Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 26 Domenica calendario

UN’EUROPA PIU’ SVIZZERA

Nel 1989 Sciascia pubblicò Una storia semplice ; nello stesso anno l’Austria chiese l’adesione alla Comunità europea, ennesimo capitolo d’una storia viceversa complicata. Perché l’Europa non è un ordinamento; è «un disordine di procedure e di strutture», come ha osservato di recente Andrea Manzella. Con competenze che si sovrappongono, con un profluvio di organismi, con trattati che s’aggiungono senza fare mai tabula rasa del trattato precedente, con la «procedura di comitologia» (regola l’esecuzione degli atti normativi) e con tutte le diavolerie che rendono le istituzioni europee incomprensibili per i comuni mortali.
Se l’Europa è questa, potrà mai trovare un fidanzato? Nessuno s’innamorerebbe di una damigella che indossi le mezze maniche del burocrate su un corpo ossuto da leguleio. E sta di fatto che quando i popoli europei vengono chiamati a pronunziare un «sì» davanti all’altare, rispondono con un sonoro «no». Accadde nel 2005, allorché un doppio referendum in Francia e in Olanda bocciò la Costituzione europea firmata l’anno prima a Roma; è accaduto il 5 luglio in Grecia, con un altro referendum. L’impopolarità delle istituzioni europee dipende da ragioni politiche, economiche, sociali, culturali; ma dipende al tempo stesso dalla complicazione del diritto europeo, che restituisce un’immagine astrusa della stessa Europa.
Dipende, insomma, dal virus burocratico che l’Europa si è allevata in seno. E il virus ha generato regolamenti sulla lunghezza delle banane e dei cetrioli (rispettivamente nel 1994 e nel 1988), direttive sulle dimensioni del sedile dei trattori (il caso si è verificato nel 1978), norme sul diametro delle vongole (il regolamento è del 2006, e ha ormai messo in crisi i pescatori dell’Adriatico). Con la sua mania legiferatrice, l’Europa ha affastellato regole sui recipienti semplici a pressione, i decibel dei tosaerba, gli aromi alimentari, la qualità delle acque destinate alla molluschicoltura, le percentuali di calcio o di magnesio nei concimi. Di più: non si contano i provvedimenti varati nell’arco di un decennio (dal gennaio 1989 all’ottobre 1999) per stabilire infine che la camicia da notte può essere indossata anche di giorno: le precedenti definizioni normative (indumento di maglia, leggero, che scende fino a metà coscia, con scollatura ampia, maniche corte, e via precisando) lasciavano difatti in ombra questo punto decisivo, tant’è che ne era pure nato un contenzioso in sede doganale.

La giuridicizzazione delle camicie da notte è figlia della tecnocrazia, e la tecnocrazia corrisponde al programma originario dell’Europa. Perché il deficit democratico dell’Unione non rappresenta un incidente di percorso, bensì il percorso stesso. Come scrivono in un libro a tre mani ( Profili costituzionali dell’Unione Europea , appena pubblicato dal Mulino) Roberto Bin, Paolo Caretti e Giovanni Pitruzzella: «Per salvare la democrazia bisogna mettere chi deve prendere decisioni al riparo dalla democrazia stessa; se è il libero mercato ciò che va salvaguardato, appare inevitabile la sottrazione del suo governo alle regole delle istituzioni democratiche». Si può nutrire qualche dubbio su quest’ultima asserzione, che riecheggia il governo dei custodi di cui parlò Platone, però almeno un postulato è indubbio: non c’è integrazione senza semplificazione. E non c’è né integrazione, né semplificazione senza Costituzione.
Qui affiora un punto decisivo, giacché l’Europa resta orfana d’una Costituzione. È in corso un «processo costituzionale», obiettano gli addetti ai lavori. Ma quanto può durare questo processo? Il tempo, a lungo andare, sfianca le energie, smorza gli entusiasmi. E del resto fu proprio il tentativo costituzionale intrapreso (e respinto) nel 2005 a gettarci addosso una doccia d’acqua gelata. Era una Costituzione in senso proprio? Sicuramente no, stando ai canoni del costituzionalismo classico: mancavano un’Assemblea Costituente, un passaggio di regime (come avvenne in Italia dopo la caduta del fascismo), un nuovo patto sociale. Ma a negare dignità costituzionale a quel documento s’aggiungeva un elemento formale, che di nuovo ha a che fare con il virus della complicazione. Perché le Costituzioni viaggiano sui princìpi, e i princìpi — per definizione — sono pochi, chiari, generali. Non a caso la dichiarazione adottata dal Parlamento europeo nel dicembre del 2000, che innescò quel tentativo, auspicava «la semplificazione dei trattati in un documento unico, chiaro e conciso: una Costituzione».

