varie 28/7/2015, 28 luglio 2015
ARTICOLI SULLA MORTE DI SEBASTIANO VASSALLI DAI GIORNALI DEL 28 LUGLIO 2015
PAOLO DI STEFANO, CORRIERE DELLA SERA –
Non è un gioco di parole se si dice che Sebastiano Vassalli è stato un bastian contrario. Non amato dal mondo letterario ma adorato da tanti lettori e lettrici. Polemico, ombroso, a volte scontroso, narratore naturale, amava le storie, amava i suoi personaggi, a partire dal «babbo matto» Dino Campana, a cui dedicò un romanzo-verità, forse il suo più bello, La notte della cometa , del 1984, con il quale usciva dall’esperienza neoavanguardista in cui era cresciuto, attratto quasi in fasce dal Gruppo 63 e dalle sue utopie stilistiche e ideologiche.
Nato a Genova nel 1941 da un padre che ha visto raramente, «nullafacente, dedito alla borsa nera, fascista, sempre dalla parte sbagliata», e da una madre tuttofare che definiva ironicamente «un altro campione di umanità». Cresce solitario come un fungo («padre e madre di me stesso», «orfano di genitori vivi») in collegio, poi con due zie zitelle a Novara, e nel Novarese rimane per tutta la vita, sedentario, appartato, a disagio nella modernità e si direbbe nel mondo. Studente di Lettere alla Statale nella Milano effervescente degli anni Sessanta, dove da pittore in erba un po’ bohemien frequenta non i corsi universitari ma le gallerie d’arte e la zona di Brera, facendo lavori qua e là, quel che capita, bibliotecario, imbianchino, fattorino, supplente di scuola… Matura l’idea di darsi alla scrittura dopo un esame quasi impossibile con Mario Fubini, l’incontro a Torino con Edoardo Sanguineti farà il resto. Ottiene la laurea con Musatti, presentando una tesi su arte e psicoanalisi che fa inorridire la commissione (tra cui Gillo Dorfles). Si sposa giovane, nel 1968: un matrimonio non felice, con l’adozione di un figlio con il quale è in perenne conflitto.
Insegnante di scuola media e poi nelle superiori per molti anni, non si allontana mai da Novara, ma il suo mondo diventa sempre più la campagna di Biandrate e la nebbia che copre il Monte Rosa, vero luogo poetico che ispira le prime pagine del suo romanzo più fortunato, La chimera , del 1991, arrivato a oltre un milione di copie tra edizioni tascabili e scolastiche. Dopo gli esordi poetici e il debito pagato alla neoavanguardia, con la «bisboccia verbale» di libri ostici come Narcisso , Tempo di màssacro e L’arrivo della lozione , che escono nella collana einaudiana della Ricerca letteraria sotto l’egida di Sanguineti, Davico Bonino e Manganelli, Vassalli trova la sua strada nel romanzo storico. Ma è un romanzo storico sempre sui generis, al punto che si può tranquillamente dire che, pur dentro un genere tradizionale, Vassalli rimane uno scrittore sperimentale, che attraversa, negli anni Ottanta mescolando invenzione e ricerca documentaria.
L’oro del mondo (1987) è un libro amaro, che rasenta il sarcasmo, sul carattere degli italiani, è uno dei libri-chiave per capire, dall’interno, le ambiguità del dopoguerra italiano. Una narrazione a più livelli che intreccia l’autobiografia, incentrata sulla grottesca figura paterna, l’indagine sui cercatori d’oro della valle del Ticino (approdo fantastico del giovanissimo Sebastiano) e il resoconto della vicenda editoriale relativa al libro stesso, anch’essa giocata su un tono ironico-derisorio: il tema delle ipocrisie della società letteraria italiana, con le sue ritualità e il suo falso perbenismo, è un leitmotiv che Vassalli declina in vari modi ( Arkadia , del 1983, è un pamphlet al vetriolo sulle consorterie poetiche).
Con La chimera arriva il successo, favorito dal premio Strega. È vero che alla figura di Antonia, giovane strega di Zardino nata nel 1590 e destinata al rogo, tutto viene ricondotto, ma si tratta di un romanzo corale e digressivo, più che di un romanzo storico, un romanzo di storie grandi e minime: quelle del vescovo in disarmo Bascapè, di don Michele, di don Teresio, del bandito Caccetta, del grande inquisitore Manini, degli orribili carcerieri Taddeo e Bernardo, dei risaroli della Pianura, dei camminanti, dei lanzi e del gigante Attila, dell’«esposta» adulta Rosalina che compare all’inizio del libro, eccetera. Esplode con questo romanzo il Vassalli narratore capace di dominare come pochi la sua materia, rivolgendosi al lettore, commentando da voce esterna e interna, intessendo fili che arrivano al presente, senza preoccuparsi di apparire didascalico. Un «nulla fatto di storie» è il panorama che vede davanti a sé al mattino affacciandosi alla finestra di casa: «Io sono un nulla che ha sognato molto — ha detto in una bella intervista a Giovanni Tesio —, un nulla pieno di storie…».
Grazie alla Chimera , all’inizio degli anni Novanta Sebastiano ha potuto comperare il rudere di una parrocchia nelle risaie attorno a Biandrate, di fianco alla chiesetta di san Bartolomeo; ne ha ricavato una grande casa su due piani, del piccolo campo di grano turco antistante ha fatto un giardino ben curato e ricco di noci, ciliegi selvatici, querce varie, betulle, aceri, noccioli, noci, frassini, gelsi, castagni, biancospini, aceri, giuggiole, carpini, roveri, un pioppo, un platano... Lì, nella sua casa-museo piena di ricordi, di quadri e sculture, di carte e fotografie, di oggetti amati, le copertine dei libri Einaudi appese alle pareti, lavorava. Non smetteva mai una storia senza averne un’altra in pancia. Il mondo per lui era un immenso calderone di vite, vicine e remote, a cui lo scrittore doveva attingere senza stancarsi mai: l’unico suo impegno civile era disseppellire storie per andare alla ricerca della «malapianta» italiana, dei miti sbagliati. Nel ’92 il Pci di Novara, ridotto a poca cosa, quando decise di allearsi con repubblicani e Rete, gli chiese di candidarsi: «Ci pensai e risposi no grazie. Un mestiere ce l’avevo già e ce l’ho ancora adesso: raccontare storie. Sono più attratto dal raccontarle che dal viverle».
