Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 25/7/2015, 25 luglio 2015
I TRE ANNI CHE HANNO AFFONDATO TARANTO
Il 26 luglio 2012, la Procura di Taranto sequestra l’acciaieria dell’Ilva e arresta i membri della famiglia Riva e i principali dirigenti dell’impianto. L’accusa: disastro ambientale. All’Ilva sono imputati – fra il 2005 e il 2012 - 174 morti.
Il 23 luglio il gip Grillì chiede il rinvio a giudizio per 44 persone e tre società per disastro ambientale. I?fratelli Riva, l’ex governatore della Puglia Nichi Vendola, il sindaco Stefano. Tutti a processo. Nel mezzo un dramma in tre atti con tre commissari all’Ilva, scontri tra poteri dello Stato, leggi e decreti. Il risultato: una società finanziariamente solida finisce sull’orlo del baratro e la città di Taranto affonda.
Primo atto, dalla vigilia di Natale dell’anno scorso, quando il duo Renzi-Guerra porta l’Ilva nel perimetro pubblico, a metà giugno: a Taranto ogni cosa è tranquilla. Le passioni e i sentimenti sono immutabili. In Via Magnaghi, sui muri dell’Arsenale campeggiano le scritte: “Laura ti amo. Ultras Taranto. Riva boia”. C’è, però, una novità. Lo Stato è tornato. Anzi, prende corpo una idea precisa: ehi, ma qui abbiamo di nuovo le Partecipazioni Statali.
Secondo atto, in scena a metà giugno: i commissari dell’Ilva vanno dai magistrati di Taranto, che hanno appena posto sotto sequestro l’altoforno 2 dove l’operaio Alessandro Morricella ha perso la vita, per dire «siamo dalla stessa parte, siamo lo Stato».
Terzo (e ultimo?) atto, la scorsa settimana: non c’è alcun patto fra poteri dello Stato, lunedì i magistrati ricorrono alla Corte Costituzionale contro il decreto del Governo che consente l’uso dell’altoforno 2 e venerdì mandano i carabinieri a identificare chi ha tolto i sigilli dell’altoforno, nonostante la misura del Consiglio dei ministri lo consentisse.
A questo punto, a tre anni dall’nizio del caos Ilva il dramma evolve in psicodramma. I sentimenti si polarizzano. Nell’organismo di Taranto si insedia il ceppo di qualcosa di simile ad una sindrome maniacale-depressiva. All’atteggiamento della placida tranquillità neo-statalista si è aggiunta l’ansia – la certezza - che qualcosa si rompa, anzi che qualcosa si sia rotto.
Facciamo un passo indietro. L’Ilva commissariata è una impresa ormai prossima alla destrutturazione finanziaria, è fuori mercato, è sottoposta allo scrutinio della magistratura e agli obblighi del risanamento ambientale: l’80% delle prescrizioni dell’Aia va realizzato entro il 31 luglio di quest’anno. Tuttavia, il 12 luglio non si è limitata a pagare gli stipendi. Ha versato anche il premio di produzione e gli incentivi, che qui equivalgono quasi a una quattordicesima. Una scelta comprensibile sotto il profilo politico: la pace sociale prima di tutto. I bimbi sono andati al mare con i nonni.
Gli operai si sono recati in fabbrica. Gli impiegati in ufficio. La città sembrava dormire di un sonno, per quanto non profondo, agitato e intermittente. Dopo il fallimento della trattativa con Arcelor Mittal e il ritorno, da dicembre, dello Stato quale principale azionista di fatto si è appunto formata la convinzione che l’azienda non avrebbe dovuto più fallire. «La nostalgia per le Partecipazioni Statali c’è sempre stata», dice Biagio Di Marzo, ex dirigente dell’Italsider e uno dei leader degli ambientalisti non radicali. Nostalgia dei tornei internazionali di tennis e delle serate di cinema d’essai al Circolo della Vaccarella. Nostalgia, soprattutto, di un modello industriale che non assegnava alcuna importanza all’ultima riga del bilancio, quella dei risultati finali.
«I Riva – continua Di Marzo – erano del tutto disinteressati alla città, imponevano una disciplina durissima alle maestranze e facevano quattrini». Per sei mesi, dal decreto della vigilia di Natale che ha trasformato l’Ilva in una impresa della vecchia Iri fuori tempo massimo, il corpo e l’anima di Taranto sono stati imbottiti dei tranquillanti della memoria dell’Italsider e del narcotico dello Stato come prestatore di ultima istanza. Questi sei mesi, a loro modo, sono stati disperatamente bellissimi. La maggioranza silenziosa e speranzosa e la minoranza sobillatrice e sobillata sono state prese come da incantamento. Fino all’ultimo conflitto fra magistratura e azienda, dall’effetto violento come la puntura di calabrone sul viso di un bambino.
