Tommaso Labate, Corriere della Sera 25/7/2015, 25 luglio 2015
I FUORIUSCITI
«Vuole sapere se ho pianto? No, non l’ho fatto. Né durante la mia ultima sera nel Pd e nemmeno al risveglio, l’indomani, la prima mattinata della mia nuova esistenza al di fuori di quella comunità». Anzi, «se devo essere onesto, la cosa principale di questa mia nuova vita è che mi sento liberato. Prima c’era stato il colpo del Jobs act . Poi, con la riforma della scuola, s’è consumato quello che si doveva consumare. Non ce la facevo più. La vita nel Partito democratico di Renzi mi rattristava. E se devo dirla tutta, mi aveva anche un po’ incattivito».
Per quanto il tono della voce non lasci trasparire neanche un accenno di allegria, oggi Stefano Fassina si dice «felice». Come può essere felice chi riacquista una sua «libertà» anche pagando il prezzo, e questo l’ex viceministro lo rimarca, «di non frequentare più compagni e amici con cui ho condiviso lo stesso percorso per tanti anni». Fassina — come la decina e passa di parlamentari che seguiranno Denis Verdini lontano dalla real casa berlusconiana, come i seguaci di Raffaele Fitto, come gli espulsi o i dimessi dei Cinquestelle, come gli ex vendoliani oggi nel Pd e anche come qualche bossiano che ha lasciato la nuova Lega di Matteo Salvini — alimenta quell’esercito di transfughi antico quasi quanto la storia dei partiti.
A differenza di chi resta, che di solito ha lo sguardo rivolto in avanti, chi se ne va vive anche di quello che s’è lasciato alle spalle. E non è soltanto una questione di potere, come quella che Verdini ha opposto a Berlusconi rinfacciandogli che «io, ormai, dentro Forza Italia non contavo più un ca..o». Nella vita del transfuga tutto è diverso da com’era. «Certe mattine — racconta Pippo Civati — accendo il computer e vedo su Facebook qualche commento acido o antipatico nei miei confronti, scritto magari da una persona che stimo o a cui voglio bene. L’istinto è sempre lo stesso, alzare il telefono e comporre il numero di questa persona per chiedergli spiegazioni. Poi però mi ricordo che io non sto più dentro il Pd e quello magari sì. E allora mi fermo».
Poco importa quanto tempo sia passato dall’ultimo trasloco. Alle volte pensi di svegliarti nel vecchio letto anche se nella casa nuova ci stai da tanto tempo. Altre, invece, la saudade — come i portoghesi chiamano la nostalgia della propria terra — incrocia le lame con la realtà fino a riuscire a sopraffarla. «Quando alla fine del 2013 ho lasciato Forza Italia per seguire Alfano — dice l’ex ministro Nunzia de Girolamo, che dentro Forza Italia c’era cresciuta fin dagli esordi nel movimento giovanile — ho sofferto tantissimo. E questo nonostante io abbia conservato un bellissimo rapporto col presidente Berlusconi, che non si è mai interrotto. Poco tempo fa, su una spiaggia, mi ferma un signore per farmi i complimenti per un’ospitata in televisione, mi dice di essere un elettore di Forza Italia e mi chiede di salutargli Berlusconi. Potevo dirgli che me n’ero andata col Nuovo centrodestra da tempo. Ma non l’ho fatto. Gli ho risposto “sì, certo, appena torno a Roma glielo saluto”. Ho fatto finta di stare ancora dov’ero prima, insomma».