Quell’auspicio fu tradito fin dal titolo con cui venne battezzato il nuovo documento: «Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa». Titolo chilometrico, come i vecchi film di Lina Wertmüller. Ma il contenuto era altrettanto chilometrico: un preambolo generale, poi 59 articoli nella parte I, ancora un preambolo più 54 articoli nella parte II, 342 articoli nella parte III, e a mo’ di dessert altri 10 articoli nella parte IV. Totale: 2 preamboli e 465 articoli, ciascuno dei quali spesso più lungo d’un lenzuolo. Lo stile, insomma, evocava un regolamento di condominio, e fra condomini che diffidano l’uno dell’altro, sicché per cautelarsi mettono nero su bianco regole pignole e un po’ pedanti, senza lasciare troppi spazi alla fantasia interpretativa. Ma ci riescono? Nel Seicento, il filosofo inglese Francis Bacon metteva in guardia i Parlamenti dai pericoli della prolissità: «Quando le norme vogliono inseguire tutti i casi particolari, sperando così di guadagnarne in certezza, producono invece infinite questioni verbali che confondono e rendono più difficile l’interpretazione». Ed è un bel problema, soprattutto se si riferisce alla Carta costituzionale, dove albergano le regole del gioco. Tanto che due secoli più tardi Napoleone affermò che una buona Costituzione dev’essere courte et obscure .
L’eurocostituzione non poteva certo definirsi corta; ma almeno oscura sì. Un solo esempio, a proposito del linguaggio con cui venne redatta: l’articolo III-86 istituiva un Comitato economico e finanziario, uno fra i tanti comitati che trovano in Europa la loro patria elettiva. Con quali funzioni? Quelle indicate (fra l’altro) dalla lettera c : «fatto salvo l’art. III-247, contribuire alla preparazione dei lavori del Consiglio dei ministri di cui all’art. III-48, all’art. III-71, paragrafi 2, 3, 4 e 6, agli artt. III-72, III-74, III-75 e III-76, all’art. III-77, paragrafo 6, all’art. III-78, paragrafo 2, all’art. III-79, paragrafi 5 e 6, agli artt. III-83 e III-90, all’art. III-92, paragrafi 2 e 3, all’art. III-95, all’art. III-96, paragrafi 2 e 3, e agli artt. III-224 e III-228, e svolgere gli altri compiti consultivi e preparatori ad esso affidati dal Consiglio dei ministri».
L’insuccesso di quell’esperienza deriva anche da questi tratti patologici, che alla fine ne alimentarono il rifiuto. Perché ogni Costituzione ha bisogno d’un sentimento che la sorregga; si celebra davanti al sacerdote, non nello studio di un notaio. Al tempo stesso, non c’è spazio per alcuna garanzia dei diritti quando manchi la certezza del diritto; e la tutela multilevel dei diritti, quella folla di carte e di corti dei diritti di cui l’Europa è la madrina, crea più problemi di quanti ne risolva. Ma il primo diritto dei cittadini europei è quello di decidere sul proprio destino, e questo di nuovo chiama in causa un deficit di democrazia insieme a un surplus di complicazione. In breve: il cattivo governo dell’Unione Europea dipende dalla sua forma di governo. Quale?
Un sistema basato non sulla divisione bensì sulla confusione dei poteri. Che ha il suo perno nella democrazia rappresentativa, come recita l’articolo 8 del Trattato di Lisbona; e in effetti negli ultimi decenni il Parlamento europeo ha guadagnato spazi, giacché in origine esercitava un ruolo puramente consultivo. Ma intanto viene circondato da quasi 300 comitati; non ha il potere di proporre le leggi su cui dovrà deliberare; lo sovrastano tre diversi Consigli: il Consiglio d’Europa (peraltro esterno all’Ue); il Consiglio europeo (la distinzione sta nell’aggettivo); il Consiglio (senza aggettivi). E anche quando il principio parlamentare saprà imporsi senza ostacoli, c’è il rischio che il successo arrivi tardi, come capita agli artisti celebrati dopo il loro funerale. Perché la democrazia della delega è in crisi dappertutto, negli Stati Uniti non meno che in Europa. E perché c’è bisogno casomai di rafforzare la democrazia diretta, seguendo l’esempio della Svizzera: è questo che reclama lo Zeitgeist , lo spirito dei tempi. I greci si sono divisi nel loro referendum sull’Europa, ma nessuno ha contestato la via referendaria per dirimere una questione così cruciale.

Domanda: c’è spazio per la democrazia dei cittadini nell’arsenale europeo? Il suo strumento più tipico e incisivo — il referendum — suona tuttora come una bestemmia, e infatti ne è vietato l’uso. In compenso il Trattato di Lisbona ha introdotto l’iniziativa legislativa popolare, fissando il quorum di un milione di firme. Ma in realtà si tratta di una pre-iniziativa, cioè di un invito rivolto alla Commissione a presentare una proposta: in pratica, una supplica al sovrano. E la procedura, tanto per cambiare, è a sua volta uno slalom, che si conclude con la valutazione di ammissibilità della proposta da parte della stessa Commissione. Ciò nonostante, il nuovo istituto sta raccogliendo un buon successo, con quasi 30 iniziative proposte durante il primo anno di applicazione, che spaziano dai servizi idrici all’estensione del diritto di voto. Significa che l’Europa ha ancora un popolo che la sostiene, che bussa al suo portone del diritto. Ma quel portone ha bisogno di un falegname, col suo scalpello, per grattare via il superfluo.