città di Buffalo, i suoi vestiti portano ancora l’odore di un sigaro di Utica... e naturalmente le etichette del suo bagaglio danno conto dei suoi spostamenti recenti, essendo poste proprio sotto la placca in ottone su cui è scritto "Conan Doyle"». (Pico Floridi su la Repubblica del 24/08/01)

Soltanto nei vapori industriali e climatici della Londra vittoriana poteva prendere forma un simbolo della razionalità con la lente d’ingrandimento appiccicata all’occhio, un debole per le soluzioni di cocaina al sette per cento e un berretto da cacciatore di daini sulla nobile zucca. Sherlock Holmes, in questa Londra caotica e capitalistica che stinge facile nell’horror metafisico, una città in cui tutti hanno qualcosa da nascondere, sembra essere il solo con i piedi per terra, il solo che non si lasci impressionare dal clima oppri-mente e che, dietro la magia degli eventi, oltre le luci livide del palcoscenico, individui il burattinaio, di carne e ossa, che li suscita. Questo regista occulto è il famigerato Dottor Moriarty, vale a dire un incubo incarnato, ma anche qui la Londra vittoriana gioca d’anticipo sulla modernità, ché di burattinai la fantasia politica e giornalistica, nei decenni che verranno, ne individuerà a vagoni. Vuoi perché ci si deve pur spiegare in qualche modo il caos, vuoi perché anche la ragione ha il suo demonio, le sue superstizioni, le sue case infestate e i suoi fantasmi. Arthur Conan Doyle, del resto, che fa di questo suo detective impasticcato il campione del pensiero raziocinante, è, da parte sua, uno spiritista convinto che crede, per buon peso, anche nell’esistenza delle fate. Si dice, inoltre, che dietro l’affare del falso «anello mancante» (il cosiddetto «scheletro di Piltdown», creato da un buontempone a prova del passaggio evolutivo tra la scimmia e l’uomo) ci sia proprio lui, Conan Doyle, deciso a fondare la teoria dell’evoluzione su uno scherzo o su un trucco alla Houdini. (Diego Gabutti, ItaliaOggi 28/8/2014)

Nel 1897, Arthur Conan Doyle compiva i dieci anni trascorsi in ostaggio di Sherlock Holmes. Il travolgente successo del detective domiciliato al 221B di Baker Street, fin dall’inizio, cioè da A Study in Scarlet , aveva confinato il suo creatore al ruolo di scriba. Per i lettori, era come se il buon Arthur, ridotto al ruolo di dottor Watson in carne, ossa e calamaio, si limitasse a metter nero su bianco la cronaca di quanto accaduto veramente al loro eroe. Insomma, il «figlio» aveva ucciso il «padre». Ma il «padre» ogni tanto si ribellava, e continuerà a farlo fi­no a quando avrà la forza di impugnare la penna. La sua vera passio­ne, più che le inchieste poliziesche, era infatti il romanzo storico: ne scrisse a palate e in quel 1897, per esempio, fece un bel salto a ritroso, scomodando un personaggino mica da ridere: Napoleone Bonaparte. Uncle Bernac. A Memory of Empire (proposto ora da Donzelli, a oltre settant’anni di distanza dall’edizione Salani - con il titolo Lo zio Bernac alla corte di Napoleone ) è una vicenda fogliettonesca in cui compaiono alcuni capisaldi del genere: l’amore contrastato, il criminale (apparentemente) imprendibile, il buono che si rivela cattivo e viceversa, la lettera rivelatrice... E a un certo punto compare anche lui, il piccolo duce còrso, del quale sono tratteggiati il carattere collerico e focoso, le manie di grandezza, le abitudini alimentari, i tic, la brusca galanteria. Siamo nel 1805, e il 36enne Napoleone ha già messo un bel po’ di fieno in cascina, campagna d’Italia, campagna d’Africa, autoincoronazione (…) quando incontra il protagonista del libro, il giovane Louis de Laval, che ha da poco rimesso piede sul suolo francese dopo 13 anni di esilio in Inghilterra. Nel mirino di Sua Maestà c’è Londra, e per questo ha spostato il quartier generale a Boulogne, in Normandia. Da parte sua il baldo giovane, ansioso di recuperare il tempo perduto, vuol mettersi al suo servizio, nel nome dei propri nobili natali e della fidanzata Eugénie de Choiseul, rimasta a struggersi fra le brume del Kent. Ma prima di essere presentato alla militaresca corte del colossale accampamento, Louis ha dovuto assaggiare la rabbia e l’orgoglio giacobini, incarnati da un suo coetaneo tanto bello quanto idealista e da un energumeno che a momenti gli spaccava con due dita l’osso del collo. Dopo avercelo infilato per mezzo di una lettera che richiamava il nipote in patria, a tirarlo fuori dai guai è stato lo zio Bernac del titolo, un tipo invero poco raccomandabile, visto che, grazie alla fuga dei de Laval, ha messo il cappello sui loro possedimenti di Grosbois. (…) Ai fan di Conan Doyle farà inoltre piacere ritrovare nel libro, come cicerone dell’acerbo Louis, una vecchia conoscenza: il brigadiere ussaro Etienne Gérard che, dopo l’esordio del 1884, fino al 1910 farà periodicamente capolino nella vastissima produzione dello scrittore. Gaudente, intrepido, fascinoso ed aitante, Gérard è quanto di più diverso si possa immaginare rispetto al glaciale e razionale Sherlock Holmes. Del resto, è francese, e ogni francese, per un suddito di un’altra Maestà, quella Britannica, è sempre un guascone. (Daniele Abbiati, il Gornale 10/5/2011)

