Daniel Riley, GQ 8/2015, 29 luglio 2015
CACCIA AL TESORO BIANCO
Ogni venerdì sera, un gruppo di una decina di amici della periferia di Archer, Florida, non lontano da Gainesville, si riuniva intorno al fuoco per chiacchierare sulla riva del Watermelon Pond. La prima volta che Rodney sentì raccontare la storia che gli avrebbe cambiato la vita, nel luglio 2004, intuì dalla reazione degli altri, dal modo con cui lesinavano le risate, che la conoscevano già. Pare, anzi, che Julian la raccontasse da anni, specie quando al gruppo si univa qualche novizio. E Julian, com’è giusto, cominciava sempre dalle tartarughe.
Nel 1986, Julian Howell si era trasferito con la moglie a Culebra, un’isola al largo di Porto Rico, dove per una decina d’anni lavorò appunto a un programma di salvaguardia delle tartarughe marine. Un giorno, mentre come al solito perlustrava la spiaggia, scorse una specie di pacco avvolto nella plastica, più o meno delle dimensioni di una grossa valigia, depositato a riva dalla marea. Si avvicinò con cautela.
Aveva sentito raccontare cose del genere, anche lì a Culebra: pacchi di droga gettati in mare da qualche barca o paracadutati fuori bersaglio e portati a riva dalle onde.
Decise di prendere tempo e trascinò il malloppo lontano dalla riva; quindi scavò una buca presso un gruppo di rocce, lo nascose e ricopri il tutto con foglie e detriti.
Julian ci pensò su per giorni e giorni, finché la curiosità ebbe il sopravvento: riesumò il pacco e lo caricò sul suo furgoncino. A casa lo nascose nel capanno degli attrezzi e lo lasciò lì per un altro paio di settimane. Finché una mattina, quando la moglie non c’era, incise l’imballaggio di plastica con un coltello. Ne uscì una polvere bianco-rosa: cocaina.
Si caricò il pacco in spalla e con la bilancia del bagno fece una rapida stima: 32 chili, divisi in sedici pacchetti da due chili l’uno. Valore al dettaglio, all’epoca: tra i 16 e i 20 mila dollari al chilo.
«Cristo, sono ricco», pensò. Ma Julian non era un trafficante e la cocaina non lo entusiasmava affatto. Ne prelevò una piccola quantità, che mise in un vasetto da tenere in cucina, e seppellì il resto in una buca, vicino alla cisterna di casa sua.
Tutto questo avveniva più di quindici anni fa. In seguito, Julian e sua moglie si separarono e lui tornò negli Stati Uniti, dove finì ad abitare in una roulotte su un vasto appezzamento nel Nord della Florida, nei pressi del quale abitavano alcune persone che si trovavano in riva al Watermelon Pond, ogni venerdì sera, a raccontarsela. Ecco come andò.
Qualche anno dopo aver ascoltato questa storia per la prima volta, Rodney Hyden si trasferì su un terreno di 16 ettari nella zona in cui abitava Julian, nonostante Archer distasse trenta minuti d’auto in linea retta da Gainesville, più sei o sette chilometri di sterrato malconcio.
Rodney era cresciuto proprio a Gainesville, lavorando d’estate nei cantieri con il padre e iscrivendosi al programma di edilizia organizzato dalla University of Florida nella sua città. Nel 2000 tentò il salto e fondò un’impresa edile. Erano anni favorevoli, i primi del millennio, e lui ci guadagnò dai 10 ai 20 milioni di dollari: alberghi, ampliamenti di aeroporti, i nuovi salottini allo stadio di football dell’università locale... Ed ecco che la sua B&H Builders arrivò ad avere ottanta dipendenti. Rodney sposò una concittadina, costruì una casa per la famiglia a Gainesville e ne acquistò un’altra più a sud, a Crystal River. Ma nel 2008, quando il mercato immobiliare entrò in crisi, il Nord della Florida fu risucchiato da una specie di vortice.