La scrittura di storie gli teneva occupate la testa e la scrivania. Aveva più tavoli da lavoro e qualche vecchia macchina per scrivere, perché da artigiano della scrittura rifiutava il computer. Non per snobismo. Batteva a macchina, correggeva a mano, poi riscriveva, sentiva la fatica fisica come parte del lavoro di scrittura. Non ho conosciuto nessuno scrittore che abbia lavorato con tanta forza, senza respiro. Non smetteva mai. I titoli sono tantissimi, così come i periodi da cui via via ha tratto le sue narrazioni e i suoi personaggi, come fossero sintomi su cui il suo sismografo narrativo andava a posarsi: il Settecento di un ciabattino veneto, aspirante salvatore dell’umanità, in Marco e Mattio ; l’Ottocento siciliano di mafiosi e trafficanti ne Il Cigno ; il lungo Novecento di provincia in Cuore di pietra (protagonista una casa ma anche gli «scienziati della rivoluzione»); la Grande Guerra de Le due Chiese rivissuta a Rocca di Sasso, un paesino di fantasia sotto il Monte Rosa; e così via, in avanti verso la fantascienza e indietro affondando nel tempo del grande progetto imperial-letterario di Augusto e Virgilio ( Un infinito numero ). Fino alla nuova sfida di Terre selvagge (uscito con Rizzoli nel 2014 dopo il doloroso divorzio da Einaudi) che ripercorre la resistibile discesa dei Cimbri in Italia.
Ha avuto appena il tempo di concludere un nuovo romanzo con cui è tornato all’amato, manzoniano Seicento. Lo leggeremo in autunno. Vassalli avverte le crepe della storia, si innamora delle piccole vicende che incrociano la Grande Storia, è un pessimista che ha una passione per il fallimento dei progetti ideali, per le utopie che sfiorano la follia o la megalomania. Quasi volesse correggere un peccato originario proprio della sua generazione. Che non sopportava.
Aveva poche relazioni con il mondo. E un debito, che non nascose mai, con il suo editore, Giulio Einaudi, con il quale aveva rotto i rapporti riallacciandoli in extremis, con molta gratitudine. Anche la resistenza dell’editoria di cultura gli è sembrata un’illusione al tempo del mercato e del valore assoluto delle classifiche: era un’ossessione degli ultimi tempi (basta leggere i suoi «Improvvisi», la rubrica che teneva da anni sul «Corriere della Sera»).
Uno dei suoi più cari amici era Roberto Cerati, figura storica della grande Einaudi, che andava a trovarlo ogni tanto, nelle trattorie vicino a Biandrate, per mangiare insieme la «paniscia» e bere Ruché. Sebastiano è stato un burbero, ombroso, fedele ai suoi pochissimi amici. Provocatore, che a volte non evita le posizioni scomode e non conformiste: nel 1993 provocò un polverone parlando della «compromissione letteraria» di Sciascia con i suoi protagonisti mafiosi, figure dalla «oscura e contraddittoria grandezza».
Si sentiva estraneo, ormai, al mondo dei libri, vivendo con amarezza il paradosso di non riuscire ad abbandonare la macchina per scrivere per costruire grandi narrazioni. Parlava mal volentieri della vecchiaia, delle malattie e della morte, e se lo faceva si preoccupava subito di toccar ferro. Negli ultimi tempi, però, infranse la sua riservatezza che poteva apparire cupa chiedendo che le sue ceneri venissero sparse nel boschetto davanti alla sua casa e che per il suo funerale (laico e civile) si suonasse l’Internazionale (sogno di giustizia) e si recitasse il Padre nostro: «il sogno d’amore rappresentato dal dialogo con il padre». La seconda moglie, Paola, gli è rimasta vicina fino all’ultimo, assistendolo con cura e dedizione in un hospice di Casale Monferrato nei mesi della malattia. Sebastiano ha lottato contro il presentimento di morire parlando di letteratura e di nuovi progetti.
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FRANCO CORDELLI, CORRIERE DELLA SERA –
Ieri mattina un amico mi ha chiesto se per Sebastiano Vassalli la letteratura fosse una religione: «Dicono avesse devozione solo nei confronti delle parole». Nient’affatto, ho risposto, questa è una tipica sciocchezza del nostro tempo, che in nulla crede. Per Vassalli la letteratura era un modo d’essere o, se si preferisce, un lavoro. Meglio ancora: un modo d’essere che si è andato trasformando in lavoro o un lavoro che era, quando lui ancora non lo sapeva, un modo d’essere.
Vassalli era profondamente laico: lo era almeno, per quanto ne so, nei confronti di ciò che faceva. Poi, era tutto il resto; era ciò che la leggenda ricamava su di lui, sul suo comportamento, sulla sua vita segreta, sulla sua solitudine. Già, la solitudine. Alla radice della domanda che mi è stata rivolta c’è questo elemento: quale scrittore più solitario di Vassalli nella nostra letteratura? Mi si potrebbero fare altri nomi, ma per solitario intendo non tanto uno che viveva da solo, in una casa di campagna, nelle risaie del Novarese, in compagnia più di animali e piante che di uomini. Per solitudine non intendo neppure che si sentisse solo (questo non lo so) e coltivasse il suo sentimento. Intendo più semplicemente che la sua solitudine, al di là dei normali rapporti affettivi che come tutti aveva, se l’era scelta.
