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 2015  luglio 26 Domenica calendario

BELLEZZA DELLA DISTANZA

L’imperativo sembra oggi essere quello di far scendere l’eroe dal piedistallo e avvicinarlo a noi. Ma davvero funziona?
Ho presentato, giorni fa, il libro di un mio collega scrittore. Mi capita raramente perché non ne sono tanto capace. Bisogna raccontare il libro senza raccontarlo, saper parlar d’altro ma di un altro che sia in tema, essere brillanti ma dimessi, parlare poco ma non pochissimo. Insomma, presentare un libro è un’arte. Che non credo di possedere.
Comunque la parte che mi piace è alla fine, quando la presentazione vera e propria è terminata e il pubblico si avvicina all’autore per farsi firmare il libro. Lì mi piace mettermi da una parte e osservare. Ultimamente, soprattutto se l’autore è molto popolare, succede una cosa strana: che i lettori non si limitano a porgere il libro per avere la dedica autografata, ma vogliono anche fare la foto.
La foto con l’autore. La foto abbracciati all’autore. Cellulare per aria e un lieve touch.
Questo mi diverte molto. Mi muove ad alcune considerazioni, di cui la prima è questa: perché abbracciati? Sono due sconosciuti, l’autore e il suo lettore. Si vedono lì per la prima volta, e solo per quell’attimo brevissimo in cui il lettore porge il libro, dice il suo nome, e lo scrittore firma. Eppure poi si alzano e si abbracciano. Cioè il lettore passa un braccio intorno al collo o alla vita dell’autore, e l’autore fa lo stesso. Ed entrambi sorridono. Sorridono moltissimo, in genere. Smodatamente.
Perché?
Forse il lettore oggi è un fan (soprattutto il lettore di certi autori, molto popolari, che magari siano anche personaggi televisivi). E il fan oggi vuole avere una foto con la star che ama, per mandarla in giro agli amici. Infatti, il secondo gesto che si fa dopo la foto con l’autore è di inviarla. Condividerla. C’è un messaggio implicito, nel gesto, che non è solo: guarda, amico mio, sono stato alla presentazione di questo libro; ma è soprattutto: guarda, amico mio, quanta familiarità c’è fra me e questo autore. Come dire: siamo veramente amici, ci vediamo spesso, c’è molta confidenza tra di noi, tant’è che ci abbracciamo.
Annullare la distanza. Credo sia una specie di scopo inconscio, ma potente. Nessuno tollera più che ci sia distanza con qualcun altro. Soprattutto, nessuno tollera che qualcuno sia più in alto, cioè sia percepito come su un piedistallo.
Forse il gioco è proprio questo: far scendere tutti (dal podio, o piedistallo, o Olimpo che sia, anche una lieve collinetta, un niente che segni però un dislivello). Stare tutti in piano, abbracciati, sorridenti.
C’è qualcuno che per andare da Milano a Palermo non prende l’aereo: arriva in treno fino a Genova, va al porto, fa la coda per l’imbarco e alle nove di sera parte in traghetto per arrivare alle diciotto del giorno dopo. Ventun ore di navigazione, dormire sotto le stelle, guardare il mare tutto il giorno.
Perfetto! Viaggiare è percorrere una distanza. Non è certo arrivare.
C’è anche di peggio. Giorni fa mi trovavo a camminare nel carrugio di un paesino ligure di mare, ed ecco che vedo una giovane donna con un asino al guinzaglio, se così si può dire. Un asino carico di bagagli, come un asino. Un’anziana signora le si accosta e le chiede: Scusi, dove va? In Puglia. Risponde così, come se niente fosse. Questa ragazza arriva dalla Francia del sud e sta andando in Puglia, a piedi, con un asino portabagagli.
Ho due considerazioni. Una riguarda la letteratura e quindi non c’entra col nostro discorso: nulla si crea, nulla s’inventa dal nulla (sembra quasi la legge di Lavoisier...): ovvero, tutto quel che si crea è già accaduto davvero da qualche parte. La seconda considerazione invece è in tema e riguarda la distanza: questa giovane donna ha ancora un’idea ben precisa di che cosa sia una distanza. Un’idea concreta, fisica. O meglio, vuole avere un’idea di distanza, e ha deciso di farsene un’idea fisica.
In questo senso, è l’esatto contrario del Papa che, per abolire ogni distanza, sceglie la massima fisicità possibile, il contatto.
Prendiamo Lucrezio, il famoso inizio del secondo libro del De rerum natura: «Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem». «È bello, quando i venti turbano le acque sul vasto mare, guardare la fatica di un altro dalla terra».
Prendere le distanze. Guardare da lontano, al sicuro, possibilmente inattivi. Prendersi il lusso di contemplare.
La distanza dell’artista dal mondo. La posizione del poeta che guarda gli altri: sempre leggermente dall’alto? Non so. Non credo sia un sentimento di superiorità, ma semplicemente il tentativo di avere la massima visuale possibile. E quindi distanza. Mettersi appositamente altrove, scostarsi, per vedere meglio. Non far parte, non partecipare. Meno che mai “condividere”.
Per questo forse mi fa specie un poeta (o scrittore, o artista più in generale) che chatta o twitta. Per carità, faccia quel che gli pare. Ma mi sembra leggermente contronatura.
La catarsi è la stessa cosa, in fondo. Quando a scuola spiego la tragedia greca, mi ci soffermo a lungo. Catarsi è purgazione. Detto un po’ semplicisticamente, guardando sulla scena un re che muore ci si purga dalla paura che la morte tocchi solo a noi. Ci si libera, un po’. Si prova un certo sollievo. Per prima cosa siamo contenti di non essere noi a morire in quel momento, bensì il re; lo dice bene Lucrezio, se continuiamo: guardare da lontano i tormenti che qualcuno patisce non vuol dire prendere piacere delle altrui sventure, ma concedersi la dolcezza di vedere da quali mali tu sei (per il momento!) esente. Seconda cosa, assistendo a una tragedia, abbiamo la prova che la morte riguarda tutti, persino i re.
Ma che cos’è esattamente che ci rilassa e ci regala questo senso di liberazione? La distanza, appunto. Il fatto che il re muoia, ma nella finzione della scena. Nel teatro c’è addirittura una doppia distanza: quella fisica tra il pubblico in platea e l’attore in scena; e quella simbolica, dovuta alla finzione, per cui nessuno muore per davvero sul palco.
Per questo il teatro greco è da una parte abissalmente diverso da un telegiornale (dove si filma la realtà tale e quale, per esempio una scena di guerra o un omicidio per strada, avvenuto realmente); ma è dall’altra parte terribilmente simile a un telegiornale: perché anche lì si è spettatori, si guarda a distanza una scena di guerra comodamente seduti nel salotto di casa propria (Antonio Scurati docet). Il mezzo, in questo caso, allontana la realtà, la rende quasi uguale alla finzione, così che per colui che assiste (spettatore in ogni caso, spectator, “colui che guarda”) il sentimento catartico alla fin fine è lo stesso, sia che il morto sia reale sia che si tratti di un attore.
Accettiamo benissimo la catarsi della tragedia greca.
Ma dovremmo accettare malissimo la simil-catarsi dei servizi televisivi, peggio che mai dei reality (finzione che vuol sembrare vera, e ci riesce, ahimè): lì non è distanza artistica, è voyeurismo.
Scrivere è sempre mettere distanza.
Paola Mastrocola, Il Sole 24 Ore 26/7/2015