Francesco Merlo, la Repubblica 26/7/2015, 26 luglio 2015
1945-2015 RITORNO A HIROSHIMA
HIROSHIMA
Nell’ospedale dei sopravvissuti alla bomba, nel ricovero degli hibakusha, ne vedo trecento in una volta: la più vecchia ha 103 anni, il più giovane 79. Sono quasi tutte donne, con le facce bellissime e i corpi segnati. Mai tra di loro parlano della bomba che li unisce. «Sono i soli vecchi del mondo che nella vecchiaia si nascondono » dice il professore Mikada che li cura.
Gli hibakusha, spiega il vecchissimo Tazuko «non hanno permesso che dalle vittime nascessero sempre e solo altre vittime », che «la bomba continuasse a esplodere il 6 agosto di ogni anno» finché un giorno, dopo settant’anni, «la gente si sarebbe annoiata di questo deserto senza vita dove la più alta sapienza dell’umanità aveva messo in scena la prova generale della fine del mondo». Era infatti questa la profezia: “Per almeno settantacinque anni, a Hiroshima e a Nagasaki non crescerà più niente, nemmeno l’erba”.
E invece è bella Hiroshima perché non somiglia a Hiroshima. È bella perché anche gli occhi di Tazuko, che ancora piangono il neonato che sua moglie «mise al mondo già coperto di lividi e senza braccia», non si limitano più, dopo settant’anni, a srotolare il tempo a ritroso: «Guardo i posteri che mi camminano accanto e mi piacciono questi figli di nuovo felici di Hiroshima. So che hanno superato il milione e non hanno più l’ossessione di contare i leucociti. Non tengono più sotto sorveglianza i globuli bianchi come si tiene sotto sorveglianza il pentolino di latte che scalda al fuoco. Forse abbiamo restituito a Hiroshima il diritto di morire per cause naturali. Forse».
E però proprio qui, in questa bella Hiroshima che non somiglia a Hiroshima, il 6 agosto prossimo il Giappone tornerà a somigliare al Giappone. Dopo settant’anni, infatti, il primo ministro Shinzo Abe verrà a celebrare la pace preparando la guerra. Verrà a dire, nella Città della Pace, che il Giappone non è più “pacifista passivo”, ma è “pacifista attivo”.
Che l’esercito non sarà più inoffensivo e guai a chi ci prova, a partire dalla Cina e dalla Corea del Nord. Abe verrà a commemorare le vittime della bomba e per la settantesima volta chiederà scusa al mondo per i crimini di guerra, ma per la prima volta avrà accanto i generali di un esercito con il diritto di combattere, se ce ne fosse bisogno, anche fuori dai confini nazionali. La morte della Costituzione pacifista, che fu imposta dagli americani al Giappone sconfitto, rende davvero speciali i riti del 6 agosto di Hiroshima. Tanto più che Abe, il quale vorrebbe che il Giappone tornasse fiero del proprio passato, è anche il più strenuo sostenitore del rapporto con l’America che su Hiroshima sganciò la bomba. Ecco: poiché la Storia mai sceglie a caso il tempo e lo spazio dei suoi momenti fatali è Hiroshima che bisogna capire per provare a spiegare il momento fatale.
Akiko, un altro dei sopravvissuti, dice che «quel cumulo di rovine e quella terra bruciata erano ancora Hiroshima, ma ora mi succede di non ritrovarmi, mi sembra di non essere dove sono». Akiko, che ha visto «centinaia di uomini gettarsi nel fiume e morire bruciati perché l’acqua li accendeva invece di spegnerli» un giorno si è seduto a prendere il caffè in un angolo del Boulevard della Pace: «Questa è la strada dove siamo scappati, lì sono inciampato in un cadavere. E ora guardo la gente camminare contenta, i giovani chiacchierano e i vecchi avanzano sicuri, i bambini scappano dalle mani dei genitori, e poi le vetrine, i grattacieli che sembrano le nuove divinità dell’aria: dove sono finito? Davvero è successo qui? O sono diventato un’ombra anche io, l’ombra del me stesso che la bomba ha di-strutto?».