Era in una certa misura un’arma contro il mondo, il mondo lo aveva, questo è sicuro, in gran dispetto. Non è di qui che nasce la sua letteratura, ovvero il suo «romanzo»? Nasce da risentimento, da rabbia, da fulgore: anche risentimento e rabbia possono diventare fulgore. Ma voglio essere più preciso: risentimento e rabbia così, nudi e crudi, non bastano per scrivere un grande libro (un grande romanzo). A guardare con più accuratezza, a scavare sotto la «sua» ansia di scoperta e denuncia («Ho tante storie da raccontare» mi disse qualche tempo fa. «Storie di persone eccezionali, strane, che non immaginiamo siano esistite o, se le conoscevamo, non pensiamo siano come davvero erano»), ecco apparire la natura del romanziere e dell’uomo Vassalli.
Il fondamento era opposto a qualunque tipo di religione, compresa quella dell’eventuale propria delusione: la volontà di capire, di andare a fondo nelle cose. E questa, non esito a dirlo, è l’unica, vera bontà; o la bontà più grande. Sulla mia scrivania, che è intonsa, c’è solo una lettera. È sua, è del 2014. L’ho conservata lì perché in calce a quella lettera c’è scritto qualcosa che — io che lo conoscevo da quasi quaranta anni — mai avrei creduto. Ci sono tre incredibili parole: «Ti voglio bene». Sono tre parole che io non gli ho detto e che ora, gli ho voluto bene, posso usare solo al passato.
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PAOLO MAURI, LA REPUBBLICA –
PAOLOMAURI
La storia della sua vita ha quel che di romanzesco da sembrare inventata: Vassalli figlio di una sguattera adolescente che in ogni modo ha cercato di disfarsi di lui, Vassalli che nomina il padre come il Merda, Vassalli dai mille mestieri che pure riesce a studiare Lettere alla Statale di Milano. Mario Fubini, severissimo, giudica bene il suo preesame scritto: era il commento ad un sonetto. «È tutto sbagliato, ma è così convincente», dice più o meno Fubini. Si laurea con Musatti e Dorfles: una tesi approssimativa che tratta di
arte e psicoanalisi. Sebastiano Vassalli è nato a Genova nel 1941, ma il padre, il suddetto Merda, è di Voghera. In realtà Sebastiano si radica a Novara e dintorni, si sposa, poi il matrimonio, ma molti anni dopo, entra in crisi e lui vive in disparte, nella pianura delle risaie, dove il monte Rosa appare come una chimera. È il titolo, La chimera , del suo romanzo più celebre, che vince lo Strega nel 1990: un romanzo storico ambientato nel Seicento dove si narra di Antonia, un’orfana abbandonata a se stessa che viene allevata dalle suore e in seguito a molte vicissitudini finirà sul rogo perché, torturata dall’Inquisizione, ammette di essere una strega. Inevitabilmente, trattandosi di Seicento, si fa per La chimera il nome di Manzoni, ma Vassalli non contempla la Provvidenza tra i motori del mondo. Piuttosto scava nella degenerazione del vivere, lasciando volentieri parlare i folli. E il protagonista principe delle sue storie è proprio un poeta rinchiuso in manicomio, il mio babbo matto, come lo definisce, quel Dino Campana cui dedica La notte della cometa , un po’ perché vuol dire finalmente la verità su di lui, dopo tante invenzioni, e un po’ perché lo sente fratello nella fatica di stare al mondo.
Vassalli ha un concetto altissimo della poesia e non sopporta le moltitudini di sedicenti poeti, così come avrà parole sarcastiche sull’esercito di scrittori che ormai da tempo domina la scena. Ma che tipo di scrittore è Vassalli? All’inizio non lo sa bene neppure lui: è più o meno ventenne quando il Gruppo 63 compare all’orizzonte. Dunque la prima incarnazione è quella della neoavanguardia: Tempo di màssacro , L’arrivo della lozione…
La casa editrice Einaudi ospita i suoi testi nelle collane sperimentali. Ma Vassalli ricorderà quegli anni con molto disincanto: si trattava poi di partecipare a pubbliche letture di testi dove tutti ti davano addosso… Così lui cambia registro e si riappropria, è il caso di dirlo, della propria scrittura. Dirà poi che, se non fosse stato per Giulio Bollati, forse la partita si sarebbe chiusa lì. Ma che cosa ha da raccontare Sebastiano Vassalli? Forse cerca un senso nel non-senso del vivere. Antonia violata, torturata e bruciata nell’Italia delle streghe. Il Mattio del romanzo settecentesco.
Marco e Mattio che addirittura mette in scena un tentativo pazzesco di imitazione di Cristo, con una autocrocifissione del protagonista. Mattio Lovat, un folle per via della pellagra, come Campana lo era per la sifilide, che vuole salvare il mondo mentre l’anticristo Bonaparte minaccia la Chiesa. Ma prendiamo un particolare di questo romanzo: la storia del prete Tomaso, un prete castrato residuo di un mondo che sta morendo, che non riesce ad adattarsi alla vita che cambia e, per esempio, al mutato modo di calcolare il tempo contando le ore dalla mezzanotte all’uso tedesco. Tomaso è diventato così grasso che ormai non può più uscire di casa. Bene, qui, senza cercare altri significati, è la narrazione in sé che trionfa, come il colore particolarmente azzeccato in un quadro. Nient’altro che pittura, nient’altro che narrazione, ma spesso Vassalli è un eccellente scrittore proprio perché coinvolge il lettore al massimo grado e lo convince a confrontarsi con le storie che sta seguendo e con i luoghi che a loro modo sono protagonisti tutt’altro che secondari di queste storie. E qui cade bene il rinvio al romanzo L’oro del mondo dove viene descritta la storia dei cercatori d’oro nella valle del Ticino ma soprattutto la società italiana del secondo dopoguerra di cui lo stesso scrittore è stato testimone. Vivo perché è assurdo, sembra dirci Vassalli, che non ha mai rinunciato ad esercitare una sua vena satirico- sarcastica e non solo nei corsivi giornalistici.