L’Allahkbarries Cricket Club, fondato a Londra ai primi del ’900. La squadra, voluta da James Matthew Barrie, il creatore di Peter Pan, annoverava Arthur Conan Doyle, autore dei romanazi su Sherlock Holmes, Sir Pelham Grenville Wodehouse, inventore della serie di Jeeves, Alan Alexander Milne, papà di Winnie the Pooh e Jerome K. Jerome, il romanziere di Tre uomini in barca. (Enrico Franceschini, la Repubblica 19/4/2010)

Gennaio 1901. A Milano, nuova rivista: La Lettura. È stampata dal Corriere della Sera e diretta da Giuseppe Giacosa. Esce una volta al mese. Tra le firme: Gabriele D’Annunzio, Conan Doyle, Luigi Pirandello, Antonio Fogazzaro, Edmondo De Amicis. (Cinquantamila.it)

Nel 1908 Arthur Conan Doyle per il Daily Mail commentò la vittoria di Dorando Pietri alle Olimpiadi di Londra: «Questa sconfitta darà al piccolo italiano maggior celebrità di mille vittorie». (Gianni Romeo, La Stampa 21/7/2008)

Doyle per Dorando Pietri lanciò una sottoscrizione per comprargli una panetteria. (Massimo Gramellini e Carlo Fruttero, La Stampa 18/7/2010)

Arthur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, chiese alla regina di Alexandra di donare comunque una coppa d’oro a Dorando Pietri. (scheda biografica Parrini)

Quando lesse i resoconti di Everhard Im Thurn e Harry Perkins, i primi botanici a mettere piede sulla cima del misterioso monte Roraima, dove scoprirono piante e animali unici al mondo, Sir Arthur Conan Doyle si inventò il romanzo Il mondo perduto (1912). Immaginò che su quell’inespugnabile altopiano vivessero dinosauri antidiluviani e due tribù di ominidi pre Homo sapiens. (MACCHINA DEL TEMPO APRILE 2006)

Il primo a dedicare un romanzo ai dinosauri era stato sir Arthur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, nel 1912. (Mirella Delfini, Macchina del Tempo, settembre 2002)

Si schierò perfino Arthur Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes ed ex portiere dilettante: «C’è stato un tempo per tutto, ma ora ce n’è per una cosa soltanto, ed è la guerra (…) Se un calciatore ha forza nelle gambe, che si arruoli e marci sul campo di battaglia». (Andrea Luchetta, La Gazzetta dello sport 28/7/2014)

Rennell Rodd propose ad alcuni scrittori inglesi di visitare il fronte dell’Isonzo e del Trentino. Vennero così in Italia, nel 1916, Hillaire Belloc, romanziere e saggista, Arthur Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes, Gilbert Chesterton, autore di romanzi polizieschi in cui il detective è un prete cattolico (Father Brown) e persino H. G. Wells (Corriere della Sera 12/02/2006, pag.31 Sergio Romano)

Il grande mago Houdini nel 1926, poco prima di morire, in polemica con Arthur Conan Doyle riguardo all’esistenza di una vita dopo la morte affidò alla moglie un codice segreto, promettendole che se gli fosse stato possibile lo avrebbe utilizzato per comunicare dall’aldilà. Numerosi i medium che nel corso degli anni hanno cercato di mettersi in contatto col mago per decifrare il codice. (Senza fonte)

L’ipotesi dell’omicidio è stata resuscitata da una biografia del 2006, «La Vita Segreta di Houdini», degli storici William Kalush e Larry Slogan, secondo cui il mago sarebbe stato vittima di un gruppo di spiritisti («Gli Spiritualisti») cui apparteneva anche Sir Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes. (Corriere della Sera 24/03/2007, pag.29 Alessandra Farkas)

[Quando Agatha Christie sparì per undici giorni, nel 1926] Le ricerche durano 11 giorni, coinvolgono per la prima volta aeroplani e persino due famosi giallisti britannici, Sir Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes, e Dorothy L. Sayers, autrice dei romanzi su Lord Peter Wimsey. Arthur Conan Doyle, occultista credulone, intende servirsi di poteri paranormali per risolvere il mistero, e porta un guanto della Christie a un famoso medium nella speranza di venirne a capo. Ovviamente senza successo. (Stefania de Vito; Sergio Della Sala, Mente&Cervello 7/2015)

Arthur Conand Doyle, che nei giorni delle scomparsa di Agatha Christie diede un guanto appartenuto alla scrittrice ad un medium, Horace Leaf: «Non gli ho dato alcun indizio per spiegargli cosa desiderassi e a chi appartenesse il guanto, non lo ha visto fino a quando non gliel’ho messo sul tavolo al momento del consulto e non c’era niente che fosse legato a me o al caso Christie... Eppure pronunciò immediatamente il nome di Agatha. "Ci sono dei problemi legati a questo oggetto. Da una parte, la persona a cui appartiene è sconvolta, dall’altra è risoluta. Non è morta come molti credono. È viva e penso che sentirete parlare di lei venerdì prossimo"» (Conan Doyle). (Agatha Christie e il mistero della sua scomparsa, Jared Cade, Giulio Perrone editore, Roma maggio 2010)

