Gianni Trovati, Il Sole 24 Ore 27/7/2015, 27 luglio 2015
ATENEI, PREMI E COSTI STANDARD PUNISCONO IL SUD
Dal 2008 a oggi il fondo di finanziamento alle università statali ha perso poco meno di un miliardo di euro, cioè si è alleggerito del 13,9 per cento in termini nominali, mentre se si calcola anche l’inflazione del periodo la sforbiciata arriva al 21,3 per cento.
La cura, però, non è stata uguale dappertutto, perché accanto a università che si sono viste ridurre l’assegno di quasi un terzo ci sono (pochi) atenei che addirittura poggiano su fondi più robusti del passato. Ai due capi della classifica si incontrano da un lato Messina e Palermo, che nel 2015 hanno ricevuto il 30% abbondante in meno rispetto ai fondi statali su cui avevano potuto contare sette anni prima, e dall’altro Bergamo e il Politecnico di Torino, che possono contare rispettivamente su un +11,4% e su un +7,3 per cento. Attenzione: ancora una volta è il caso di ricordare l’inflazione, che fra 2008 e 2015 si è mangiata il 10,6% del valore del denaro. In pratica, insomma, solo Bergamo scrive in entrata risorse statali davvero paragonabili a quelle del 2008, mentre tutti gli altri devono fare i conti con una perdita più o meno significativa. In ogni caso, i due estremi della graduatoria mostrano bene i termini della questione: la nuova geografia del fondo statale ha colpito duro le università del Sud, che in sette anni hanno subito una sforbiciata del 18%, mentre è stata molto più leggera nelle regioni del Nord dove i finanziamenti si sono ridotti “solo” del 7,1 per cento. Come mai?
Il primo fattore da considerare è legato al fatto che nel 2008, grazie ai 550 milioni aggiuntivi prodotti dal «Patto per l’università» che fu siglato dai rettori con il Governo Prodi e attuato l’anno dopo da Berlusconi. I 550 milioni furono ripetuti nei due anni successivi, riuscendo con fatica a tenere il fondo ordinario sopra quota 7 miliardi, dopo di che si è imboccata una rapida discesa: nel 2015, con una rapidità sconosciuta in passato, perché l’assegnazione ateneo per ateneo è arrivata a luglio e non sotto Natale come accadeva di solito, sono stati distribuiti 6.399 milioni (il grafico in pagica ne conta 6.312 perché non comprende la quota relativa agli Istituti speciali come la Normale e il Sant’Anna di Pisa o la Sissa di Trieste), pareggiando in pratica i conti con gli anni precedenti anche grazie all’inserimento di voci prima escluse come i finanziamenti per le borse di dottorato.
A differenza di altri settori del mondo pubblico italiano, insomma, l’università ha subito in questi anni una «spending review» effettiva, non solo per l’entità della stretta ma anche per le modalità con cui è stata effettuata.
A colpire i bilanci degli atenei non è stata infatti una sequela di tagli lineari, perché l’architettura del fondo ordinario è cambiata nel tempo grazie a due importanti evoluzioni, che vanno sotto l’etichetta di «finanziamento competitivo» e di «costi standard».
Il primo è il più “antico”, perché dopo il prologo pre-riforma è stato rilanciato dalla legge Gelmini e ora assorbe 1,35 miliardi, distribuiti in base ai risultati ottenuti da ogni ateneo nella didattica e nella ricerca. Ad affinare ulteriormente il meccanismo sono poi intervenuti i «costi standard», che dopo il debutto del 2014 valgono oggi 1,2 miliardi di euro, e dovrebbero in pochi anni orientare tutta la quota base del fondo ordinario mandando in soffitta i vecchi parametri della spesa storica.
La «meritocrazia» misurata dai risultati di didattica e ricerca e l’«efficienza» pesata dai costi standard, dunque, sembrano determinare (insieme alla contrazione delle risorse complessive) le buone notizie per alcuni atenei e le cattive per gli altri riassunte nei numeri della tabella qui a fianco. L’evoluzione dei sistemi di finanziamento va sicuramente in questa direzione, anche se per tradurre davvero in pratica le due parole d’ordine serve qualche importante passo in avanti. Nel «finanziamento competitivo», per esempio, la qualità della ricerca misurata dall’Anvur ha un peso determinante, perché assegna l’85% degli 1,35 miliardi di premi, ma è ferma al 2010 e attende di entrare a regime con aggiornamenti più rapidi (la seconda ondata di valutazioni è in fase di avvio). La didattica, invece, decide poco meno di 208 milioni, distribuiti esclusivamente sulla base della regolarità degli studenti (110,8 milioni) e sulla loro partecipazione ai programmi Erasmus (97 milioni): si tratta di un panorama di criteri piuttosto povero, in cui nonostante le previsioni di legge non è mai riuscita a entrare la voce degli studenti misurata per esempio dal loro successo occupazionale o dall’opinione dei laureandi sul corso che hanno seguito (criteri misurati invece dalle classifiche del Sole 24 Ore).
In ogni caso, i numeri dei bilanci parlano chiaro sugli effetti, e portano alla ribalta i problemi di un Mezzogiorno dove anche le tasse universitarie sono mediamente più basse, anche per contrastare una parte di emigrazione studentesca, e le regioni assetate di risorse tagliano spesso drasticamente i fondi per il diritto allo studio. Un cortocircuito finanziario che rischia di costare caro a tanti atenei del Sud.
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Gianni Trovati, Il Sole 24 Ore 27/7/2015