Pochi giorni fa, era arrivata la notizia che la candidatura di Vassalli al Nobel era stata avanzata dalla prestigiosa università di Goteborg. Si preparava a ritirare in settembre il Campiello alla carriera e un suo nuovo libro, Io, Partenope , uscirà da Rizzoli il 12 settembre. Aveva un volto antico Sebastiano e ragionando della propria fine aveva chiesto che le sue ceneri fossero sparse nella terra in cui abitava, dove crescono i funghi.
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ROBERTO CICALA, AVVENIRE –
«Io sono un nulla che ha sognato molto» ha ripetuto Sebastiano Vassalli negli ultimi giorni in cui il destino lo ha fatto oscillare su un’altalena d’angoscia: fra la luce della candidatura al premio Nobel 2015 e il buio di un improvviso male incurabile, tenuto per sé fino all’ultimo nello stile solitario di un’eremita laico della scrittura. Qui sono trascritti gli appunti di un dialogo iniziato nelle ultime settimane e terminato la scorsa notte, quando lo scrittore è «uscito dal rumore», come ha fatto nei suoi romanzi storici che non voleva chiamare così perché, diceva, «per cercare le chiavi del presente bisogna andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla». Dal suo letto nell’hospice di Casale Monferrato si aggrappava alla mano della moglie Paola, la penna non riusciva più a tenerla e così a lui che non ha mai usato il computer restava solo la voce: «Come Omero, il padre di noi narratori. Finché resteranno in vita due persone, ci sarà chi racconta una storia e chi l’ascolta». Nei momenti di lucidità aveva ancora storie da raccontare: «Penso tanto, ma penso soprattutto storie: storie di guerra. Il conflitto è ciò che ci fa più male e perciò dobbiamo comprenderlo».
La letteratura salva? La sua risposta arrivava lentamente: «Spero sia vero, non l’ultima illusione». Viene in mente quanto scrive in Amore lontano dove narra la vita di poeti prima della morte: la poesia «è vita che rimane impigliata in una trama di parole». È questa l’unica speranza, non è Dio? «Non l’ho mai incontrato — rispondeva — Neppure a Napoli, dove Dio e il Diavolo sembrano aver trovato un equilibro». Napoli? «Sì, qui ho ambientato l’ultimo romanzo, finito con gran fatica a dispetto di questa dannatissima malattia».
Per scaramanzia ha voluto sempre mantenere il segreto sul contenuto ma il titolo sarà Io, Partenope : «Sono tornato ancora nel Seicento, dove nasce il carattere nazionale degli italiani». È una città che ami? «A Napoli tutto è possibile. E poi si scopre una sapienza istintiva: i napoletani sono in grado di inventare soluzioni anche nella tragedie. Ne avrei bisogno per questa mia tragedia… » Un’anticipazione? «Soltanto le ultime quattro parole del romanzo, che sono forse il mio epitaffio: “Ho raccontato l’Italia”». Perché hai iniziato a scrivere? «Mi mancava qualcosa a vent’anni».
Si struggeva per essere bloccato a letto, senza speranza. «Mi sento in una trappola», chiamava così la malattia, come se fosse l’ultimo protagonista della sua storia finale, quella di cui non ha potuto essere il deus ex machina. Per quando sarebbe arrivato il momento aveva preparato sul tavolo l’ Internazionale da far suonare al funerale: «Un grande sogno di liberazione, purtroppo fallito». Con un’aggiunta: «Era stato composto come inno delle Alpi, che sono la cornice della mia pianura». È qui la tua patria? «Mah, la nostra patria è in verità la lingua». Per l’addio ha chiesto che venga letta anche la preghiera del Padre nostro.
Una volta, arrivati i giornali e ascoltato qualche titolo di fatti di cronaca pieni di quell’odio che Vassalli ha raccontato come pochi altri, ha voluto spiegare: «L’odio spesso è ciò che muove l’universo e che sopravvive a tutto». I ricordi lo commuovevano sempre mentre passato e presente si confondevano in una confessione: «Sono cresciuto facendo esperienza di odio, abbandonato dai miei, ma alla fine ho fatto esperienza d’amore, d’essere amato, anche in questo letto ». Il male che lo divorava sembrava non vincere la profondità del suo pensiero, che ha avuto momenti di mistica laicità: «Qual è la mia responsabilità per l’umanità che soffre? Che cosa ho fatto per avere questo male?». Ha anche lasciato scritto: «L’umanità è un mare dove i movimenti avvengono in superficie. Più si scende in profondità, più tutto sembra (ma non è) immobile». In alcuni giorni nella sua stanza d’ospedale sembrava cercasse di vedere ancora più lontano dei suoi libri storici: «Sai di che cosa ha bisogno il mondo? Pace, questa piccola grande parola. Ma la pace, come il sonno, si nomina soltanto quando è lontana». Che cosa vorresti? «Vedere il mio giardino » alla Marangana», che da sempre ha curato come il Candido di Voltaire, «nella mia casa amata che vorrei diventasse centro studi». Spesso in quei giorni Vassalli si rammaricava di non vedere dalle finestre dell’ospedale il suo paesaggio di risaie in una pianura che ha narrato come un personaggio: «Un crocevia rumoroso di vite, di storie, di destini, di sogni… un’illusione ». L’altra notte ha abbandonato il rumore per at-traversare il nulla lasciandoci, non si stancava di dirlo, fino all’ultimo respiro, «un nulla pieno di storie».
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GIUSEPPE LUPO, IL SOLE 24 ORE –
Quando muore uno scrittore che abbiamo molto amato, una parte di noi se ne va con lui, con le trame dei suoi libri in cui ci siamo persi e ritrovati, con i suoi personaggi che ci hanno tenuto compagnia durante la lettura e anche dopo, nella memoria dei mondi riflessi che per pudore non abbiamo il coraggio di chiamare letteratura, anche se lo è. Sebastiano Vassalli, pur essendo nato a Genova 73 anni fa, da diversi decenni viveva in una casa ricavata dalla canonica di una chiesa affacciata sul nulla della pianura novarese, nebbiosa e piena d’acqua. Da quel nulla è uscita fuori la sua opera narrativa e anche la sua stessa persona, la sua natura fintamente scontrosa e appartata, il suo carattere di orso bonario sono figli di quel Piemonte piatto e desolato.
