Fabrizio Caccia, Corriere della Sera 26/07/2015, 26 luglio 2015
IL COLLOQUIO LE PERPLESSITÀ DI CANTONE: «TANTI CRIMINALI SCOPERTI CON I REGISTRATORI NASCOSTI»
ROMA Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, vorrebbe tanto tenersi fuori dal putiferio che si è scatenato sull’ultimo emendamento alla legge di riforma delle intercettazioni — «non ho visto la norma», «non conosco il testo», premette con onestà — ma la sua esperienza di magistrato per quasi un decennio alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli lo spinge ugualmente ad alcune urgentissime riflessioni.
La prima è questa: «Molte volte la captazione nascosta di colloqui tra le persone ci è servita per individuare dei fatti gravi e colpire di conseguenza la criminalità organizzata. Ecco, vorrei che si tenesse conto di questo dato nella formulazione della futura norma...».
E già, perché l’emendamento incriminato (presentato dal deputato ncd Alessandro Pagano) recita così: «Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni». Carcere, dunque, per i «colloqui rubati». Ma il presidente dell’Anticorruzione, pur cauto, conosce benissimo l’argomento: «Il tema dei colloqui rubati impatta certamente sulla privacy delle persone ed anch’io trovo giusto che ci siano limiti alla divulgabilità delle intercettazioni. Ma...».
L’esperienza le suggerisce tutt’altro, non è vero? «Certo! Quante volte i soggetti, vittime di estorsioni, penso a tanti imprenditori, sono andati all’appuntamento coi loro aguzzini con un registratore nascosto, una trasmittente. È proprio grazie a quei colloqui rubati che è stato possibile inferire dei colpi seri alla criminalità organizzata. Ho capito: il registratore nascosto è uno strumento invasivo, può danneggiare immagini e reputazioni... Sì ma intanto l’estorsore è finito in cella».
Cantone ora è anche piuttosto scosso, perché giusto giovedì sera si trovava a Sessa Aurunca (Caserta) per una delle tappe del «Festival dell’impegno civile» promosso dal comitato «Don Diana» e dall’associazione «Libera». Era lì per ricordare la figura di Alberto Varone — un imprenditore che distribuiva giornali ucciso 24 anni fa dalla camorra per il suo rifiuto di pagare il pizzo — e sedeva al fianco di Antonio Picascia, titolare di un’azienda che produce detersivi (la Cleprin) e che proprio come Varone non si è mai voluto inchinare al racket. «Scarafaggi», così l’altra sera Picascia, coram populo , aveva ribattezzato i camorristi. Poche ore dopo la fine del convegno, però, la sua azienda è andata completamente distrutta dal fuoco. Incendio doloso, secondo i primi riscontri dei carabinieri. Mentre a Roma si discute, Cantone, la camorra rialza la testa.
«Per questo è necessario assolutamente che quest’episodio non passi inosservato. Sarebbe un grande regalo alla criminalità organizzata. Le mafie vivono di simboli e quella dell’altra sera è stata una prova di forza della camorra, un pugno in faccia dato ai cittadini e alle istituzioni. Un minimo di cautela è d’obbligo, ma se la matrice dolosa dell’incendio sarà confermata è inevitabile pensare che sia stata opera dei clan. E il messaggio ai cittadini è chiaro: noi siamo ancora qui, abbiamo subìto dei colpi letali ma ci stiamo riorganizzando, non crediate che non ci siamo più... Quel fuoco è stato una riaffermazione di potere».
Altro che il carcere per i colloqui rubati, dunque. Gli imprenditori come Picascia non vanno lasciati soli. Non è così?
«Guai se restasse isolato, per fortuna so di tanti imprenditori anche del Nord che gli hanno subito espresso grande solidarietà. Le istituzioni dovranno stargli vicino, altrimenti il messaggio sarà devastante: i cittadini penseranno “ecco il prezzo che si paga per denunciare”... Picascia è un uomo di grande coraggio. Lo conobbi già nel 2007 quando ero alla Dda di Napoli. All’epoca ci fece arrestare per tentata estorsione, con le sue denunce, due soggetti del clan Esposito: uno era un semplice manovale ma l’altro era un colletto bianco, un funzionario comunale di Sessa Aurunca che faceva da tramite con il clan. Fu un processo velocissimo e subito arrivarono le condanne».
E il colletto bianco oggi che fine ha fatto? «Credo sia uscito di prigione».