Rodney era già stato costretto a ridurre a sei il numero dei dipendenti. La banca rivendicava la sua casa di Crystal River e persino il suo ufficio. Le cose andavano davvero male, insomma: fu allora che decise di trasferirsi ad Archer, dove quei ritrovi del venerdì intorno al fuoco divennero un piacevole rituale. Ogni volta Julian, dopo aver bevuto vino a sufficienza, si metteva a raccontare la storia della cocaina.
Rodney fu colto di sorpresa quando, una sera, un tizio che conosceva appena lo avvicinò: «Ehi, amico, io posso dare una mano per quella coca, giù a Porto Rico». Il tizio, tale Danny Jimenez, abitava con un certo Andy Culpepper, che svolgeva piccoli servizi nell’ufficio di Rodney. A un certo punto il ragazzo – «tossicodipendente funzionale dichiarato», secondo Rodney – era venuto a sapere della cocaina e, siccome gli piaceva sconvolgersi e fantasticare ad alta voce, anche Danny ora ne era al corrente. Di più: sosteneva di conoscere un tipo capace di riportare la coca in Florida e un altro in grado di smerciarla.
Nel 2012, da quelle parti, il settore edilizio non si era ancora ripreso dalla crisi e Danny continuava a insistere: c’era un trafficante di Jacksonville che con un suo pilota di fiducia trasportava regolarmente cocaina dalla Colombia. Era disposto a collaborare in cambio di una parte della merce. Poi, con la droga restante, loro sarebbero andati in battuta a Tampa, da uno spacciatore soprannominato El Neg.
A marzo, Rodney cede. Tre mesi dopo, raggiunge un ristorante messicano nella zona sud di Jacksonville e – al tavolo con Danny, Carlos (il trafficante portoricano) e Grant (il trasportatore) – ordina un Margarita senza sale: Carlos, che ha organizzato l’incontro per valutare le sue informazioni, lo tempesta di domande.
Rodney racconta di nuovo tutta la storia, mettendo l’accento sulla presunta qualità del prodotto. «Julian l’ha provata», spiega. «Dice che dopo due ore poteva tranquillamente mangiare e andare a dormire. Niente effetti collaterali, niente cattivo sapore in gola o altro». Per Julian il denaro non aveva mai avuto tanta importanza – a lui piaceva più che altro raccontare la storia – ma Rodney voleva comunque essere certo che ricevesse la sua parte di compenso finché era ancora in tempo per goderselo.
«Quanto vuole?», chiese Carlos. «250 mila dollari», rispose Rodney. «Tutto qui?».
Il fatto è che Rodney non aveva idea di quanto fosse il valore reale del tesoro che aveva fra le mani, e che in realtà poteva avvicinarsi al milione di dollari.
A fine giugno del 2012, Rodney prenota un volo last minute per Porto Rico portandosi dietro Andy Culpepper che, nonostante la sua «cazzo di lingua lunga», poteva rivelarsi utile in fase di ricognizione. Prima della partenza, Julian fornisce le coordinate a Rodney, che le inserisce su Google e ne ricava la mappa del tesoro. All’arrivo, però, Andy sta male e non se la sente di lasciare l’hotel. Rodney non capisce se sia astinenza da droghe o intossicazione alimentare. Decide di raggiungere la riserva delle tartarughe da solo, per poi seguire le indicazioni di Julian fino alla roulotte in cui abitava un tempo: il posto era chiaramente disabitato da anni; l’acqua, la sabbia e il corallo calcificati avevano formato sul terreno uno strato duro come il cemento. A non più di 200 metri, inoltre, era stato costruito un edificio del governo. Mettersi a scavare, in quelle condizioni, risulta impossibile anche durante il secondo sopralluogo, con un Andy ristabilito e munito di vanga.