Questo paesaggio gli dava l’opportunità di autodefinirsi “un nulla pieno di storie”, come recita il titolo di un libro-intervista edito da Interlinea nel 2010.
È paradossale che, per ricordarne la sua presenza a poche ore dalla morte, avvenuta ieri a Casale Monferrato, nell’ospedale dov’era ricoverato da pochi mesi, al di là dei tanti riconoscimenti che pure non gli sono mancati (il Premio Strega e il Premio Selezione Campiello per La chimera, il Premio Flaiano per Terre selvagge, il Premio Campiello alla carriera, che gli sarebbe stato consegnato il prossimo 12 settembre a Venezia, la candidatura al Nobel), al di là dei clamori da cui indubbiamente egli si sarebbe volentieri allontanato, dobbiamo pensare ai suoi libri come a un pezzo di quel panorama geografico, un’architettura invisibile di edifici, famiglie, sentimenti, delusioni, incanti, direttamente scaturiti dalle risaie e dal silenzio che avvolgono le sue trame.
Pochi scrittori come lui hanno scansato le strade della facile letteratura per regalare al nostro tempo il senso di un’operazione totale, un puzzle che si compone di tanti segmenti quanti sono i suoi testi, tutti indirizzati a narrare il carattere di un popolo, la sua contraddittoria indole, il senso di non appartenenza al concetto di nazione unita, l’abitudine all’inganno. Ma c’è un secondo paradosso che si nasconde nelle scelte di Vassalli e ne costella il percorso di scrittore avvezzo al controcanto anziché alle parate ufficiali, a cominciare dalla sua adesione alla neoavanguardia, avvenuta nel periodo del suo esordio sul finire degli anni Settanta, da cui però si sarebbe allontanato per approdare a quella ben più solida forma di romanzo che predilige il supporto del documentario storico – La chimera in primis, ma anche La notte della cometa, Marco e Mattia, Cuore di pietra, Le due chiese –, inseguendo i modi del suo grande interlocutore: quel Don Lisander sulle cui tracce ha voluto mettersi in cammino nel tentativo di strappare indizi e segreti.
Molto si è discusso sul manzonianesimo di Vassalli, sui prestiti e sui distinguo nei confronti dei Promessi sposi e ora non è il momento di riprendere il discorso, ma certo la questione rimane aperta, anzi è destinata a maturare ulteriori riflessioni se si considera quanto abbia influito il suo recuperare forme narrative d’impianto tradizionale, quanto abbia giovato al dibattito sui destini delle nostre lettere il suo investire energie nella direzione di una scrittura antropologica, proprio mentre il Novecento si accingeva a spegnere le sue contraddittorie luci, a giocare con le formule cerebrali e le carezze delle menzogne.
La forza di Vassalli è stata quella di rimettersi in discussione, scavalcare il fossato in cui si predicava la fine della letteratura e si gridava alla morte del romanzo per consegnarci un polittico di narrazioni che, per almeno un trentennio, hanno raccontato la nostra identità, dal Medioevo agli anni del benessere. Se è vero che non leggiamo libri, ma li abitiamo con la naturalezza con cui ascoltiamo le epopee di Omero – e qualcosa di Omero è finito nell’inchiostro di Vassalli – oggi dovremmo dire che abbiamo camminato con gioia nei suoi romanzi, siamo vissuti dentro le sue storie che sapevano di nebbia e di terra, impregnate di quegli umori padani, non importa se antichi come le guerre tra Romani e Cimbri o d’una modernità controversa come quella circonda la strega di Zardino, in qualunque caso cresciuti nel grande mare della pianura che egli ostinatamente ha cercato di contrastare con l’unica arma a sua disposizione: la scrittura, da lui interpretata nella dimensione omerica, come inno al ricordo, come gesto estremo per la salvezza laica dei nomi e delle civiltà, quale rimedio agli sgambetti della Storia, quale soluzione per lasciare traccia di sé e di ciò che è stato, in opposizione al pericolo della dimenticanza.
Il presente non brilla certo per le sue numerose testimonianze di fiducia nel mestiere dei libri e proprio per questo la figura di Vassalli rimane tra le più limpide in forza del suo smisurato senso morale, tra le convincenti e coerenti professione di fede. Una specie di religione laica, un vangelo depositato sulle piste degli uomini che hanno percorso i sentieri degli ultimi cento anni, tormentati e crudeli, sublimi e assurdi, le piste del Novecento a cui la sua vicenda di uomo e di scrittore apparteniene.
Quando era in vena di confessioni e forse voleva prendersi gioco della morte (che aspettava, ma non temeva), Vassalli parlava del suo funerale, chiedeva che qualcuno intonasse l’Internazionale e poi alla fine recitasse il Padre nostro. Diceva che sarebbe stato quello il suo posto, all’incrocio delle due grandi traiettorie che hanno attraversato il secolo scorso: la promessa di un regno cristiano e l’annuncio di un domani socialista. Sono sicuro che, quando sarà il momento, qualcuno se ne ricorderà; anzi penso che non ci sarà un modo migliore per accompagnarlo dove lui vorrà camminare e che lui sia lì, insieme con noi, alla confluenza di questi due grandi fiumi, per capire se ci siamo ingannati o se abbiamo avuto ragione di sperare.
Giuseppe Lupo
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MARIO BAUDINO, LA STAMPA –
Ha trascorso tutta la maturità piantato in mezzo alle risaie, ma Sebastiano Vassalli è stato uno dei grandi scrittori del «bastione alpino» (secondo la definizione ormai classica di Carlo Dionisotti a proposito della geografia nella letteratura italiana). Nato a Genova e profondamente piemontese, era radicato nelle asprezze e timidezze della sua gente, in quella durezza contemplativa che ne caratterizza una buona (anzi ottima) pattuglia di scrittori. Laurea in lettere, tesi su arte e psicanalisi discussa con Cesare Musatti, anni da insegnante, poi solo scrittura, sprofondato nella piana del riso in faccia alle Alpi. E le Alpi, nell’immagine totemica del Monte Rosa, rifulgono nell’ultimo romanzo, Terre selvagge, ambientato ai tempi dell’invasione di Cimbri e Teutoni nella piana novarese. Quasi un addio.