Le ombre – ombre vere – sono esposte al Museo della Pace. «Il calore fu tale che sparirono i corpi e rimasero le ombre: questa è l’ombra di una mano su un vetro, questi sono il bacino e le gambe di un uomo che stava seduto». Me le mostra Mari Shimura, la bella signora giovane ed esperta che da più di venti anni raccoglie gli oggetti delle vittime, scrive la loro storia e li espone: uno zaino bianco macchiato dalla pioggia nera, unghie che ancora trattengono la terra alla quale si aggrapparono, una camicetta sbrindellata, i ciuffi di capelli che “il mostro” staccava dalle teste, i famosi origami della piccola Sadako, un thermos, il triciclo di un bimbo di tre anni che il padre aveva sepolto insieme al corpicino, un cancello divelto, l’infradito di Miako e l’orologio di Kengo fermo alle 8.35, l’ora in cui Paul Tibbets, il disgraziato carnefice americano di 29 anni che pilotava il B-29, sganciò l’atomica, il Little Boy: «Ce li portano i familiari, è tutto quel che hanno di quei morti, vogliono farli vedere al mondo e vogliono spaventare il mondo». Ma davvero una divisa di scuola riassume la vita di una ragazza? E come possono la foto di un viso e il ricordo di un gesto trasmettere il senso di una persona? «Non possono. Gli oggetti rimangono oggetti, ma permettono di dare alla morte un nome e un cognome. Le famiglie cercano di impedire che i loro morti siano numeri, segmenti di un diagramma. Lo Spirito di Hiroshima è facile da sintetizzare: mai più un’altra Hiroshima».
Perché ci sono solo cinque fotografie scattate in quel giorno? «È difficile dirlo. C’erano le macchine fotografiche, ma nessuno le usò. E intervenne, abbastanza presto, pure un fotoreporter. Ma scattò solo cinque foto. Disse che non se l’era sentita, che l’orrore non era “fotografabile”». Dov’è adesso? «È morto».
Più che un museo è un’enciclopedia di lapidi, un sacrario. Certo, non c’è il diluvio atomico nella riproduzione del lampo e del fuoco. E non c’è la morte, in un sol giorno, di centocinquantamila persone nel plastico di cadaveri che galleggiano nel fiume. E somigliano a reperti dell’antichità i marmi, i cancelli e i parapetti dei ponti divelti che schizzarono in aria come palloni. E cos’è quel bottone esposto come una reliquia? Leggo la storia di Kotaro che d’istinto si gettò tra le braccia del padre che bruciava. Un attimo prima di bruciare con lui, Kotaro perse un bottone che molti mesi dopo la madre riconobbe. Ecco: immaginando Kotaro che si gira di scatto, quel piccolo bottone cessa di essere un simulacro e diventa davvero l’ultimo istante della vita.
Ci sono tutte le sapienze del nonsense in quel migliaio di aghi da cucito fusi in un solo indecifrabile ammasso e in quella bottiglia di vetro deformata e annodata dal calore. Forse avevano ragione i memorialisti russi che volevano leggere la storia mondiale raccogliendo tutto quel che si trova sui marciapiedi della terra, i geroglifici sulla superficie del mondo. Forse, per capire Hiroshima, non c’è nulla di meglio del cestino per il pranzo del piccolo Toshio con dentro il riso carbonizzato. E forse, come nelle sale di un museo egizio, le ombre sono anime imprigionate. «No, l’ombra è il riposo dello spirito» mi replica Mari Shimura. Per noi danteschi l’ombra è l’anima in pena, per Borges è il grigio della vecchiaia felice, per i giapponesi invece l’ombra è quella lodata da Tanizaki, «il contrario della luce occidentale che uccide». Compensate i familiari che vi cedono queste memorie? «Assolutamente no. Qui non c’è commercio. Anche il biglietto costa pochissimo». In quale università d’arte insegnano ai futuri curatori a conservare le ombre? «In nessuna». E Mari Shimura ammette: «Ci fu un grande dibattito a Hiroshima su come colmare l’abisso che divide chi ha vissuto l’Olocausto dell’atomica dal resto del mondo. Ancora oggi c’è chi non sopporta di diventare un simbolo o una metafora e vorrebbe il silenzio, vorrebbe che nessuno si appropriasse dei luoghi e dei ricordi». Questo Museo, al contrario, crede nella memoria. «Mi sono laureata in arte all’università di Osaka, ma è qui che sono nata e già da ragazzina mi appassionava l’idea di proteggere le ombre di Hiroshima». Con quale tecnica? «Calore, umidità, scienza e... passione». Una passione speciale? «A Hiroshima tutto è speciale».
