Paolo Nencini e Annalisa Pizzinga, Il Sole 24 Ore 26/7/2015, 26 luglio 2015
NEL REGNO NON SI SPACCIA
La proposta di 218 parlamentari per un diverso assetto legislativo della cannabis ha suscitato una grandinata di dichiarazioni di politici e di valutazioni degli esperti. Per il cittadino non è facile orientarsi di fronte a tanto inconciliabili posizioni. Può forse aiutarlo ricostruire la storia della legislazione che ha proibito la cannabis in Italia, mostrando che non è nata per arginare un abuso, e che quando l’abuso è arrivato la legge che lo proibiva poco ha potuto.
La chiave è racchiusa in un fascicolo della Direzione Generale della Sanità Pubblica del Ministero degli Interni, conservato all’Archivio di Stato. Tutto iniziò con la risposta della Direzione al console greco, in data 21 giugno 1906, se in Italia la cannabis potesse essere importata e venduta: la cannabis e i suoi derivati «debbono essere considerati sostanze medicamentose, dotate, per la loro azione fisiologica, di proprietà venefiche», pertanto in base alle leggi vigenti debbono essere vendute in dose e forma di medicinale dai farmacisti, «che devono conservarle in appositi armadi». Il problema era gestire il complicato caso che vedeva il porto di Brindisi tramite del contrabbando di hashish tra la Grecia, paese produttore, e l’Egitto, paese consumatore ma rigidamente proibizionista. Nella nota riservata del novembre 1908 inviata dal Direttore Generale della Pubblica Sicurezza al suo omologo della Sanità Pubblica si illustrano le doglianze della autorità anglo-egiziane per il contrabbando di hashish ad opera di marinai italiani imbarcati sui piroscafi Isis e Osiris della Peninsular and Oriental Company, la compagnia di navigazione inglese che faceva rotta tra il porto di Brindisi e l’Egitto. Le verifiche svolte dal Prefetto di Lecce avevano acclarato «che effettivamente Brindisi è il centro più importante del commercio dell’hascisc e poiché questo producesi in Grecia, e Brindisi è non solo il porto più vicino alla Grecia, ma altresì quello dal quale parte il maggior numero di piroscafi per Alessandria d’Egitto. Dell’importazione dalla Grecia dell’hascisc si occupa largamente in Brindisi con lauti guadagni la Ditta Valaori Ercole, suddito turco, e ve ne interessa pure il suddito greco Prasso Dimitri, da tempo residente nel Regno…Da Brindisi l’importazione per Alessandria d’Egitto è fatta per mezzo del basso personale di bordo dei piroscafi diretti a quella volta, senza distinzione fra legni appartenenti a Società di Navigazione italiana e straniere». Nella nota ci si chiedeva di possibili conseguenze sulla salute pubblica, ancorché «quanto fin qui risulta il consumo dell’hascisc…non ha fortunatamente alcuna diffusione nel Regno».
Gli eventi si complicavano nel maggio successivo, quando l’agente della Peninsular a Brindisi scriveva ad un non meglio precisato «Mio caro Onorevole» (da identificarsi in Pietro Chimienti il cui collegio era appunto quello di Brindisi ) che, riguardo all’affare dell’hashish, «la cosa si è d’un colpo fatta molto seria». L’agente spiegava che le loro navi Isis e Osiris, in servizio tra Brindisi e l’Egitto, ogni tre mesi andavano nel bacino galleggiante della Compagnia del Canale di Suez a Port-Said per pulire la carena. Ebbene, «il piroscafo Isis fu pulito pochi giorni or sono, ed al suo arrivo ieri, il Comandante m’informò che a lavoro finito, e quindi il battello aveva già abbandonato il Dock, la Dogana Egiziana, visitando il Bacino, trovò 94 pezzi di Haschisch pari a circa 270 libbre…Con questa scoperta la Compagnia del canale si è trovata in una posizione di parecchio imbarazzante e difficile colla Dogana Egiziana». L’onorevole Chimienti, in un intervento alla Camera, denunciava la situazione «che interessa l’igiene e il buon nome del nostro paese», aggiungendo che la diversione attraverso Brindisi era causata dal trattato bilaterale che impediva l’esportazione della cannabis dalla Grecia all’Egitto. La proposta del Chimienti era di «proibirla per misura sanitaria, ovvero modificare al riguardo il repertorio doganale, rimandandola, cioè, sotto la voce: tabacco».