Vassalli se n’è andato a 73 anni, 71 dei quali trascorsi qui, nella terra che non era dei padri (peraltro rifiutati: raccontò di essere cresciuto con le zie a Novara proprio perché abbandonato dalla famiglia), e che era profondamente sua. Ciò non gli ha impedito di viaggiare molto (nella letteratura), per esempio verso la Marradi di Dino Campana, la sua figura ispiratrice e paterna, il «babbo folle»: cui dedicò nell’84 il libro forse più amato, La notte della cometa, che ne segnò la definitiva affermazione, oltre che una svolta profonda nella scrittura. Ma anche nel Sud Tirolo, cui aveva dedicato un reportage, Sangue e suolo, appena riproposto in nuova versione da Rizzoli con il titolo Il confine. È all’altezza di quegli anni che matura il suo vero destino di scrittore.
Figlio del Gruppo ’63
Era nato nella neoavanguardia del Gruppo ’63, e alla poetiche che circolavano in quegli anni si ispirarono con decisione i suoi primi libri, da Narcisso a Tempo di màssacro, sarcastica ricognizione del mondo bipolare d’allora, con fantasioso turbinio di accenti tonici (oltre alla rivista Pianura, da lui fondata qualche tempo dopo). Uscirono per Einaudi, nella collana dedicata agli sperimentalisti, e segnarono l’inizio di una lunga fedeltà, non esente da brontolii, e di una profonda amicizia a fasi alterne con l’editore e con Roberto Cerati, il direttore commerciale e deus ex machina dello Struzzo.
Molto tempo dopo, nel suo delizioso Alla guida dell’Einaudi, (Mondadori), Mimmo Fiorino, l’autista personale del «principe», ricordò che a volte «saltavano fuori dei battibecchi.., tanto che in certi periodi aveva anche pubblicato altrove. Ma tutte le volte il dottor Einaudi in persona andava a riprenderselo». Scomparsi Einaudi e Cerati, maturò la decisione di lasciare una casa editrice dove forse nessuno andava più «a riprenderselo». Di qui il passaggio alla Rizzoli, che ne sta ripubblicano l’opera. Vassalli era uno che per conto suo, tutto sommato, stava bene. Ha avuto una esistenza travagliata, per quanto si riferisce al privato, amara, costellata di addii. E una grande fiducia nella letteratura, intesa anche come gesto solitario, in fondo sprezzante.
Il suo mondo era ai piedi del bastione, ma ad esso non si riduceva. La Chimera (Strega e cinquina del Campiello nel 1990) recupera la storia documentata di una ragazza del ’600, in un borgo ai piedi del Rosa, che è troppo bella per non avere in sé, agli occhi di preti e benpensanti, qualcosa di diabolico, la cui tragedia si consumerà tra le risaie; Marco e Mattio (1992) ricostruisce un caso psichiatrico del primo ’800 tra le Dolomiti bellunesi; Il Cigno (1993) rievoca lo scandalo del Banco di Sicilia, a fine ’800; Le due chiese (2010) narra la storia di un paese, ancora in montagna, dalla Grande guerra ai giorni nostri. Il nuovo romanzo che uscirà a settembre per Rizzoli, Io, Partenope, torna a scavare nel secolo che gli è più caro, il ’600, e si affaccia su una città, Napoli, che pure non gli è estranea.
Candidato al Nobel
Vassalli ha scritto tantissimo, alternando i romanzi con la saggistica per l’editrice Interlinea di Novara, dove ha pubblicato anche Un nulla pieno di storie, autobiografia in dialogo con Giovanni Tesio. Non si è chiuso nel «genere» del romanzo storico (Comprare il sole parla dei giorni nostri, di una ragazza «postfemminista» con l’ossessione dei soldi) ma certo scavando nella storia, attaccandosi e flebili documentazioni e integrandole con la letteratura ha offerto il meglio di sé. Quest’anno era stato autorevolmente candidato al Nobel dall’Università di Göteborg. «Credo di avere fatto alcune cose buone e anche ottime, che però non hanno avuto un successo clamoroso e non possono averlo perché l’umanità è un mare dove i movimenti avvengono in superficie. Più si scende in profondità, più tutto sembra (ma non è) immobile» dice nell’autobiografia. Ha raccontato, per metafore ma non solo, qualcosa che potremmo definire - ammesso che esista - un nostro carattere nazionale. Ma anche le nostre Chimere. O quantomeno un’indole collettiva.
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ERNESTO FERRERO, LA STAMPA –
Ha presto abbandonato i furori del neo avanguardista, Sebastiano Vassalli, per lasciar libero campo alla sua vena più autentica e fruttuosa, quella del raccontatore di storie. Aveva trasferito la sua avversione per codici espressivi che gli suonavano consolatori e rassicuranti in una tensione etica e civile. Si faceva carico di quanti vengono investiti dalla brutalità delle istituzioni, dalla famiglia in su, o dall’omologazione cui tende il sentire del branco, che non tollera il diverso e trasforma la propria insicurezza in ferocia aggressiva. Ma tutto questo non sublimato in ideologia o in sociologia d’accatto, bensì trasferito nella verità umana che si nasconde anche nella vicenda più apparentemente marginale. Gli piacevano i «minori», i dimenticati, i rimossi, i disgraziati di cui nessuno si occupa.
La vera patria è quella che ognuno si riconosce come propria nell’età adulta, e lui s’era isolato nelle risaie novaresi, dove forse sentiva come complici le irriducibili zanzare, per meglio essere sociale e corale. I suoi romanzi sono animati da una stupefacente pluralità di voci, che tutte concorrono a illuminare la straordinaria resistenza di pochi emarginati, fedeli alla propria presunta follia: da un poeta come Dino Campana, forse il personaggio che ha amato di più, a una ragazza di campagna accusata di stregoneria.