Persino Arthur Conan Doyle prese parte a una seduta spiritica con una medium inglese nella speranza di entrare in contatto con lo spirito di un sapiente persiano e di conoscere da lui la data della distruzione. (La macchina del tempo del dicembre 2001)

Sir Arthur Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes, pubblica nel 1929 L’abisso di Maracot, storia di una spedizione oceanografica al largo delle Canarie con una sorta di batiscafo. Come nel film Sfera, gli esploratori, imprigionati sul fondale, vengono salvati dai sopravvissuti alla distruzione di Atlantide. Costoro sono in grado di modificare le molecole di tutti gli elementi, hanno sviluppato capacità telepatiche e comunicano con gli umani proiettando il loro pensiero su schermi. I personaggi del romanzo vedono la fine di Atlantide su uno schermo come in un film. Cinema e letteratura intrecciano i loro linguaggi: il primo film ispirato ad Atlantide era uscito otto anni prima. (Eva Cantarella, La Macchina del Tempo, n. 12 dicembre 2001 pagg. 24-30)

Luglio 1930. Sir Arthur Conan Doyle, autore di Sherlock Holmes, è morto a Crowborough, nel Sussex. Aveva 71 anni.

Il sito ancestry.com ha calcolato che morendo Conan Doyle lasciò ai suoi eredi un patrimonio pari a 3 milioni di euro odierni. (Daniele Abbiati, Il Giornale 8/1/2014)

Uno dei luoghi più visitati a Londra è la “casa di Sherlock Holmes” in Baker Street, completamente arredata sulla base dei racconti di Conan Doyle. (Giulio Guidorizzi, Il Foglio 1/10/2011)

Il nome che spicca di più, per grandezza, è quello di Sherlock Holmes, che copre Regents Park, Marylebone Road e ovviamente Baker Street, dove abitava, all’inesistente numero 221B, il più famoso detective del mondo. Dopo il successo dei libri di Arthur Conan Doyle, il 221B è stato forzatamente inserito tra i numeri 237 e 241, e nella casa si può visitare una riproduzione dello studio vittoriano di Sherlock, con annesso laboratorio chimico. (Vittorio Sabadin, La Stampa, 5/9/2014)

Per visitare al numero 221 di Baker Street la fittizia casa-museo dell’investigatore bisogna fare una fila lunghissima (e filologicamente l’interno non corrisponde granché alla descrizione di Conan Doyle: «un grande soggiorno arioso, fornito di mobili di bell’aspetto e molto illuminato da due finestroni»). (Fabio Canessa, Il Giornale 15/3/2015)

Tra i film di cui andava fiero Christopher Lee, Vita privata di Sherlock Holmes di Billy Wilder. (Fabio Ferzetti, Il Messaggero 12/6/2015)

Somerset Maugham, nel periodo d’oro di Hollywood, riuscì a battere Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, quanto a numero di film tratti dalle sue opere: 98 contro 93. (MARIO BAUDINO, La Stampa 2/1/2011)

Il 19 maggio 2004 da Christie’s è stata venduto l’archivio dello scrittore Arthur Conan Doyle: più di tremila lettere, diari, appunti, disegni e manoscritti per un valore di un milione e mezzo di sterline (due milioni di euro). Tutto il materiale era custodito in uno studio legale di Londra e molti studiosi avrebbero preferito che andasse al British Museum. Il più accanito sostenitore di questa tesi era Richard Lanceleyn Green, biografo dello scrittore, ritrovato strangolato poche settimane fa. ("la Repubblica" 20/5/2004, pagina 29.)