Il 19 agosto 1909 il ministro degli esteri Tittoni scriveva allarmato al Presidente del Consiglio Giolitti, sottolineando il grave pericolo insito nella minaccia della compagnia di evitare lo scalo di Brindisi. Nella missiva troviamo, forse, la prima specifica proposta di legislazione proibizionista: «ti prego di voler considerare se non sia il caso – e richiamo tutto il tuo interessamento su questa grave questione – di presentare al Parlamento un progetto di legge che vieti, perché pernicioso alla salute pubblica, il commercio dell’hashish». Giolitti sapeva che non era applicabile all’hashish un divieto di importazione in quanto medicamento, ma vedeva applicabile ai suoi contrabbandieri il disposto dell’rt. 90 della legge di Pubblica Sicurezza, permettendone quindi l’espulsione. Per motivare il pericolo per l’ordine pubblico, Giolitti attingeva alle informazioni ricevute dal Chimienti, secondo il quale il proseguimento del contrabbando avrebbe indotto la Peninsular a sostituire gli equipaggi italiani con quelli indiani, provocando disoccupazione e perdita di 250mila lire annue di salari: abbastanza per istigare disordini. Giolitti non tralasciava «la giusta apprensione causata dalla continua presenza in Italia, in così rilevanti quantità del velenoso narcotico».
La conseguenza fu l’espulsione dal Regno dei due commercianti in oggetto, ma di questo, sorprendentemente, il Chimienti si doleva in una sua missiva a Giolitti nella quale rilevava l’illegittimità dell’atto. Avvertendo che l’hashish cominciava ad essere fumato a Brindisi, il Chimienti sollecitava un radicale provvedimento di proibizione di importazione in Italia del «pericolosissimo veleno» [sottolineato] in quanto nocivo alla salute. Iniziava un contenzioso legale con sospensione del provvedimento e ritorno del Valaori a Brindisi. Intanto per disposizione del Ministero della Finanze il «prodotto Haschisch» che prima era ammesso alla libera importazione nel regno sotto la voce «Medicamenti composti non nominati» era assimilato al «sugo di tabacco» del quale «la libera importazione è proibita…» Così la soluzione fu di carattere merceologico e consisté nell’omologazione dell’hashish ad un potentissimo tossico, quale il succo di tabacco.
La cannabis acquisiva una sua speciale legislazione non perché il suo consumo si fosse diffuso in maniera pericolosa, ma perché si voleva evitare che alcuni porti fossero luoghi di transito della sostanza. Si spiega così perché il controllo sulla cannabis fosse tra le proposte contenute nelle istruzioni che il Ministero degli esteri invia all’ambasciatore a Washington, in preparazione della Conferenza dell’Aia del 1912. «Questo Ministero desidera ancora che la prossima conferenza internazionale abbia ad occuparsi… anche del traffico della canapa indiana e dell’Hatschisch. […] Il nostro paese ha un interesse speciale a che la questione dell’hatschisch sia definita in via internazionale, non perché l’Italia sia paese produttore o consumatore di quella sostanza, ma perché poco scrupolosi speculatori nazionali ed esteri hanno scelto il territorio italiano come luogo di deposito e di concentrazione dell’hatschish per poi fare la riesportazione in contrabbando nei paesi ove il traffico di detta sostanza è vietato». L’Italia trovò il solo sostegno degli Stati Uniti e pertanto il punto non fu discusso, sebbene si ritenesse utile un approfondimento scientifico del problema.
Nel 1923, la cannabis e i suoi derivati furono inclusi tra le sostanze controllate dalla prima legge italiana sugli stupefacenti e ancora nel 1938 si può leggere negli Annali di Igiene che «La sanità fondamentale del popolo italiano viene dimostrata dal fatto che, sebbene in Italia la canapa venga largamente coltivata, mai è sorto il problema dell’uso di essa come sostanza voluttuaria. Invece nell’America settentrionale, nell’Africa meridionale e nell’Oriente questo vizio preoccupa vivamente». Tuttavia, né la pretesa «sanità fondamentale» né la legge proteggerà il popolo italiano dalla cannabis quando trent’anni dopo gli spinelli cominceranno a circolare. Lo spirito del tempo era mutato e da allora – parliamo di quasi mezzo secolo fa – la cannabis è considerata da una fetta consistente della società uno strumento ricreativo di scarso peso tossicologico. Non è male che si cominci a prenderne atto.
Paolo Nencini e Annalisa Pizzinga, Il Sole 24 Ore 26/7/2015
– Sapienza Università di Roma