Sergio Romano, Corriere della Sera 25/7/2015, 25 luglio 2015
I SOGNI DI NICOLO’ CARANDINI, UN LIBERALE FRA DIPLOMAZIA E AGRICOLTURA
Il primo ambasciatore italiano in Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale è stato Nicolò Carandini, che ha retto quella sede diplomatica dal ‘44 al ’47. Apprezzatissimo per le sue doti intellettuali, era considerato anche uno degli uomini più eleganti di Londra, tanto da influenzare le rigide tradizioni britanniche con il suo stile. Dopo la ratifica dell’accordo De Gasperi–Gruber sulla questione della minoranza linguistica tedesca in Alto Adige, alla cui negoziazione aveva preso parte, lasciò la diplomazia. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su questo affascinante personaggio che contribuì a risollevare l’immagine degli
italiani all’estero in un momento molto delicato.
Ferdinando Fedi
ferdinando.fedi@alice.it
Caro Fedi,
Quando divenne «rappresentante» dell’Italia a Londra (la qualifica di ambasciatore fu riconosciuta soltanto dopo la firma del Trattato di pace), Nicolò Carandini era conosciuto e rispettato per le sue qualità intellettuali, per la rete antifascista che aveva creato con le sue amicizie italiane e straniere durante gli ultimi anni del regime, per lo spirito imprenditoriale di cui aveva dato prova nella gestione della grande azienda agricola creata dal suocero, Luigi Albertini, dopo la sua estromissione dal Corriere della Sera . Era stato membro del Comitato romano di liberazione per il partito liberale, ministro senza portafoglio nel governo Bonomi e membro per alcuni giorni dell’Assemblea costituente, da cui si dimise per non lasciare Londra.
Nella capitale britannica creò simpatie e amicizie. Ma il clima politico non gli era favorevole. L’Italia aveva sfidato la Gran Bretagna e andava punita. Dopo la vittoria laburista delle elezioni britanniche dell’agosto 1945, il socialista Pietro Nenni, ministro degli Esteri dal luglio del 1946, sperò per qualche tempo di potere contare sull’amicizia dei compagni inglesi. Ma il suo viaggio a Londra, nello stesso anno, fu una delusione. Il Primo ministro Attlee non volle riceverlo e il ministro degli Esteri Bevin gli fece comprendere che l’alleanza del Partito socialista italiano con il Partito comunista non piaceva al governo britannico. Due anni dopo l’amicizia degli Stati Uniti avrebbe compensato la freddezza britannica, ma negli anni fra il 1945 e il 1946 Washington oscillava ancora fra tentazioni isolazioniste e la prospettiva di un maggiore impegno nella politica internazionale.
Tornato in patria, Carandini si dedicò al suo partito. Era convinto che i tempi esigessero una forza politica ringiovanita, più «liberal» che liberale (una parola, questa, che nel gergo politico italiano ha finito per assumere il significato di moderato e conservatore). Sperò che il Mondo , il settimanale diretto da Mario Pannunzio, avrebbe contribuito ad allargare la zona d’influenza di un moderno liberalismo. Ma il periodo che corre tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta fu per il Pli una malinconica sequenza di scissioni ed effimere riunificazioni. Carandini ripose qualche speranza nel futuro del Partito radicale, che contribuì a fondare nel 1955, ma lo abbandonò, deluso, nel 1962. Da quel momento divenne nuovamente imprenditore. Si dedicò all’azienda agricola creata da Albertini, di cui era ormai comproprietario, e fu per vent’anni presidente dell’Alitalia. Nel Dizionario biografico Treccani leggo che fu anche presidente della Iata (International Air Transport Association) e che tentò di creare una unione delle linee aeree europee: un altro sogno che il liberale Nicolò Carandini non riuscì a realizzare.