Londra. C’è una moltitudine a scommettere che sarà un blockbuster il nuovo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, regista britannico purosangue, classe 1968, e identità divisa tra se stesso e il suo avatar, quello del marito divorziato della celeberrima cantante Madonna. L’ultima faticaccia della Warner ha fatto irruzione l’altroieri in anteprima mondiale globalizzata al centro di Londra. Proprio nel bel mezzo del più ruggente degli shopping natalizi, in una delle sale istoriate della London Free Mason’s Hall, la Gran Loggia Massonica di Covent Garden, che ha visto nei mesi scorsi gruppi di interpreti agitarsi nell’aria recitando alcune scene del film, il mito ha assunto la forma umana di un paio di attori in carne ed ossa, più il regista Ritchie. Attorno telecamere e cervelli provenienti da ogniddove. Nessuno escluso, nemmeno Singapore. Anche perché le ossa (e la carne) erano quelle di Robert Downey Junior e di Jude Law, rispettivamente Sherlock Holmes e James Watson, i centenari prodotti della mente di Arthur Conan Doyle. Anch’essi con tratti cinematografico sacrali ma entrambi leggermente irriverenti e reduci da una serie di appuntamenti per fortuna ben conclusisi con la giustizia americana il primo, divo dégage par excellence il secondo, qui incastrati in un chiasmo energetico degno del migliore Otello. In quello che è poi, in fondo, il classico letterario di tutti ragazzini d’Oltremanica. Una storia senza tempo quella del vittoriano eroe positivista, che sugli schermi lotterà contro il Male in una battaglia senza esclusione di colpi, e dove il principio negativo ricorrerà anche alle «arti oscure e potenti»; non a caso ci troviamo sul Tamigi, da tempo immemorabile patria della magia e di Harry Potter. Il regista Ritchie ammette un certo interesse per la Cabala, in condivisione con la sua ex moglie, e il percorso non è privo di rilievo, nemmeno per il film. Iconografia britannica docet dunque, per una vicenda, racconta il regista, «essenzialmente inglese ma con un allure di respiro ampio e mondiale» e dove Sherlock ha un tratto «viscerale ma allo stesso modo dinamico, fresco»; e che lo stesso Downey Jr. riconosce come propria. «Mi sento molto vicino a Sherlock », sintetizza l’attore, spiegando di avere «un carattere molto simile a quello di Holmes». Un Holmes intramontabile sì, che non vuole assolutamente ripetere se stesso ma offrirsi in una rilettura dinamica e «attualizzata», racconta ancora il regista Ritchie (fan di Sherlock sin da bambino), ma che «rispetta l’integrità di Conan Doyle, con fedeltà ai dialoghi e allo stile». Un tuffo nell’infanzia anche per Jude Law, per lui la storia «viene davvero dal passato». E se ogni cittadino di Sua Maestà Elisabetta II è potenzialmente un Dottor Watson in pectore, per prepararsi alla parte Jude «si è ricordato di quando era piccolo», confessa candidamente alla folla (tra cui molte signore estasiate). Anche considerando che uno dei primi passi tv del bel Law, l’attore inglese più amato dai tabloid, è stata proprio una serie sull’investigatore, nella quale si agitava in veste di giovane e ancora sconosciuta comparsa. Probabilmente farà esplodere i botteghini, ma di sicuro sarà ricordato come lo Sherlock Holmes dei belli. Bello l’investigatore, bello Watson e per terminare bello anche il principio oscuro del male, Lord Blackwood, interpretato da un Mark Strong che non ha assolutamente nulla del bianco volto di pietra di Darth Vader. Viene da chiedersi se la favola di Natale, per il cui script originale gli sceneggiatori hanno anche fatto ricorso ad un aiuto extra, quello dei Baker Street Irregulars, gruppo di ricerca specializzato in Sherlock Holmes, non abbia voluto dare una gran bella soddisfazione anche all’occhio, considerati i volti presenti. Ma Holmes ha in ogni caso una sua particolare eloquenza e, puntualizza di nuovo Ritchie, «anche Watson è attraente, poiché si voleva creare un’idea di eguaglianza nei due personaggi». Anche considerato, riprende il regista, che «Sherlock è un personaggio dalle molteplici peculiarità. Esperto di arti marziali, affamato di sapere ma anche terribilmente depresso». Insomma, era necessario un Watson solare per controbilanciare l’archetipica austerità dell’investigatore, «dotato di una smodata curiosità e di una carica energetica quasi sovraumana», conclude Robert Downey Jr, che con questo Holmes racconta con soddisfazione di «trovarsi in un punto del suo percorso di attore che è proprio lì, dove sperava di arrivare». Prodigio di una storia che fa proseliti da più di 100 anni. Da Natale, per Holmes, the game is afoot. (Claudia Stamerra, il Riformista 15/12/2009)