Le tante, troppe ingiustizie della Storia, in cui si calava tutto intero con passione accorata, gli servivano per aggredire di rimbalzo le storture del presente. Quella che ci ha raccontato, senza pretese di continuità o completezza, è stata una sorta di controstoria o antistoria d’Italia, che frugava con indignata pietà nelle zone d’ombra, nei segreti vergognosi, nelle omissioni in cui si rivela tutta intera la vera identità di un Paese. Senza illusioni ma senza rassegnarsi mai, perché i narratori come lui raccontano anche per quelli che verranno.
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GIUSEPPE CONTE, IL GIORNALE –
La notizia della scomparsa di Sebastiano Vassalli mi arriva come una sassata alla nuca. Il destino è in agguato, la letteratura, che punta all’eternità, non ci esime dal finire i nostri giorni. Pensavo Vassalli in piena attività, e dunque, sbagliando, in piena salute. Avevo appreso della sua candidatura al Nobel, e mi ero detto che era una delle migliori se non addirittura la migliore che gli Accademici di Svezia potessero proporre, e avevo letto del Premio Campiello alla carriera che gli è stato assegnato: una volta tanto , un premio alla persona giusta. Ora viene a mancare, nella mia generazione che inesorabilmente invecchia, un punto di riferimento decisivo, un autore che ha attraversato le stagioni letterarie più importanti degli ultimi decenni riuscendo a rinnovarsi e a rendere riconoscibile la propria voce. Sebastiano Vassalli era nato a Genova nel 1941, ma si era trasferito prestissimo nel Piemonte del nord, a Novara: e lì si era radicato. Era un autore di pianura, la lama d’acqua che lo interessava era quella delle risaie. Da un certo momento in poi, si era rinchiuso quasi da eremita in una casa di cui si sentiva dire che era stata un convento in mezzo alla campagna novarese. Lì lavorava e da lì mandava sue notizie al mondo, anche con corsivi urticanti che uscivano sul Corriere della Sera, e che spesso mi inducevano da lettore a reagire con moti di solidale approvazione. Era un carattere burbero, quello di Vassalli. Alto e magro, baffoni anni Settanta mai tagliati su un volto scarno, di poche parole e dal fare diretto, che va al sodo. Ci siamo incontrati poche volte: ne ricordo una, all’università di Torino, che ci stringemmo la mano e lui mi disse secco: parliamo un po’ del mito. Il mito, la storia. Quello che la nostra generazione aveva rischiato di dimenticare. E che invece rispuntava prepotentemente nel nostro immaginario e nella nostra volontà di capire il mondo. Sebastiano Vassalli aveva esordito giovanissimo nell’ambito della Neoavanguardia. Poeta, inventore della rivista Pianura, autore di un libro che sin dal titolo, Disfaso, denuncia la propria appartenenza a una precisa area della cultura del tempo, siamo nel 1968, anno cruciale per la nostra generazione. Nello stesso anno esce Narcisso. Due anni dopo Tempo di màssacro. Libri che coniugano avanguardia linguistica e impegno politico, molto datati, e che non avrebbero portato il giovane autore da nessuna parte. L’arrivo della lozione e Mareblù mi apparvero meno sperimentali ma pervasi da una ironia senza sbocchi. Il libro di passaggio è La notte della cometa, del 1984. Una bellissima biografia del poeta Dino Campana, che non era nel canone neoavanguardistico di quegli anni, e che Vassalli riscopre in coraggiosa solitudine. E la grande svolta avviene con La Chimera, del 1990, un robusto e sontuoso romanzo storico che si ambienta nel Seicento e che riprende alla grande la tradizione inaugurata dal Manzoni. La Chimera - quella del titolo è il monte Rosa visto nel suo splendore irraggiungibile dalla piatta, nebbiosa orizzontalità della pianura - non si nega nessuno degli ingredienti fondamentali del genere: l’orfanella, che è Antonia la protagonista che poi finisce al rogo dopo una serie mirabolante di avventure, i conventi pieni di suore e frati ambigui, sacerdoti veri e sacerdoti finti, i cosiddetti «quistoni», i sabba e la streghe, l’inquisizione, credenze popolari e animali magici, il lavoro durissimo delle risaie, le angherie dei bravi al servizio di signorotti locali, il passaggio dei lanzichenecchi. Con questo romanzo, arrivò per Vassalli la popolarità: vinse lo Strega, iniziò a scrivere sui grandi giornali. Ma lui restava lo scrittore problematico, consapevole di cosa è la letteratura, che era sempre stato. In realtà si isolò più di prima. Non si mescolò mai con la romanzeria italiana, mediamente popolata da gente che non gli arrivava neppure alla cintola. Il genere storico diede a Vassalli il modo di continuare a raccontare la campagna, l’Italia, la società nelle sue trasformazioni e nelle sue tragedie. Ecco Marco e Mattio, che si svolge in una comunità veneta di fine Settecento, ecco Il Cigno, che prende come soggetto il caso Notarbartolo, cioè quello di un omicidio politico-mafioso nella Sicilia di fine Ottocento. Tra i suoi romanzi più recenti, Terre selvagge mi è sembrato il più felice, ed è ancora un romanzo storico, ambientato nella pianura intorno a Novara, che rievoca la battaglia tra i Cimbri e i Romani in un momento decisivo nella storia dell’Italia e dell’Europa. Quello che mi ha colpito è la passione documentata con cui Vassalli parla del popolo celtico e di quei Cimbri che avevano attraversato l’Europa inanellando vittorie e massacri e che fu il console democratico Mario, figura chiave nella evoluzione della repubblica romana, a fermare. I popoli, i luoghi, la pianura, ancora una volta il monte Rosa, il cui nome deriva da Ros che in lingua celtica vuol dire «picco»: Vassalli trova una energia epica per raccontarli. E mentre racconta, non smette di interrogarsi eticamente sul destino dell’uomo, non smette di vagliare eticamente il suo operato. Ecco l’inizio del primo capitolo: «Era maggio, il mese più bello dell’anno. Era il settimo giorno del mese: le nonae. C’era il sole. C’erano i fiori sugli alberi e nei prati, c’erano, a chiudere l’orizzonte, le grandi montagne: le Alpi, ancora bianche di neve». Un linguaggio scabro e poeticamente essenziale: che ci porta, per contrasto, verso la tragedia della storia, le popolazioni innocenti che fuggono, la minaccia dei Cimbri ritenuti invincibili che si avvicina, i Romani che si preparano a resistere. Ho colto il respiro del mito, in Terre selvagge. E della grandezza. Un libro di Vassalli è appena uscito, sull’annoso problema del Sud-Tirolo (Il confine) cui si era già dedicato in Sangue e suolo, uno uscirà il 12 settembre, Io, Partenope. Ave atque vale, Sebastiano Vassalli: la scomparsa di un vero scrittore non è mai definitiva: la sua opera lo continua, e sarà così sicuramente per te che hai scritto La Chimera e Terre selvagge.