Sulla via di casa, atterrati a San Juan, Porto Rico, i doganieri prelevano tutti i bagagli dall’aereo e li piazzano sotto il naso di alcuni pointer tedeschi. Nelle valigie non c’è niente, ma è lì che Rodney prende una decisione: «A Porto Rico non ci torno più, e non telefonerò mai più né a Danny né a Carlos». Ma solo qualche settimana dopo, Carlos va a trovarlo e gli propone: «Mi occupo io del recupero, e voi mi date otto pacchetti invece che quattro».
Alla fine Rodney si lascia convincere e consegna a Carlos il foglio con la mappa ricavata da Google, con l’aggiunta di qualche nota a margine per facilitargli il compito. «Ho la mappa del tesoro!», esclama Carlos. «Come i Pirati dei Caraibi».
Da Porto Rico, Carlos si tiene in contatto con Rodney via sms: qualche domanda sul luogo preciso, richieste di conferma su piccoli dettagli. Nel pomeriggio Rodney comincia a innervosirsi. Scrive a Carlos: «L’hai trovato, il nido?», e in quell’istante, all’improvviso, gli arriva una e-mail con foto allegata. I pacchetti sono imballati nella plastica e nella gomma, proprio come preannunciato da Julian. Carlos sembra entusiasta, e Rodney non riesce quasi a credere che, dopo tutto quel parlare, i tentativi falliti e i dubbi, il sogno si stia realizzando.
Qualche giorno più tardi, Carlos telefona a Rodney e gli dice che lui e Grant hanno trasportato la cocaina in Florida senza intoppi. Carlos pretende di passargli la sua parte quello stesso pomeriggio. «Aspetta», dice Rodney, «dammi un po’ di tempo». Sebbene lui sia già nella zona di Jacksonville, infatti, deve prima avvertire Danny. Carlos, però, è irremovibile: «Fatti trovare al parcheggio del negozio di articoli sportivi Gander Mountain sulla superstrada tra mezz’ora, altrimenti l’accordo salta».
Rodney aveva cominciato a nutrire rispetto e ammirazione per Carlos, e a considerarlo qualcosa in più di un semplice trafficante: «È così bello fare affari con te», arrivò a dirgli, «che mi dispiace di non averne altri in ballo».
Rodney taglia trasversalmente il Nord della Florida e lungo il tragitto telefona e scrive ripetutamente a Danny, il quale risponde che ha forato nei paraggi di Tampa e che non potrà essere presente.
Raggiunto il parcheggio indicato, Rodney scrive via sms a Carlos, che è nel negozio, dove sta comprando una canna da pesca per il figlio. «Vieni dentro», gli scrive Carlos. «Ti do le chiavi dell’auto». Rodney entra e trova Carlos, che gli dà le chiavi: «Ti raggiungo tra un minuto», gli dice.
Le pulsazioni di Rodney aumentano di colpo. Sente il sangue esplodere nei polsi e nel collo. Esce nella calura d’agosto, densa, tridimensionale. Il suo furgone è lì, la Cavalier dorata di Carlos poco distante. Per il resto, sono poche le macchine in quell’enorme prateria di asfalto.
Rodney sale sul furgone e si avvicina piano alla Cavalier, scende, apre il bagagliaio dell’auto e preleva lo zaino. Il peso sembra corrispondere ai diciotto chili attesi, al netto della parte di Carlos. Rodney butta lo zaino sul sedile posteriore del furgone, arretra di un passo e resta lì per un istante a fissare il malloppo, talmente assorto da non accorgersi che qualcuno si sta avvicinando. E che sul suo corpo i puntini rossi dei laser danzano come zanzare.
Quando gli urlano di buttarsi a terra, Rodney pensa: «Speriamo che non abbiano il grilletto facile». Vede le insegne dello sceriffo della St. Johns County, e uomini con la casacca della Homeland Security. «Da dove sbucano fuori?». Poi però, in un attimo, come scorrendo a tutta velocità i fogli di un blocchetto mentale, rivede a ritroso l’intero film. E sul primo foglio – ora in piedi accanto al furgone di Rodney – c’è la faccia di Danny Jimenez.