«Signor Holmes, domani a mezzogiorno il mondo che conosce svanirà», l’informa il cattivo di turno, quel Lord Blackwood massone e stregone pronto a fare una carneficina con una potente arma chimica. «Allora non c’è tempo da perdere», battuteggia il mitico detective. Che però ha subito un completo restyling estetico-etico: dimenticare il cappelluccio con la doppia visiera, il cappotto in tono, la ricurva pipa Calabash (quella Tarantino l’ha messa in bocca al luciferino nazista di Bastardi senza gloria), l’estenuata malinconia lenita dagli esercizi al violino o dalla cocaina in soluzione sette per cento, le frasi di rito come «Elementare, Watson», la misoginia ben temperata, eccetera. Il nuovo Holmes si gode le femmine, fuma il sigaro, gira vestito come un’icona pop della swingin’ London: occhialini tondi blu, cappello sulle 23 da bohémien, pastrano di velluto a coste… Il problema, col nuovo Sherlock Holmes, è che a prima vista, sui manifesti, non capisci chi è Holmes: se Robert Downey Jr. o Jude Law. Vabbè, è Downey, ma poteva essere benissimo il contrario. Perché anche Law, nel rifondare la figura del fedele biografo-assistente Watson, altera totalmente l’immagine classica: non più la spalla grassottela e sedentaria, pure lenta nella sublime arte della deduzione, bensì un ex combattente reduce dalle campagne in India e in Afghanistan, uno tosto, che spara e picchia. Esce il 25 dicembre, giorno di Natale, il film di Guy Ritchie. La Warner Bros punta molto sul revival dell’investigatore di Baker Street: in gergo hollywoodiano - lo spiega bene Luca Barbabé su Ciak - si chiama ”reboot”, che sta per rilancio e aggiornamento di un personaggio già ampiamente sfruttato al cinema. successo per James Bond, Batman, Superman, la saga di Star Trek, e via rivitalizzando. Di solito si destruttura il personaggio, lo si umanizza sul versante psicologico (non sempre) o irrobustisce sul piano muscolare per piazzarlo in avventure sempre più mirabolanti o apocalittiche, situazioni adrenaliniche, contesti che strizzano l’occhio al presente, ma dentro una ricostruzione iperrealistica del passato. Nel caso di Sherlock Holmes, l’East End londinese del tardo Ottocento, rugginoso e putrido, ancora dickensiano, tutt’altro che un posto da damerini. Nel film Watson si lamenta del disordine, della scarsa igiene, della depravazione di Holmes, anche del suo straziante violino suonato alle tre di notte. E intanto, uscito davvero dal tunnel della droga, Robert Downey Jr. sfodera una ”tartaruga” pazzesca mentre sfida a baritsu, una specie di ju-jitsu, i suoi avversari per tenersi in allenamento. Davvero, più che i compassati Holmes & Watson, sembrano i vitalistici Butch Cassidy & Sundance Kid del vecchio western di George Roy Hill o gli sbirri complementari della serie Arma letale. Due dandy che pestano forte. Piacerà l’operazione? Probabilmente sì. Sherlock Holmes viene rovesciato come un calzino, sfruttando la fama universale del detective vittoriano escogitato da Conan-Doyle ma cucendogli addosso una torva trama da fumetto, tra razionale e irrazionale, positivismo e magia. I nostalgici, appellandosi alla cine- Bibbia di David Stuart Davies Starring Sherlock Holmes, grideranno allo scandalo, rimpiangendo il tono rilassato dei 14 film con Basil Rathbone e Nigel Bruce, o la decorosa ritualità dei 41 episodi della serie tv con Jeremy Brett e David Burke realizzati tra il 1984 e il 1995. E tuttavia non si contano le variazioni, a partire dal sofisticato Sherlock Holmes: soluzione sette per cento di Herbert Ross, 1976, nel quale il detective, cocainomane incallito e affetto da complesso di persecuzione, viene trascinato dall’amico Watson a Vienna, per essere affidato alle cure psicoanalitiche del giovane Sigmund Freud. I lettori meno giovani del Riformista ricorderanno invece la breve, pure dignitosa, serie italiana andata in onda sul primo canale Rai, era il 1968, con Nando Gazzolo e Gianni Bonagura nei panni della celebre coppia. Mentre i cinefili di più esigenti faranno spallucce a Guy Ritchie rimpiangendo forse il più bel film sul tema, quel crepuscolare e divagante La vita privata di Sherlock Holmes diretto nel 1970 da Billy Wilder e scorciato di circa un’ora per ordine della United Artists. «Sono rattristato per tutto quello che abbiamo dovuto togliere », si lamentò il regista di A qualcuno piace caldo. Si può capirlo. Eliminati il prologo a Costantinopoli, numerosi flashback, il giovane Sherlock studente a Oxford invaghito di una ragazza salvo poi scoprire che è una prostituta, le allusioni al latente legame omosessuale tra i due. Robert Stephens e Colin Blakely erano perfetti. Dicono fosse bellissima la versione lunga. Non la vedremo mai. (Michele Anselmi, il Riformista 15/12/2009)

Stanno tornando Robert Downey Jr. e Jude Law, sempre splendidi nell’elegante guardaroba di Sherlock Holmes e del dottor Watson. Le foto di scena e il trailer mostrano un trionfo di grisaglia e di tweed, più qualche esotico copricapo alla Indiana Jones su gilet orientaleggianti in tinta con i profili della giacca. A dirigerli è ancora Guy Ritchie, a cui la separazione da Madonna fa (cinematograficamente) soltanto bene. In “Sherlock Holmes - Il gioco delle ombre” cambiano gli sceneggiatori, e cambia il cattivo. Esce il Lord Blackwood di Mark Strong (pseudonimo di Marco Giuseppe Salussolia), entra l’arcinemico Moriarty. Quello che per precisa volontà di Conan Doyle, stufo del suo personaggio, buttò giù il detective dalla cascata. Sembrava finita, ma come in una soap venne fuori che non era morto ma solo scomparso. Lo scrittore riprese in mano la penna, rassegnandosi alla ricchezza e alla celebrità. Sennò avrebbe trascorso il resto della vita organizzando sedute spiritiche e facendosi ingannare da ragazzine che giocavano ai fotomontaggi con fate di cartone: non tutti i mali vengono per nuocere. Il casting è stato laborioso. Su Internet si rincorrevano le ipotesi. Sarà Brad Pitt. Sarà Daniel Day-Lewis. Sarà Sean Penn. Sarà Christoph Waltz. No, spiega il regista su Empire: Quentin Tarantino lo aveva usato così bene in “Bastardi senza gloria” che non volevo rovinargli la carriera (qualcuno lo spieghi all’agente di Filippo Timi, che a furia di personaggi sgradevoli e mal scritti sembra abbia perso la sua presenza scenica). La scelta è caduta su Jared Harris, figlio di Richard. (Mariarosa Mancuso, Il Foglio 17/9/2011)

