Maria Bettetini, Il Sole 24 Ore 26/7/2015, 26 luglio 2015
I VOLTI DI EROS LUNGO MILLE ANNI
Desiderium non era una brutta parola nel Medioevo. Indicava sì il torbido attaccamento alla carne, quella «concupiscenza» che spesso era vista come fondamento di ogni peccato. Si leggeva infatti a volte la caduta originale come una sorta di cedimento all’attrazione sessuale, dimenticando quel desiderio di «essere come Dio» di Adamo ed Eva, plausibilmente la prima fra tutte le tentazioni, quel porre se stessi come legislatori e giudici di sé e del mondo, decidere cosa è bene e cosa è male, alla faccia di qualsivoglia prelazione divina. Il Medioevo comunque non si fa mancare né l’uno né l’altro significato di desiderio, per la carne e per credersi un dio, e va molto oltre, raccogliendo tante sfumature, nei mille anni in cui per comodità si racchiude l’Era di Mezzo. Un recente volume a cura di Alessandro Palazzo presenta alcune di queste varietà del desiderare. La prima è quella che riguarda la fame di verità, l’ultima il desiderio di fama, elegantemente presentato nelle opere di quei vanesi di Dante, Boccaccio e Petrarca. Se Boccaccio loda Dante nella biografia a lui dedicata, Dante presenta nel Purgatorio Stazio, che rende legittima la brama di alloro, e Petrarca si incorona da solo, citando il ciceroniano encomio di Archia, guardandosi bene dai riferimenti alla Commedia, che in quel contesto avrebbero dovuto sorgere spontanei.
Tornando però alle radici del desiderio nei tempi medioevali, occorre ricordare le due tradizioni che si intrecciano in un Occidente che va dal Vicino Oriente alle colonne d’Ercole. Una è quella platonica, con l’epithymia, lo slancio verso il Bello, che è il mostrarsi del Bene, la corsa di Eros sempre mancante di tutto, sempre capace di raggiungere tutto, l’impeto corretto del desiderare. La tradizione aristotelica, invece, si appoggia sulla tensione al fine, che spinge l’intelletto a scegliere l’azione ritenuta migliore per il suo raggiungimento.
Nel tredicesimo secolo Tommaso d’Aquino riprende tale tensione nel definire la concupiscentia non come una caduta, una deviazione, ma come un desiderio «naturale», in sé ne buono né cattivo, come tale connotato solo in base a ciò che è desiderato. Se l’oggetto sono i beni spirituali, si avrà il desiderio, sarà invece cupiditas la brama di piaceri sensibili oltre il necessario. È come se nel Medioevo queste due accezioni si fossero sempre rincorse, sostenute dai testi biblici. Il desiderio di beni spirituali, infatti, in Agostino si connota come il tormento dell’uomo desiderante, che vorrebbe raggiungere la pace dell’anima, il riposo in Dio, ma che in questa vita si trova a compiere più volte il cammino del figliol prodigo. In un moto dello spirito tutto neoplatonico, il “cuore” dell’uomo esce da sé, sbagliando oggetti del desiderio; quando se ne accorge, si volge indietro, rientra in se stesso e lì ritrova la pace della casa del Padre. «Uomo dei desideri» è in verità una locuzione biblica con connotazione molto positiva, così viene chiamato il profeta Daniele dopo essere scampato ai leoni cui lo aveva gettato Dario. E uomo dei desideri sarà anche per Bonaventura da Bagnoregio colui che non smette mai di desiderare, fino a pervenire alla beatitudine eterna. Diverse altre sono le forme del desiderio nel Medioevo, da quello della materia che anela alla forma (Meister Eckhart) a quello degli animali, ritenuti inconsapevoli del loro stesso desiderare, dal desiderio di filosofia intesa come vita buona (Abelardo) a quello per la verità logica. Il desiderio poi che si sappia unire alle intelligenze celesti è dotato di tale potenza da arrivare ad agire anche sui corpi estranei, non solo sul proprio. Questa è la «magia naturale» di Cornelio Agrippa di Nettesheim, lo stesso sostenitore della superiorità delle donne sugli uomini. Siamo già fuori dal Medioevo, nel sedicesimo secolo, e anche parecchio fuori dal corso della storia.
Maria Bettetini, Il Sole 24 Ore 26/7/2015