Nessuno lo sapeva, ma nell’inverno 2012 Jimenez era stato fermato dalla polizia nella contea di Alachua. Aveva a bordo dell’auto elevate dosi di un farmaco oppioide (esattamente, 130 pillole di ossicodone). Il vicesceriffo della contea, un certo Joe Rawley, gli disse che eventuali informazioni utili sarebbero state tenute in considerazione al momento del giudizio sul suo caso. Danny spifferò qualcosa su qualche piccolo spacciatore e poi accennò alla storia che gli aveva raccontato Andy Culpepper. Nel marzo 2012 Rawley aveva piazzato un microfono e una piccola videocamera addosso a Danny, per capire in diretta quali piani avesse Rodney Hyden a proposito della cocaina giù a Culebra. Le registrazioni avevano suscitato l’interesse dell’unità investigativa della Homeland Security impegnata nel caso. Rawley aveva cominciato a collaborare con l’agente Ryan McEnany, e insieme si erano messi in contatto con “Carlos” e “Grant”, agenti in incognito destinati a fingersi trafficanti nell’operazione.
McEnany decideva i luoghi degli incontri («Volevamo vedere fino a che punto era disposto a muoversi, ad agire in luoghi per lui scomodi, in orari pomeridiani, in giorni infrasettimanali») e i termini economici dell’accordo. Era stato sempre lui ad analizzare la mappa fornita da Rodney e a dirigere le operazioni a Porto Rico. Per inciso: Carlos non andò mai a Culebra; la cocaina era stata recuperata da agenti locali.
Quando McEnany fa salire Rodney sull’auto della polizia, gli dice: «Ti tenevamo d’occhio. Hai qualcosa da dire?». Rodney chiede di parlare con l’avvocato.
Dopo sei mesi di sorveglianza e di lavoro coordinato da parte di una mezza dozzina di agenti federali in incognito, uno scavo a Porto Rico e un conto spese che comprende diversi Margarita, si può anche dire che la legge ha trionfato, ma si tratta d’una vittoria di Pirro.
Rodney è stato incriminato per tentato possesso di cocaina in dosi superiori ai 5 chili: un reato che prevede come minimo dieci anni di carcere. La coca con cui è stato fermato, però, non è quella recuperata a Culebra, bensì un miscuglio di vera cocaina e altre sostanze preparato da McEnany e Rawley. In conclusione, il contenuto effettivo di droga è di soli 2,2 chili e non è neppure smerciabile, viste le sostanze a cui è mischiata (sabbia, acqua marina e vari minerali polverosi e bianchi).
Rodney, insomma, è stato accusato per un’intenzione di spaccio illegale, ma in via del tutto teorica, sulla base di quello che lui presumeva di possedere e che non aveva affatto: un processo alle intenzioni. Questo aspetto è fondamentale per l’avvocato di Rodney, Mark Rosenblum, di Jacksonville.
Nel luglio 2013, Rawley e McEnany hanno convocato Julian Howell, Andy Culpepper e Danny Jimenez come testimoni, e a poche ore dalla fine del dibattimento la giuria ha emesso un verdetto di colpevolezza. Mentre il giudice valutava il parere della giuria, l’avvocato di Rodney ha presentato una richiesta di clemenza sulla base di una raccomandazione dell’ufficio del procuratore generale Eric Holder, secondo cui i colpevoli di reati di droga che non hanno commesso violenze possono godere di una riduzione della pena.
In considerazione di tutto questo il giudice, alla fine, ritiene di aver inflitto a Rodney una pena giusta: due mesi di carcere seguiti da 5 anni di servizi sociali. Quanto tempo e quanto denaro sono stati spesi per un pesce così piccolo: questo è il significato implicito della sentenza.