Indice delle cose notevoli che rendono questo secondo Sherlock Holmes diretto da Guy Ritchie più bello e divertente del primo. Un paio di apparizioni dove il detective si confonde con l’arredamento, mascherandosi da poltrona damascata o da libreria con volumi rilegati in pelle. Tale e quale all’artista cinese Liu Bolin, che si dipinge il corpo per mimetizzarsi con il paesaggio, camuffamento spiegato dai critici con la pratica formula: “Denuncia la perdita dei valori della nostra società” (spieghi per favore il performer che si tratta di un gioco di prestigio senza conseguenze). Lo fa indossando tute disegnate, quando si gira ha una striscia bianca sul didietro, inutile lavorare di pennello sul retro di una scenografia. Una bella zingara con il volto di Noomi Rapace, la Lisbeth Salander nella trilogia Millennium (al posto suo, nel remake americano diretto da David Fincher avremo Rooney Mara con piercing e cresta di capelli, mentre Daniel Craig sarà Mikael Blomkvist). La zingara eredita in “Gioco di ombre” la parte di Watson nei romanzi di Arthur Conan Doyle: a lei, che ha perso le tracce dell’amato fratello diventato terrorista, bisogna spiegare gli intrighi, i complotti, le catene di ragionamenti. Promosso a co-protagonista, sveglio e atletico come il detective titolare, Watson non serve più allo scopo. Unico suo punto debole, la donna che vuole sposare, e che in effetti incautamente sposa all’inizio del film. Partono per il viaggio di nozze, alla prima occasione Sherlock Holmes si presenta, apre la porta dello scompartimento, afferra la sposa e la butta giù dal treno. Il detective intende salvare il mondo da una trama complicatissima (nel suo studio ha cartine e schemi che somigliano alle righe tracciate dal matematico pazzo in “A Beautiful Mind”) e intanto non perde occasione per corteggiare Watson, lanciandogli occhiate d’intesa e mettendolo in guardia dalla noia matrimoniale. Il magnifico palazzetto sulla cascata (siamo nelle alpi svizzere, dopo Londra e l’Opéra di Parigi dove danno il “Don Giovanni”) che sta in luogo della semplice cascata di Reichenbach cara a Conan Doyle e invisa ai lettori. Il G8 dell’epoca, con la Bulgaria tra i partecipanti. La partita a scacchi in cui Sherlock per un attimo sembra scordare Watson e fare un pensierino su Moriarty, professore di matematica e genio del crimine. (Mariarosa Mancuso, Il Foglio 17/12/2011)

Tornano a sfidarsi su Sherlock Holmes. Benedict Cumberbatch era il detective nella miniserie della Bbc di Mark Gatiss e Steven Moffat: annoiato, aristocratico, capriccioso al punto da sparare alla tappezzeria (come Oscar Wilde che in punto di morte trovò la forza per l’ultimatum: “O io o lei”), ben introdotto alle nuove tecnologie: per sputtanare l’ispettore di Scotland Yard manda sms con il blackberry, smentendo puntualmente ogni affermazione ufficiale. Aveva per Watson Martin Freeman, a cui non perdoneremo mai il ruolo da Hobbit nell’ultimo film di Peter Jackson (quasi mai: la Bbc girerà la terza stagione nei primi mesi del 2013). Jonny Lee Miller è Sherlock Holmes in “Elementary” serie americana in onda sulla Cbs dal settembre scorso. Altro trasferimento nel Terzo millennio il personaggio di Conan Doyle, che come altri arredi dell’epoca vittoriana non ha granché bisogno di essere rivisto per sembrare contemporaneo: c’erano i messaggi di posta consegnati più volte al giorno, c’era la droga, c’erano i serial killer, appunto c’erano i romanzi in molte puntate, e gli scrittori che un bel giorno uccidevano il personaggio che li aveva resi famosi, tranne farlo risuscitare a furor di lettore. “La noia mi uccide più della febbre”, spiega il detective al suo Watson, femmina e con gli occhi a mandorla (l’attrice è Lucy Liu, nata a New York da genitori immigrati taiwanesi). Gliel’ha messa a fianco il genitore, dopo un periodo di disintossicazione: per questo il detective sta a Manhattan invece che a Baker Street. La velocità di ragionamento è come sempre fulminea, affidata perlopiù a un registratore: a Manhattan nessuno ha pazienza di starti a sentire, facendo le domande dello sciocco che servono soltanto a ragguagliare il lettore. (Mariarosa Mancuso, Il Foglio 28/12/2012)

In “L’ultima avventura”, Arthur Conan Doyle fece precipitare Sherlock Holmes da una cascata, avvinghiato al mortale nemico Moriarty. Non ne poteva più del personaggio che lo aveva reso celebre. Dopo le proteste dei lettori, tre anni dopo il detective fu resuscitato. La serie della Bbc, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, sfrutta con colpo di genio l’episodio: nel frattempo Watson si è fidanzato e sta per sposarsi (segue scena di gelosia: “Sono stato via solo tre anni”). 8 Mariarosa Mancuso, Il Foglio 01/07/2015)

Benedict Timothy Carlton Cumberbatch, viene da una famiglia di diplomatici e di ufficiali ed è stato ammirato di qua e al di là dell’Atlantico come forse il più bravo e il più credibile di tutti gli Sherlock Holmes, nella serie della BBC. (Lorenzo Soria, La Stampa 17/11/2014)

