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 2015  luglio 25 Sabato calendario

PHILIP, L’IRONIA E L’EROS TRASFORMATI NEL «GRANDE ROMANZO AMERICANO»

Potenza dell’introflessione. «La mia ipotesi è che tu abbia scritto così tante metamorfosi di te stesso da non sapere più né chi sei né chi sei mai stato. Ormai non sei altro che un testo ambulante», sussurra, ad un tratto, in uno slancio metaletterario, Nathan Zuckerman al suo autore/alter ego Philip Roth.
Benintenso, Roth, sotto le cento maschere della sua letteratura, è tutt’altro che un testo ambulante. Roth, classe 33 ridotto oggi ad un imponente mucchio d’ossa e d’ironia, è autore di romanzi mirabolanti come Il teatro di Sabbath , Lamento di Portnoy, Complotto contro l’America, Indignazione è vincitore del Premio Pulitzer, di due National Book Award e del National Book Critic Award e tre volte del PEN/Faulkner Award (i più importanti premi letterari Usa) ; è, ogni anno, il candidato vincitore del Nobel e l’unico ad essere stato inserito per l’opera omnia nella Library of America; è, con la morte di E.L. Doctorow, probabilmente il più grande scrittore americano vivente. Quindi, addentrarsi nella sua vita grazie alla biografia di Claudia Roth Pierpont, soltanto omonima giornalista del New Yorker, Roth scatenato (pp 420, euro 22), è opera di rara piacevolezza. Roth, per il lettore medio seppur accanito è sempre stato percepito come uno stronzo di talento. Eppure, i dettagli, qui, te lo rendono struggente, spiazzante, anche spiritoso. Si scopre che la sua vita, infelice, provinciale e molto ebraica, svolta una mattina del 1959, quando a 26 anni fresco di laurea e di National Book Award vinto con il primo libro, Philip vede presentarsi la vecchia fidanzata Maggie con un (finto) campione di urina in mano dichiarando d’essere incinta. Lui la sposa, se ne prende cura fino al (finto) aborto e fino alla morte di lei; ma, scoperto l’inganno matura un sospetto ferocemente shakespeariano nei confronti delle donne che lo porterà a sposarsi (con l’attrice Claire Bloom), a tradire, a scrivere di sesso e intimità con un’ ironia che cambierà la storia delle letteratura. Poi si scopre che i viaggi in Cecoslovacchia e l’ossesione erotica di Roth non sono altri che antidoti alla solitudine. E poi si scopre che l’infatuazione, come il mal di schiena, non lo abbandonerà mai: «Non c’ è frangente da cui l’infatuazione sia incapace di trarre alimento. Mi bastava guardarla per trasalire: lasciavo che mi entrasse negli occhi come un mangiatore di spade inghiotte una lama», scrive lui, in un’immagine bellissima sul sesso.
E poi si scopre, che la madre e il padre Herman, premurosissimi, mai avevano creduto al successo di Alex Pornoy annunciato loro dal figlio davanti a una bistecca in un ristorante di Manhattan. E poi si scoprono tanti piccoli particolari, frammenti smerigliati d’una vita che sembra uscita davvero da un film di Woody Allen: i litigi da primedonne con John Updike che lo sputtana su ogni rivista possibile; la scarsa propensione allo stakanovismo («scrivo al massimo due ore al giorno»); l’ascolto di Strauss e la lettura potente di Hemigway nonostante le citazioni dei pigolii del Grande Gatbsy; le imitazioni di Jake La Motta o di Marlon Brando nel ruolo di Marco Antonio, ad alta voce passeggiando per Midtown; il mal di schiena sofferto ai limiti del suicidio; il pentimento sui vecchi capitoli delle sue vecchie opere; la frequentazione di intellettuali, editor frustrati, giovani coppie di scrittori molto spesso ebrei. Woddy Allen, appunto, che a sua volta s’ispirava allo scrittore. Insomma, assistiamo a una scoperta reiterata dell’uomo Roth che strategicoavviene proprio mentre Einaudi, ne pubblica uno dei libri più esilaranti, Il grande romanzo americano, scritto nel 1972 ora nella ricca traduzione di Vincenzo Mantovani.
Il romanzo narra di Word Smith (l’incipit, alla Melville, è «Chiamatemi Smitty») un ottantenne ex cronista sportivo e grande amante dell’allitterazione, convinto di essere l’unico a ricordarsi della Patriot League, terza lega americana di baseball dopo l’American e la Nation, che secondo il suo parere è stata cancellata dalla memoria e dagli annali perché diventata apertamente un’organizzazione anti-americana. Smitty ha deciso di scriverne, accompagnando le trasferte nel ventre dell’America di una squadra sgangherata, piena di senza tetto, battitori senza braccia, ubriaconi, nani, e lanciatori che ha provato ad uccidere l’arbitro. Insomma, surrealtà allo stato dell’arte, anche per chi non capisce il baseball come il sottoscritto. La sensazione è che Roth, nonostante il blocco letterario, perseveri a farsi strada «nel crepuscolo del mio talento». Riuscendoci perfettamente, peraltro...