BUDDA AL GOVERNO
Eccola di nuovo, la bellezza di Hiroshima: un capolavoro di natura e di umanità restaurate, che quanto più esprimono la vita tanto più mettono in risalto l’enormità della tragedia, come gli oleandri che tornarono a sbocciare già nel 1945. Anche quei petali rossi irritarono e offesero alcuni degli hibakusha: «Mi ricordavano le fiamme» dice Naija che ancora adesso ogni estate si ammala di niente. È la stessa storia della zia Yaeko, resa famosa dal racconto di Daisaku Ikeda (Il quaderno di Hiroshima): «Quando arriva questa stagione, anche se non ho la febbre, sento come un flusso di sangue alla testa». Ikeda è il leader della setta buddista Soka Gakkai, anti-nuclearista e pacifista ma alleata del governo neomilitarista, dodici milioni di adepti (che diventano otto milioni di elettori), un enorme patrimonio in danaro difficilmente valutabile: questi religiosi al potere, con il loro strano Budda pacifista di destra, sono un altro scherzo del tempo e del luogo. Anche perché, tra i pochi miracoli di quel 6 agosto 1945, c’è innanzitutto un Budda di legno che rimase intatto in mezzo al fuoco e che ora viene onorato in una teca tra le preziosità botaniche del parco di Shukkeien tutto rifatto. Ma c’è anche il ritratto dell’imperatore, «che fu “salvato” e portato al fiume, in mezzo ai morti e ai feriti che gli fecero spazio». E poi ci sono gli alberi, i famosi ginkgo che sopravvissero alla bomba. Catherine Deneuve riuscì a farne piantare uno in piazza dell’Alma a Parigi. Il ginkgo è la pianta virile della tenacia e del coraggio. Per i giapponesi è il simbolo della città di Tokyo, per noi italiani invece è il nome dell’ispettore che non si stanca mai di sfidare l’invincibile Diabolik.
Hibakusha è una delle tante parole che, come gli oleandri, nacquero qui a Hiroshima, una parola per non dire “superstiti”, “sopravvissuti”, “scampati”. Hibakusha sono coloro — è il significato letterale — “che non morirono, ma furono esposti alle conseguenze della bomba, non necessariamente fisiche”. Sono «coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo» ha scritto il premio Nobel Kenzaburo Oe. Settant’anni fa non tutti gli hibakusha odiarono gli oleandri. A molti di loro gli oleandri insegnarono a riprendersi la vita. «Avrei preferito suicidarmi pur di non diventare un rubinetto stanco dal quale ininterrottamente cola giù un filo d’acqua» racconta Shozo che spesso è immobilizzato a letto e aveva tredici anni quando perse tutta la famiglia. Della madre, che non fu mai trovata, non ha mai detto «è morta» ma sempre «si è perduta». Vide invece il padre ritornare a casa con la pelle che gli cadeva a pezzi anche dal viso: si gettò a terra dicendo che aveva freddo e sete e morì sei ore dopo. Shozo, singhiozzando, gli strofinava cetrioli sulla testa infuocata. Ma non usava i cetrioli perché era un bambino inesperto che si improvvisava infermiere. «Con il cetriolo i medici “curarono” le prime vittime» mi spiega il famoso professore Kamada, lo scienziato che dirige gli ospedali degli hibakusha: «Usarono anche un’erbetta che somiglia al tè. Non capivano le ferite, non sapevano dell’atomo. Prima della bomba c’erano 292 dottori su 350 mila abitanti. Ma il 90 per cento dei medici morì. Gli altri fecero quel che potevano, cioè niente. Con i corpi dolenti i loro malati si sdraiavano per terra mormorando “sto male, ma l’ho scampata bella”. E tutti si congratulavano con loro perché erano sopravvissuti. Poi il corpo si riempiva di macchie e di pustole, i capelli cadevano... E morivano».
Il professore Kamada, ottanta’anni, ha passato la vita a studiare il sangue degli hibakusha.
Lo incontro nell’ospedale appunto, a una ventina di chilometri da Hiroshima, nel paese di Kurakake. L’ospedale sta in un giardino grasso, un paesaggio che l’umidità trasforma in un acquario conradiano. La mensa è pulitissima, quattro ospiti per stanza, un bagno ogni due stanze, moquette, pantofole, paraventi. È la tipica città dolente degli anziani. Ogni tanto qualcuno dei trecento ricoverati parla per accenni, metafore del tipo «e la vita poi deragliò» ma non sono sicuro che voglia dire l’indicibile. I trecento vecchi mi permettono di portare vie le foto, ma cancellano nomi e cognomi. Una signora mi tiene la mano: «Quando uno rimbambisce mica se ne accorge». Le rispondo che «quando se ne accorge vuol dire che non rimbambisce».