Per Sherlock Holmes risorgere è quasi un´abitudine. Già il suo creatore, Arthur Conan Doyle, era stato costretto a riportarlo in vita a furor di popolo dopo averlo fatto precipitare nelle gole della cascata di Reichenbach, sulle Alpi svizzere. Poi, una seconda vita di immensa popolarità come personaggio cinematografico (dagli oltre sessanta film solo nell´epoca del muto al recentissimo Il gioco delle ombre). Ancora, protagonista di una lunga serie di sequel "apocrifi", tra cui Soluzione sette per cento, di Nicholas Meyer, dove il detective per liberarsi dal vizio della cocaina va a Vienna dal dottor Freud, o il racconto di Stephen King (Il caso del dottore) con un Watson più brillante di Holmes. Oggi il detective più famoso del mondo rivive in La casa della seta (Mondadori, pagg. 294, euro 18), primo seguito autorizzato dagli eredi Conan Doyle. A realizzarlo è stato chiamato Anthony Horowitz, inglese cinquantacinquenne autore di romanzi per ragazzi che hanno venduto tredici milioni di copie (soprattutto nella serie della giovane spia Alex Rider) e sceneggiatore di serie tv come L´ispettore Barnaby o Foyle´s War. Horowitz ha scelto di scrivere un romanzo "classico", il più fedele possibile all´originale, mettendo in scena tutti i personaggi anche secondari, l´ispettore Lestrade, il fratello di Sherlock, Mycroft, e perfino il professor Moriarty. Misurarsi con il mostro sacro, dice, non è stato affatto arduo. «Onestamente, l´ho trovato piuttosto facile. Ci ho messo tre mesi, quando per scrivere un romanzo in genere ho bisogno di un anno. È stato soprattutto un grande piacere, mi hanno aiutato molto i racconti, che conoscevo bene». Quando ha incontrato Sherlock Holmes per la prima volta? «A diciassette anni. Mio padre mi regalò un libro, che ho ancora, con i quattro romanzi e i cinquantasei racconti di Conan Doyle dove compare Holmes. È stato amore a prima vista. Mi ha conquistato la capacità di far vivere il mistero nei luoghi della vita quotidiana. La scoperta che quartieri "noiosi" di Londra, anche quello dove abitavo, potevano diventare preda del male». Per un romanziere abituato a creare, è stato frustrante misurarsi con personaggi e atmosfere obbligati? «Per nulla, è stato un grande piacere, un divertimento immenso. Io, che li ho sempre amati, ho avuto in dono due dei più bei personaggi della letteratura, Sherlock Holmes e il dottor Watson. È come se a un bambino avessero regalato un´enorme scatola di dolci». Lei come spiega che un personaggio così tipico di un´epoca e di un luogo particolari abbia avuto una fortuna così universale e duratura? «Innanzitutto con lui nasce il detective moderno. A differenza di quelli che lo avevano preceduto, come l´Auguste Dupin di Edgar Allan Poe, Holmes è il primo a comparire sulle riviste popolari. Ogni mese la gente si precipitava a comprare le sue avventure, così come oggi attende le nuove puntate delle serie televisive. Ma secondo me, il punto chiave è la relazione tra il detective e il dottor Watson. Accanto all´eroe, che è un genio inarrivabile, Conan Doyle ha messo una persona educata, colta e intelligente, ma a un livello assolutamente normale. Una trovata irresistibile, che permette al lettore un´identificazione totale nelle storie che legge. Anche Agatha Christie ha usato un meccanismo simile con Poirot, ma Conan Doyle è uno scrittore molto più bravo». Nel suo romanzo c´è un tono esplicito di critica sociale dell´età vittoriana. È il tema delle condizioni miserabili dell´infanzia, dello sfruttamento dei bambini in modi orribili. «Si tratta di un elemento che ho introdotto io, che non si trova in Conan Doyle. È curioso, perché lo scrittore, pur essendo un conservatore, aveva una certa sensibilità sociale ed era interessato alla politica. Ma nelle sue opere, anche nei romanzi storici o romantici senza Holmes, non c´è proprio nulla di "sociale", niente di paragonabile a Dickens. (…)». (Leopoldo Fabiani, la Repubblica 12/2/2012)

Il caso di Sherlock Holmes influenzò addirittura la modifica della legge sul diritto d’autore. Il canone tradizionale delle storie del detective, attribuito al suo creatore, Arthur Conan Doyle, conta quattro romanzi e 56 racconti. Sessanta opere in tutto. Leslie Klinger, considerato il più importante studioso vivente del personaggio, si era rivolto al tribunale di Chicago, sostenendo di non aver violato il diritto d’autore per l’uso di opere precedenti il 1923, decretate ormai di dominio pubblico. Gli eredi dello scrittore sostenevano, invece, che dovevano essere ripagati per alcuni «aspetti complementari», relativi a scritti posteriori al ‘23. Quali? Bastava che l’inquilino del 221 B di Baker Street suonasse il violino in un racconto, perché questo particolare fosse da considerarsi un «gesto caratteristico» tutelato da copyright. (Piero Melati, il Venerdì 7/2/2014)

Luca Crovi, redattore della Bonelli, erede della scuola di Oreste Del Buono, ha tirato fuori dalle memorie del padre di Sherlok Holmes un episodio. Il rettore James Barrie, l’uomo che scrisse Peter Pan, era solito narrare che l’investigatore inglese, un giorno, aveva affrontato il suo creatore armato di coltello. Holmes aveva urlato a Conan Doyle: «Sciocco! Ti ho mantenuto nel lusso. Grazie al mio aiuto hai potuto scorazzare a piacimento, dove mai un autore era stato prima. D’ora in avanti viaggerai in tram». Poi Holmes era svanito in un anello di fumo. (Piero Melati, il Venerdì 7/2/2014)

