Stefano Montefiori, Corriere della Sera 25/7/2015, 25 luglio 2015
CONFESSIONI ARDANT
[Intervista a Fanny Ardant] –
AVIGNONE All’Opéra, cocktail dopo lo spettacolo nel Festival di Avignone. Fanny Ardant si abbassa per parlare nell’orecchio a Jean-Louis Trintignant, seduto in poltrona. Il caldo toglie il respiro ma l’attore 84enne è venuto comunque a vedere la Cassandra interpretata dall’amica e compagna in «Finalmente domenica!», che fu l’ultimo film di François Truffaut. Vestita completamente di nero — bellissima —, la Ardant sorride ai complimenti di Trintignant, poi cerca un angolo tranquillo per l’intervista. In «La signora della porta accanto» le cadeva la gonna durante la festa in giardino, e rientrava a cambiarsi con grazia sicura: impossibile non pensarci adesso quando, con la stessa nonchalance , si mette a quattro zampe per scavalcare in fretta un divanetto — «Venga!» — e torna in teatro, ora deserto, e si siede tra i velluti rossi del loggione. Mentre in basso gli operai smontano la scena, la diva Fanny Ardant scarica la tensione parlando — in francese, italiano e suoni da fumetto — con il Corriere.
Poco fa il pubblico non smetteva di applaudire, eppure il testo di Christa Wolf e la musica di Michael Jarrell non sono facili.
«È vero, specie l’inizio del monologo, in cui Cassandra esprime pensieri sparsi, come dei lampi, e la musica procede per colpi improvvisi, shinggg … Ma allo stesso tempo tutti conoscono Elena o Priamo, sono come zia Giovanna o zio Giuseppe (in italiano, ndr ), figure famigliari».
Che cosa l’ha spinta a recitare Cassandra?
«Ho sentito questa pièce tempo fa alla radio, mentre ero nella vasca da bagno. Non la conoscevo ma ho chiesto ai miei figli di ritrovare che cosa era andato in onda su France Musique quel tal giorno alle 11 e mezza… La guerra di Troia è raccontata dalla parte dei perdenti, e questo già mi piace, ma in realtà non ci sono davvero vincitori e vinti. Anche nella vita, a me piace pensare che non la si vince o la si perde, l’importante è vivere davvero. Non essere troppo trattenuti, gne gne gne . Sbagliare, redimersi. Bisogna fare, e perdonare».
Cassandra ripete spesso «no», e quelle battute lei le scandisce con soddisfazione.
«Il “no” mi è sempre venuto più facile. Il mio lusso è sempre stato scegliere, dire “sì” raramente, solo a ciò che mi convinceva. Una cosa può essere finita magari in un disastro, ma mentre la facevo ci credevo fino in fondo».
Quale disastro, per esempio?
«Tanto tempo fa, Pirandello, ”Come tu mi vuoi”. Un fiasco clamoroso. Ma davo tutto per quelle tre persone in platea. Avessi scelto per calcolo, avrei detto maledizione. Ma invece tutto sommato non mi importava. Mentre recitavo ero felice, nessuno poteva togliermelo».
E quale è stato invece il trionfo più grande?
«Non so dirlo, per niente. Ci si ricorda sempre di più degli amori traditi, di quel che non ha funzionato. Il trionfo per me, a teatro, è quando incontro una persona che mi dice ”sa, dieci anni fa, l’ho vista in quello spettacolo”, e allora tutto ritorna alla mente, trrrrrrr come un nastro che si riavvolge. Allora ci si ricorda di tutto, anche della paura. Per vincerla recito sempre per una persona, come un alter ego da convincere».
Chi era quella persona stasera?
«Quelli che ho amato e che non ci sono più. Mentre salivo sul palco e guardavo il pubblico era come se mi dicessero ”forza bella mia, buttati!”. Il teatro è una cosa violenta, come il mare che arriva, whosshhhhh , devi lasciarti andare».
Il cinema è più facile?
«Diciamo che c’è la rete di protezione, ma io ho cominciato con il teatro e non penso mai di potere rifare una scena. Al cinema c’è però il problema del produttore che dice “niente…”».
Come niente?
«Niente incassi. Mi hanno chiamato “il veleno del box office”, oppure “la strega” perché ho sempre fatto solo i film che amavo ma pochi hanno funzionato davvero».
Anche «La signora della porta accanto?»
«Quando è uscito non è andato poi così bene. Però mi ricordo il giorno in cui François, cioè François Truffaut, mi ha mandato il riassunto della sceneggiatura. Mi sono sdraiata sul letto, e quando ho finito di leggere camminavo mezzo metro sopra terra, a quei tempi abitavo con mio zio e gli ho detto ”vieni, usciamo, andiamo a bere”, e lui ”ma sei pazza, sono le quattro del pomeriggio” ma io ero fuori di me, avevo capito che era un grande film, c’era tutto quello in cui credevo nella vita, che si può morire per amore. Abbiamo girato in sei settimane, velocissimi, frrrrrrr , con François che scriveva i dialoghi di notte. Voleva raccontare la speranza, il dolore, l’illusione, dietro a un fatto di cronaca».
E il cinema italiano, che cosa le ha dato?
«Ho lavorato con registi straordinari, come Ettore Scola. Adoro questo atteggiamento italiano, essere dei grandi ma l ’air de rien , come se niente fosse. In Italia sul set c’è una gran confusione ma al momento del ciak tutti sanno che cosa devono fare. Mi sono sempre sentita a mio agio: trovare concentrazione nel casino e nella apparente noncuranza piuttosto che nel darsi importanza. E poi c’era Vittorio Gassman. Malinconico e collerico, come me».
Andavate d’accordo?
«Moltissimo. Sul set era nervoso, mi diceva ”ma tu le sai le battute, sì?”, con quell’aria come dire ”non staremo mica qui a perder tempo con questa disgraziata di attrice francese”, ma era un timido, sotto l’aria da condottiero. Quando facevo teatro a Parigi, anni dopo, lui veniva a vedermi e poi mi portava al ristorante. Temevo il suo giudizio. Prendevamo il primo, il secondo, e arrivati al dolce arrivava il bello: ”Bon, adesso parliamo”. E ripercorreva tutta la pièce, aveva notato tutto».
Lei ha studiato scienze politiche e poi è finita a fare l’attrice, come mai?
«I miei genitori all’inizio non volevano che facessi l’attrice».
Anche in questo quindi ha detto «no»?
«No, non veramente. I miei genitori mi amavano moltissimo e io amavo moltissimo loro. Erano preoccupati che finissi su una strada, come ogni genitore responsabile. Allora ho studiato Sciences Po, in fretta, per prendere un diploma e tranquillizzarli».
È a loro che pensava, stasera sul palco?
«Sì. Sono morti giovani. Della mia vita non rimpiango nulla. Mi dispiace solo non avere fatto in tempo a mostrare loro che, alla fine, sono riuscita a fare quel che volevo. Sarebbero stati felici».