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NANNI DELBECCHI, IL FATTO QUOTIDIANO –
Se n’è andato all’improvviso Sebastiano Vassalli, a breve distanza dalla notizia che l’Università di Goteborg lo aveva candidato al Nobel. L’ha portato via una malattia breve e fulminante come i corsivi che per tutta la vita aveva scritto sui giornali, da ultimo il Corriere della sera, dove emergeva tutta la verve polemica del vero bastian contrario.
Per Vassalli il senso di estraneità era un imprinting. Nato a Genova nel 1941, era stato abbandonato dai genitori e cresciuto in Piemonte dai prozii; non avrebbe più rivisto il padre né la madre, e lui era il primo a rallegrarsene: “Genitori così è meglio non averli” dichiarò in una recente intervista a Repubblica. Dalla campagna piemontese, invece, non si sarebbe più mosso, un istinto all’isolamento che si sarebbe trasformato in amore per quella bassa tra Novara e Vercelli che si credeva potessero amare così tanto solo le zanzare: le risaie, i casali, “i fiumi che cominciano dove finiscono le nevi”, le finestre da cui non si vede nulla, gli orizzonti infiniti che quando scende la nebbia sembra di essere in un bicchiere di acqua e anice, come canta Paolo Conte.
Da questi orizzonti infiniti era nata un’ispirazione bifronte, la ribellione di un convinto antialiano, il nichilismo radicale, metafisico dell’apolide; ma anche un grande talento narrativo, nella convinzione che “il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie”.
Vassalli ha sempre saputo perfettamente ciò che non era, ciò che non voleva, ma pur nella mutevolezza dei suoi disgusti non gli è mai venuta meno la fede nella “vita che rimane impigliata in una trama di parole”.
Da ragazzo era stato incerto se dedicarsi alla pittura o alla scrittura; infatti alla Neoavanguardia e al Gruppo 63 si avvicinò come poeta e pittore, solo in un secondo tempo come autore di romanzi sperimentali. La vera vocazione arriva nel 1984 con La morte della cometa in cui, anticipando il gusto postmoderno del romanzo biografico e citazionista, ricostruisce la via crucis del più maledetto dei nostri poeti, Dino Campana: il conflitto con la madre, le tare ereditarie, l’amore infelice con Sibilla Aleramo, la vita raminga, la follia.
Sei anni dopo esce La chimera, premio Strega 1990, giustamente considerato il suo capolavoro, romanzo storico e insieme politico, manzoniano e antimanzoniano allo stesso tempo.
Bassa padana, primi del Seicento: epoca e luoghi riecheggiano I promessi sposi ma la vicenda di Antonia, processata per stregoneria e mandata al rogo per espiare la sua bellezza, richiama soprattutto la Storia della colonna infame. L’Italia sotto il dominio spagnolo è di nuovo quella bigotta, infame e servile dei Don Ferrante, dei Conte Attilio e degli Azzeccagarbugli, ma nessuna luce della Provvidenza viene a bilanciare la pena del vivere e l’oppressione degli umili. Davvero non resta “che far torto o patirlo”.
Fedele alla convinzione che “le grandi storie sono nel passato, o nel futuro, il presente è la vita del condominio”, Vassalli proseguirà soprattutto sulla strada maestra del romanzo storico, specchiandolo nelle epoche più diverse. Marco e Mattio (1992) su un caso psichiatrico del primo Ottocento; Il Cigno (1993) sullo scandalo del Banco di Sicilia, a fine Ottocento; Stella avvelenata (2003), sul viaggio a Parigi di un giovane chierico nell’Europa del Quattrocento; fino al recente Terre selvagge (2014), ambientato ai tempi dell’invasione di Cimbri e Teutoni.
Sempre più prolifico ma anche più schivo, dedito quasi esclusivamente al suo lavoro, fa parlare di sé solo per qualche scontro anche personale. Nel 1997, dopo trent’anni di fedeltà all’Einaudi di Vittorio Bo e Roberto Cerati, l’improvvisa rottura con il fondatore Giulio, che in un’intervista aveva dichiarato di non avere apprezzato il romanzo Cuore di pietra (“Sembra De Amicis”); uno strappo che si rimarginerà due anni dopo, poco prima della morte di Giulio Einaudi.
L’ultima polemica l’aveva lanciata contro il premio Strega, quando si era schierato contro il partito della candidatura in contumacia di Elena Ferrante. “Piuttosto che l’autore anonimo speriamo che vinca il peggiore: un essere umano”, aveva scritto; ed era sorprendente questa difesa a spada tratta della visibilità da parte del più isolato, sociopatico, alieno alle conventicole dei nostri scrittori.
Era un vero scrittore, Sebastiano Vassalli un vero bastian contrario con le finestre sulle risaie e le radici nella storia; ma sapeva lasciare il segno anche quando gli capitava di scendere nel condominio del presente.