Chi volesse scrivere una storia utilizzando Sherlock Holmes e gli altri personaggi dei romanzi di sir Arthur Conan Doyle – a cominciare dal suo amico e biografo, il dottor John Watson – potrebbe farlo liberamente: il copyright è scaduto, almeno per i protagonisti dei libri scritti fino al 1923. Dunque non ci sono vincoli legali – quantomeno negli Stati Uniti – che impediscano di avere come figura principale l’investigatore privato forse più famoso del mondo. L’esito della contesa legale tra gli eredi dell’autore britannico scomparso nel 1930, riuniti nella fondazione Conan Doyle Estate, e lo scrittore americano Leslie Klinger, è stato tutto a favore di quest’ultimo. Lo scorso luglio è diventata infatti definitiva la decisione della corte distrettuale di Chicago che ha stabilito la fine del diritto d’autore sul personaggio: «Sherlock Holmes è di pubblico dominio», è scritto nella sentenza. A rivolgersi al tribunale era stato Klinger, 68 anni, che, oltre a essere uno scrittore appassionato di personaggi dell’era vittoriana come Sherlock Holmes e Dracula, è anche un avvocato: voleva ottenere una dichiarazione affinché gli eredi di Conan Doyle (i quali avevano chiesto al suo editore il pagamento di 5 mila dollari come diritti di autore), non avessero nulla da pretendere. Ieri, infine, la vittoria successiva: la corte d’appello ha anche condannato la Conan Doyle Estate a pagare le spese legali sostenute dallo scrittore per difendere il suo diritto a narrare di Holmes nei 4 libri e 46 racconti da lui scritti. La condanna al pagamento delle spese ammonta a circa 70 mila dollari per una battaglia legale durata oltre due anni. Altre dieci storie scritte da Conan Doyle tra il 1923 e il 1927 restano comunque protette dal copyright secondo le leggi degli Stati Uniti fino al dicembre 2022. (Fabrizio Massaro, Corriere della Sera 8/8/2014)

Barzelletta raccontata da Roberto Giachetti (Pd) durante il programma radiofonico “Un giorno da pecora”, condotto da Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro. Sherlock Holmes e il dottor Watson vanno in campeggio. Dopo una buona cena e una bottiglia di vino si mettono in tenda e vanno a dormire. Alcune ore dopo Holmes si sveglia e dà una gomitata al suo fedele amico: “Watson, guarda il cielo e dimmi cosa vedi!”. Watson replica: “Vedo milioni di stelle!” E Holmes: “E quindi? Cosa ti induce a pensare?” Watson pensa qualche minuto e poi dice: “Dal punto di vista astronomico, mi induce a pensare che ci sono milioni di galassie e potenzialmente miliardi di pianeti; da quello astrologico, osservo che Saturno è nella costellazione del Leone; da quello temporale deduco che sono circa le tre e un quarto; da quello teologico posso vedere che Dio è potenza e noi siamo solo degli esseri piccoli e insignificanti; infine, dal punto di vista meteorologico presumo che domani sarà una bella giornata. Invece, tu cosa ne deduci?” “Watson, ma vaffanculo, qualcuno si è fregato la tenda!”. (il Fatto Quotidiano, 12/1/2011)

«Colpa di Sherlock Holmes. Mi sono pentito infinitamente di avere insistito troppo agli occhi del lettore sul richiamo a Sherlock Holmes con il cognome di Guglielmo da Baskerville. Non ne avevo bisogno, mi ci stavo divertendo ma provocava troppe analogie, dunque gli ho tagliato i peli delle orecchie. Ecco, se questa è cosmesi, va bene» (Umberto Eco spiega la revisione del Nome della rosa e di Guglielmo da Baskerville) (Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 31/01/2012)

Il creatore di Dottor House, David Shore, ha ammesso il suo debito con Sherlock Holmes: «A Holmes importava molto poco della gente. La sola cosa che poteva scuoterlo dalla sua apatia era il rompicapo». (Renato Franco, Corriere della Sera 02/03/2012)

“Clandestine Classics”, la nuova collana on line ideata da Claire Siemaszkiewicz, responsabile della casa editrice digitale “Total-E-Bound Publishing”, con versioni dei classici aggiornate con scene hard. C’è persino Sherlock Holmes che allunga la manina sulla patta del Dottor Watson. (Marina Valensise, il Foglio 20/7/2012)

«Adoro Sherlock Holmes. La mia vita è così trasandata, mentre lui è Ordinato e preciso» (Dorothy Parker). (The Paris Review vol.I, Fandango Libri, Roma 2009)

la Szymborska era stata innamorata di Bohun e di Sherlock Holmes. (Notizie tratte da: Anna Bikont, Joanna Szczęsna # Cianfrusaglie del passato. La vita di Wisława Szymborska # Adelphi Milano 2015 # pp. 455, 28 euro.)

Dirac trascorreva la maggior parte del tempo libero da solo, leggendo una storia di Sherlock Holmes, ascoltando un concerto di musica classica alla radio a tutto volume o sedendo impassibile a guardare la televisione. (Notizie tratte da: Graham Farmelo # L’uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti # Cortina Editore Milano 2013 # 43 euro.)

«In tutti i miei film ci sono frasi prese da Conan Doyle, che non tutti hanno colto. Uno dei pochi critici che se ne accorgevano era Alberto Farassino, quando ci incontravamo ai festival, parlavamo per ore degli intrighi alla Conan Doyle». (Dario Argento) (Scheda biografica Parrini)

TAYLOR Andrew. I 50 libri che hanno cambiato il mondo. Indice. Introduzione. Traduzione di Roberto Merlini. Garzanti, Milano 2015. pp. 282 pagine, euro 12 PDF IN FRAMMENTI)
35. Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle (1888)