«Così come siamo messi adesso, non possiamo più andare avanti», spiega Dionisio Nasole, Rsu della Fim Cisl e operaio del tubificio, dal 2001 in Ilva dopo nove anni di lavoro nelle ditte fornitrici. Raccontano che Taranto sia stata fondata da spartani in esilio. Verità o falso storico che sia, Nasole sembra un lacedemone con il gel nei capelli: «Escite fuori ’sti soldi. Facciamo bene ’sti lavori». Nasole è un uomo semplice. Abita con la moglie e i tre figli dietro la Chiesa di Gesù Divin Lavoratore. Sotto il sole dell’una del pomeriggio ti racconta del padre Giovanni, operaio Italsider, e della madre Eufemia, che sono sempre vissuti qui, nel Rione Tamburi. «Per tutti siamo sempre strategici – scandisce ad alta voce Dionisio –, ma allora perché non si stanziano i soldi per questi lavori? Io penso che se lo Stato voleva chiudere l’acciaieria, l’aveva già fatto».
Lo Stato. Lo Stato. Lo Stato. Per quindici anni, nella complessa ossessione tarantina il cardine delle paure e delle tensioni è stato costituito dalla famiglia Riva, con il suo ostentato disinteresse verso la comunità e il suo efficientismo padronale nordico. Adesso, il perno di un immaginario percorso da pulsioni contraddittorie è lo Stato. Tanto che, sui muri di Taranto, sono comparse le scritte: “Stato boia”.
«Gli ultimi provvedimenti della magistratura hanno dato il senso del conflitto permanente. E hanno introdotto ancora più incertezza. Eppure, al di là delle scelte della Procura, non c’è alcuna garanzia che lo Stato tenga aperta per sempre una Ilva che perde a bocca di barile e che è priva dei lavori richiesti dall’Autorizzazione integrata ambientale», riflette Cosimo Panarelli, l’attuale segretario provinciale della Fim-Cisl assunto nel 1974 come impiegato nel laminatoio a freddo dell’allora Italsider.
A Panarelli, tarantino della Città Vecchia, viene fuori la lingua delle emozioni, al pensiero di questo addormentamento collettivo: «Fra le persone addentrate, nessuno pensa che la presenza statale basti. Fra quelle non addentrate, che sono la maggioranza, negli ultimi sei mesi molti ne sono stati convinti. Ma hanno sbagliato».
La nuova fase dello scontro fra magistratura e politica, di cui ormai l’azienda è una emanazione, ha soltanto rotto l’incantamento. Ha riportato tutti alla realtà. Perché, nell’anno 2015, nessuno può davvero realisticamente pensare che lo Stato possa riempire la voragine dei debiti e riportare una impresa siderurgica al centro del mercato italiano ed europeo. Soprattutto perché al problema finanziario – con un progetto di risanamento ambientale tutto concentrato sul miliardo e duecento milioni sequestrato in Svizzera alla famiglia Riva, di cui a Taranto non è ancora arrivato un euro che sia uno – si accompagna la questione industriale: per dirla con un linguaggio novecentesco, la leadership a Taranto non è certo degli ingegneri di produzione di fabbrica. Massimo Rosini, uomo di fiducia dell’uomo di fiducia Andrea Guerra, ha una formazione manageriale-commerciale.
Intanto, il pendolo di Taranto si muove con violenza, fra la nostalgia (dolce) del pubblico e la paura (punitiva) della chiusura. «Sa che cosa fa muovere questo pendolo?», chiede Rosella Tegas, 29 anni, la referente diocesana del progetto per il lavoro chiamato Policoro dalla Cei e specialista di formazione e di sicurezza. «Questo pendolo – continua Rosella – viene animato dalle scosse della rassegnazione. L’Ilva è soltanto uno dei dossier aperti sui tavoli di una classe dirigente locale che non sa come gestire cose così complicate. L’economia pubblica è in ritirata. Le imprese private di certo non fanno investimenti. Il distacco dalla vita pubblica ormai è compiuto».
Taranto sta sperimentando anche la ristrutturazione dura del call center Teleperformance (otto milioni di euro di perdite l’anno scorso, 2.400 addetti di cui 1.600 a tempo indeterminato) e l’assenza dei fondi pubblici per ammodernare l’Arsenale della marina militare (1.600 occupati fra dipendenti diretti e indiretti, militari e civili). Marcegaglia ha chiuso l’impianto specializzato nella fabbricazione di pannelli fotovoltaici (120 addetti), mentre Taranto Container Terminal è in liquidazione (540 occupati prossimi alla mobilità).
In queste ore il pendolo della nostalgia e della paura ha iniziato a muoversi con secca violenza. «Venerdì sera in prefettura hanno fatto marcia indietro – riflette Antonio Talò, segretario Uilm di Taranto, assunto in Italsider nel 1972 - ma la ferita rimane. Nella disputa fra costituzionalità sì e costituzionalità no, non può succedere che vengano schiacciati gli operai. Restano diciannove avvisi di garanzia in mano a diciannove lavoratori. L’ipotesi di reato vale da sei mesi a tre anni di detenzione. Le loro famiglie sono agitatissime. Non ho un aggettivo per definire tutto questo».
Intanto, la magistratura insiste: l’altoforno 2 va chiuso. L’Ilva commissariata e pubblica replica: la nostra posizione – il pieno funzionamento dell’impianto – è coerente con l’ultimo decreto del Governo, dunque è corretta. Intanto, la città aspetta il 20 ottobre, il giorno dell’inizio del filone principale del processo. A Taranto, nulla è più tranquillo.