Fabrizio Salvio, SportWeek 25/7/2015, 25 luglio 2015
TUTA UN’ALTRA VITA
L’abito non fa il monaco? Spiegatelo a Massimiliano Allegri, allenatore della Juventus, che due anni fa, intervistato da GQ, sentenziava: «Bisognerebbe multare i miei colleghi che si presentano a bordocampo con la tuta. In partita rappresenti la tua società, non puoi metterti in tuta!». Fedele alla linea (d’eleganza), in panchina il mister bianconero è sempre impeccabile: anche sotto il solleone, camicia bianca sotto giacca scura e cravatta perfettamente annodata. Certo, il fisico aiuta: non a caso Allegri è da sempre soprannominato Acciuga per il suo fisico asciutto che gli conferisce un portamento naturalmente signorile, valorizzato appunto dall’abbigliamento scelto.
Adesso provate a sostenere la teoria dell’abito che non fa il monaco con Maurizio Sarri, al contrario orgogliosamente fasciato dalla tuta che lo vestiva in panchina a Empoli e alla quale non è disposto a rinunciare neanche a Napoli. In nessun caso potrebbe essere immaginato diverso da come si presenta, abbigliato in un modo che rivela la sua voglia di comodità, ma anche la sua indole schietta e la sua ritrosia verso tutto ciò che è forma e non sostanza. Tutto si può dire di Sarri tranne che sia attento al look, basti guardare alla montatura dei suoi occhiali che fa tanto Anni ’70. È venuto su dal niente, Sarri, e come tale è abituato a maneggiare la sostanza e non a dare forma all’apparenza. Neanche fuori dal campo: nemmeno lui riesce a ricordare l’ultima volta che ha messo la cravatta, tolto il giorno del matrimonio.
Uno così era Carletto Mazzone, simbolo verace di un calcio che non esiste più, più povero ma più genuino. Di lui resta famosa la corsa col pugno chiuso fin sotto alla curva atalantina, petto in fuori e testa alta nella sua tuta coi colori del Brescia.
Ma poi non è sempre vero che umili origini (calcistiche e no) spieghino certe scelte nel vestiario professionale: Marcello Lippi, più attento dei colleghi citati alla cura dell’immagine, in tuta ha vinto un Mondiale (Germania 2006).
Insomma, direte: ecco il classico tema balneare, l’argomento futile da sottoporre al lettore in mancanza di calcio giocato. Sbagliato.
A parte che – come scriveva Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della Follia – non c’è nulla di più gradevole che trattare argomenti leggeri in modo da dare l’impressione di non avere affatto scherzato, l’abbigliamento di una persona suggerisce e spiega molto di essa; della sua personalità, delle sue idee, del suo carattere.
Fabio Capello, mascella squadrata, sguardo duro e grande considerazione di sé, è sempre stilisticamente impeccabile in panchina, e quel suo slacciarsi e abbottonarsi di continuo la giacca è una spia del suo piglio da generale. Roberto Mancini, avvolto dalla sciarpa di cachemire coi colori della sua squadra del momento, è così attento al look che in passato la Facis, importante ditta di abbigliamento, lo volle come suo testimonial.
Invece, Francesco Guidolin, abituato alla fatica e a spremere sudore da se stesso (è un appassionato ciclista) e dagli altri, non potrebbe indossare altro che la tuta del club. Griffata, nel caso, ma comunque tuta. «Per un allenatore la domenica è una giornata di lavoro», disse una volta. «So che l’abito a livello di immagine funziona di più, ma io ho fatto questa scelta e non la rinnego. Tuta e scarpe da running». Oggi all’Udinese è arrivato Stefano Colantuono, che, all’Atalanta, dopo anni di tuta, era passato a giacca e cravatta «perché la società aveva messo a disposizione una bella divisa. Portarla è un segno di rispetto verso il club che rappresento». Nils Liedholm era soprannominato Barone per la sua eleganza e i suoi modi gentili fuori. In panchina però si presentava in tuta. E chissà che anche questo non gli abbia giocato contro quando Berlusconi decise di non confermarlo al Milan.
In ogni caso, forse è vero: l’abito non fa il monaco.