LA SECONDA GENERAZIONE
Il professore Kamada, che a Hiroshima chiamano senza ironia “il grande scienziato”, mi spiega che il venticinque per cento degli hibakusha «non parlano di quello che hanno visto e subìto. Neppure ai propri familiari, neppure ai figli. Poi c’è un quarantacinque per cento che ha parlato due o tre volte in tutta la vita». E però noi giornalisti troviamo ancora testimonianze. «C’è un trenta per cento che parla, e tra loro c’è un gruppo che parla tanto» . Hanno subìto l’atomo, spiega il professore, «e sanno che i loro acidi non sono i normali umori del disfacimento. Perciò da vecchi vengono qui, anche quelli che hanno i soldi per ricoveri di lusso. Vengono per stare insieme, per attraversare insieme l’ultimo vecchio ponte». Nessuno si lamenta. «Quello che lei non troverà mai è il pianto, la sofferenza gridata, al massimo qualche lacrima soffocata». Trovo invece la protesta contro il governo che non si occupa di loro: «Ora si paga il cibo. Sino a dieci anni era tutto gratis».
Il professore racconta di avere capito che l’atomo modificava i cromosomi già nel 1960 «ma non potevo dirlo, e non solo perché allora la censura americana controllava tutto, ma anche perché non volevo terrorizzare nessuno». La leucemia, i rischi per la seconda generazione?
«All’inizio aumentò la natalità perché, nelle catastrofi, riprodursi è un “bene rifugio”, ma poi, guardi il diagramma, la natalità diminuì sempre di più». Perché? «Perché la gente aveva capito quel che i medici non capivano e cioè che le conseguenze della bomba arrivavano ai figli». Come l’avevano capito? «Alcuni bambini nacquero malati o deformi, con i cheloidi sulla pelle, privi di arti...». Il professore non è di Hiroshima, ma venne qui quindici anni dopo la bomba: «A Hiroshima mi sono laureato, poi ho studiato a San Francisco e quindi sono tornato. Ho avuto la fortuna di restare. Solo a Hiroshima un medico poteva studiare e capire...». E finalmente scopro che il professore si è innamorato di Hiroshima perché ha sposato una hibakusha. Come andò? «Studiavo e non avevo tempo per nulla. Allora il mio capo mi cercò moglie. Si rivolse a sua nonna che mi presentò una signorina che lavorava come segretaria alla Mazda». Cosa aveva visto il 6 agosto del 1945? «Aveva tre anni e vide tutto quello che c’era da vedere. Era con la famiglia, a due chilometri e trecento metri dall’esplosione». È una di quelle che parlano? «No. È una di quelle che hanno parlato solo due volte, e mai ai nostri figli». Non parla neanche con lei? «Con me sì. Ma io, prima di essere il marito, sono un medico». E poi con chi ha parlato? «Una sola volta in pubblico, ma all’estero». Dove? «Non credo che mia moglie approverebbe se glielo dicessi». E i suoi suoceri? «Hanno vissuto con me. Ma sono morti entrambi: a lui è esplosa una vena, lei è morta di mal di cuore». C’entra qualcosa la bomba? «Quando morirono pensavo di no. Adesso penso di sì». Quanti figli avete? «Due figli e quattro nipoti». E stanno bene? «Sì, stanno bene. Sono la famosa “seconda generazione”». Hiroshima diventerà mai una città con gli stessi rischi di tutte le altre città del mondo? «Mai. Le radiazioni sono nei limiti. Ma sulle conseguenze per le generazioni ne sappiamo ancora poco. Io le sto studiando e tra poco pubblicherò i risultati delle mie ricerche». Nessuno controlla clinicamente i figli e i figli dei figli? «Non più. Lo abbiamo fatto per quarant’anni. Oggi non sappiamo nemmeno quanti sono esattamente i sopravvissuti, perché si sono sparsi per il mondo, come atomi. La stima approssimativa è centonovantamila. Nel 2040 saranno cinquecento».
Francesco Merlo, la Repubblica 26/7/2015