Uscire da Forza Italia, infatti, è sempre una storia a sé. Perché si abbandona una casa grande di cui è impossibile diventare il capofamiglia (perché c’è sempre Berlusconi) per trasferirsi in una nettamente più piccola, magari coi galloni del leader indossati in partenza. Prima ancora che capitasse a Verdini, questa sorte era toccata sia ad Angelino Alfano sia, poche settimane fa, a Raffaele Fitto. Entrambi, seppur con mille differenze, sono stati delfini del capo. Entrambi, alla fine, hanno scelto la scissione. Ed entrambi, nella loro diversa traversata nel deserto, hanno sperimentato quanto si possa guadagnare, in termini di qualità della vita, dal non ricevere certe eccentriche telefonate da Arcore. Al ministro dell’Interno, dopo certe ospitate nei talk show, Berlusconi diceva sempre che «in tv sei davvero molto bravo ma quella calvizie ti penalizza, devi assolutamente rimediare, magari con un piccolo trapianto». Quanto all’eurodeputato, difficile che abbia dimenticato la volta in cui — correva l’anno 2010 — l’ex premier lo chiamò per chiedergli conto del candidato che aveva scelto come sfidante di Nichi Vendola alle Regionali pugliesi. «Raffaele, vedo che vuoi puntare su Rocco Palese. Una cortesia, mi dici prima chi è Rocco Palese?».
La parte più dolorosa, nella «vita del transfuga», è sempre quella che rimanda ai vecchi compagni d’avventura che non si incontrano più come prima. Incontri quotidiani che si trasformano in telefonate frequenti, telefonate frequenti che si diradano nel tempo fino a commutarsi in qualche messaggino per le feste comandate, al massimo per i compleanni. «Nel Pd, quelli che come me venivano dal Pci-Pds-Ds sono stati più uniti rispetto a quelli che venivano dalla Dc e poi dalla Margherita o dal Partito popolare. Per questo, forse, non incontrare più certi vecchi compagni fa ancora più male», scandisce Fassina. Civati si abbandona alla malinconia. «A me manca molto un signore che si chiama Fausto Perego, che è stato anche vicesindaco di Arcore. È uno a cui politicamente devo molto. E non lo posso chiamare più perché so che da quando sono andato via dal Pd è molto arrabbiato con me...».
Anche dietro le scissioni più dolorose, però, ci sono rapporti umani che si salvano. Maurizio Bianconi, ex tesoriere del Pdl, oggi scissionista con Fitto, è uno che di solito non le manda a dire. «Non ci crederà — dice — ma i rapporti umani a cui tenevo li ho salvati tutti. Sono amico di Verdini e anche di Mariarosaria Rossi. Con gli intelligenti i rapporti si salvano. Sono i deficienti quelli con cui è impossibile andare avanti». Ma se il pensarsi è bello, il vedersi a volte diventa difficile. Anche per una scelta politica. «Lo so anche io — dice Bianconi — che una pizza con Denis o Mariarosaria ogni tanto la si potrebbe organizzare pure, magari per ricordare i vecchi tempi. Solo che, purtroppo, sono contrario ai reducismi. Sono sempre stato contrario».
A volte, l’addio a un partito può provocare un prezzo umano altissimo. Senza tornare troppo indietro nel tempo, nel 1995 la deputata toscana di Rifondazione comunista Marida Bolognesi, annunciando il sostegno al governo Dini che sanciva l’addio al suo partito, scoppiò in un pianto rimasto nella storia del Palazzo. Dodici anni dopo, Fabio Mussi salutò i Ds dopo che Massimo D’Alema, suo amico antico, gli aveva ricordato in un congresso nazionale «la volta che mi portasti su una collina sopra Pisa, e mi dicesti che aspettavate una bambina». La storia di Sergio De Gregorio, che nel 2006 abbandonò la maggioranza prodiana per la minoranza berlusconiana, è diversa da tutte le altre. E non solo perché una sentenza di primo grado del Tribunale di Napoli l’ha catalogata alla voce «compravendita di senatori». Quanto per la fine, drammatica. «Per le conseguenze di quella scelta — disse il diretto interessato tempo fa — ho perso tutto. Adesso vivo in un monolocale sulla Cassia, anche mia moglie mi ha lasciato». Resta il destino, simile a quello di tanti altri transfughi. Di tutti quelli che, come nella canzone di Ivano Fossati, «di nuovo cambio casa, di nuovo cambiano le cose».