Roberto Toscano, La Stampa 26/7/2015, 26 luglio 2015
IN AFRICA L’OBAMA PIÙ VERO
Il Kenya ha festeggiato l’arrivo del Presidente Obama con tutto il gioioso orgoglio di chi vede uno dei propri figli raggiungere il massimo vertice del potere mondiale. Una forzatura, se vogliamo, dato che Barack Obama è solo biologicamente, e solo a metà, figlio dell’Africa, ed è invece profondamente americano, fra l’altro essendo stato cresciuto da una madre e da due nonni bianchi. E’ però una forzatura su cui non dovremmo ironizzare se teniamo presente l’umiliazione della miseria e dell’emarginazione che costituiscono per i popoli del continente una antica e dolorosa realtà.
E Obama? Perché va in Africa, e perché ci va ora?
In un certo senso questa visita sembra essere un altro segnale del fatto che Obama il centrista, Obama il prudente, Obama che voleva essere «il Presidente di tutti» (bianchi neri, conservatori e progressisti), sta vivendo quest’ultima fase del suo doppio mandato presidenziale come un’occasione per liberarsi da quelle remore che hanno deluso chi sperava una sua presidenza di più alto, anche se inevitabilmente più controverso, profilo.
Obama va in Africa ora perché pensa di poter finalmente smettere di preoccuparsi di apparire troppo «nero». La stessa ragione gli ha dato la spinta per pronunciare il forte discorso di Charleston quando, nel commemorare il pastore nero e i fedeli trucidati da un razzista bianco, ha parlato con i contenuti e con i toni di un afro-americano.
Poi ha persino cantato «Amazing grace», uno degli inni che più esprimono la fede e la speranza di riscatto dei neri americani.
In un certo senso Obama sta ora confermando che il progressismo che tanti entusiasmi aveva suscitato nel momento della sua prima campagna presidenziale non era falso, ma soltanto inibito da una miscela di autentica indole centrista e di quella dose di opportunismo di cui pochi politici - a parte quelli che hanno la vocazione della nobile sconfitta - possono fare a meno.
E’ vero nella politica estera, come dimostra il coraggio dimostrato con l’avvio della normalizzazione con Cuba e il raggiungimento dell’accordo nucleare con l’Iran. Cuba e l’Iran: le due principali «bestie nere» del conservatorismo americano, e fino ad oggi temi su cui anche i progressisti americani esitavano a pronunciarsi.
Ma questo «coming out» progressista di Obama è evidente anche in politica interna, dove non si dovrebbe sottovalutare il coraggio dimostrato negli ultimi giorni con la sua visita a un carcere (la prima mai effettuata da un Presidente americano) e soprattutto con il discorso, durissimo e tutt’altro che centrista, contro l’anomalia di un tasso di carcerazione fra i più alti, se non il più alto del mondo, contro le lunghissime pene di reclusione per reati non violenti e contro la barbarie della prassi sistematica dell’isolamento carcerario.
Sarebbe però un errore limitare il senso del viaggio di Obama in Africa inquadrandolo in questo «sprint» finale di un Presidente che prima di lasciare l’incarico vuole riaffermare la propria più autentica identità politica. Un’identità troppo a lungo sacrificata sull’altare di un realismo che troppo spesso, soprattutto in presenza di un’opposizione ideologicamente estremista, non aveva finora prodotto grandi risultati, fatta eccezione per la riforma sanitaria.
Con il suo viaggio in Africa Obama sta dimostrando di essere consapevole dell’importanza oggettiva di un continente finora troppo marginale nel contesto della politica estera dell’America, e non solo dell’America. Ormai sono tanti, e macroscopici, i dati reali che fanno comprendere come il prezzo di ignorare la realtà africana sia arrivato a livelli estremamente preoccupanti. Per il terrorismo, certo, dato che ormai il radicalismo jihadista sia di Al Qaeda sia dello Stato islamico è arrivato ad ispirare, in modo crescente anche stabilendo contatti operativi, guerriglie e terroristi non solo nordafricani, ma anche dell’Africa sub-sahariana, dalla Nigeria di Boko Haram alla Somalia degli Shabaab. Al riguardo è significativo che il viaggio di Obama in Africa tocchi anche l’Etiopia, Paese che solleva più di un dubbio in materia di democrazia e stato di diritto ma che schiera le proprie forze armate a contenimento del radicalismo islamista somalo, lo stesso che ha insanguinato il Kenya con operazioni terroriste trans-frontaliere.
Ma non si tratta solo di terrorismo. La fragilità politica dei Paesi del continente africano si combina con uno straordinario potenziale economico. Si tratta di un potenziale che non è sfuggito alla Cina, sempre più presente in Africa con investimenti e con propria manodopera alla ricerca di materie prime sia agricole sia minerarie e con una capillare attività nel campo della costruzione di infrastrutture. I cinesi si sono resi conto che l’Africa non si può ridurre a un «cuore di tenebra» da evitare per quanto possibile o da isolare come fonte di minacce, da Boko Haram all’ebola, ma che il continente costituisce invece una straordinaria fonte di opportunità economiche. La sfida con la Cina si giocherà in modo crescente in Africa: dietro il viaggio di Obama c’è anche questa consapevolezza.
Come dicono gli americani, «stay tuned», restate collegati. Non è escluso che nei prossimi mesi Barack Obama ci riservi altre sorprese.
Roberto Toscano, La Stampa 26/7/2015