Giuliano Malatesta, il venerdì 24/7/2015, 24 luglio 2015
IL GENIO MALEDETTO DEL POKER
Aveva vinto al tavolo verde oltre 30 milioni di dollari, ma il giorno in cui lo trovarono senza vita in una squallida stanza al piano terra dell’Oasis Motel di Las Vegas, all’età di 45 anni, aveva con sé poco più di 800 verdoni, ciò che gli rimaneva di un prestito ben più sostanzioso, e i piccoli e tondi occhiali blu cobalto con i quali da anni provava a nascondersi il viso devastato dalla cocaina. Ma il suo nome aveva già un alone di leggenda.
Per tutti era semplicemente The Kid, il ragazzino dell’East Coast che sul finire dei Settanta era arrivato nella città del peccato rivoluzionando le regole del poker, all’epoca di esclusiva proprietà di un gruppetto di texani sporchi e cattivi, fino a diventare il più grande talento di sempre ed essere considerato il miglior giocatore di poker della storia. Un riconoscimento mai attribuito a nessun altro in un ambiente spietato che «incarna i peggiori tratti del capitalismo che hanno reso grande questo Paese», per dirla con le parole di un poeta inglese, e dove tutti si considerano i più bravi e naturalmente anche i più sfortunati. Così ogni anno, quando Las Vegas celebra tra giugno e luglio i campionati del mondo (Wsop), variante ludica di un sogno americano sempre in cerca di rinnovamento, c’è sempre qualcuno pronto a ricordare le gesta di Stu Ungar, the Mozart of the card table.
Famiglia ebrea newyorkese, cresciuto negli anni Sessanta nel Lower East Side, dove il padre gestiva un bar sulla Second Avenue, Fox’s Corner – ma di fatto faceva il bookie, l’allibratore, un lavoro molto comune nell’East Village, all’epoca terreno prediletto di criminali e giocatori d’azzardo –, il ragazzino aveva evidenziato in età precoce una naturale predisposizione per i giochi con le carte, frutto anche di una memoria fotografica strabiliante grazie alla quale era in grado di contare tutte le carte presenti in un sabot di blackjack composto da sei mazzi. Dotato di un quoziente intellettivo che lo classificava alla stregua di un genio (stimato in 185, lo stesso di Galileo Galilei), alla morte del padre Stu aveva abbandonato la scuola e iniziato giovanissimo a frequentare senza sosta tutti i club della città, dove si fece presto un nome nel gioco del Gin Rummy, sia per le sue capacità che per il modo presuntuoso di stare al tavolo; il suo atteggiamento a volte arrogante provocò non pochi malumori, spesso «addomesticati» da Victor Romano, amico intimo del padre ed esponente della famiglia Genovese, una delle cinque grandi famiglie mafiose che controllavano i business cittadini. Una volta un tizio, probabilmente innervosito da una partita finita male, gli scagliò contro una sedia in segno di disappunto. Fu ritrovato due giorni dopo steso in una pozza di sangue nel retro di un anonimo locale del Village. Misteri a parte, nel giro di qualche anno Stu Ungar divenne talmente bravo nel Gin Rummy che nessuno aveva più il coraggio di sedersi a un tavolo con lui, nemmeno nella mitica Borscht Belt, la residenza estiva molto in voga tra gli ebrei newyorchesi dove da quando aveva 12 anni aveva battuto tutti i visitatori. Era tempo di cambiare area.
Sul finire dei Settanta Las Vegas non aveva ancora ceduto ai megaresort e alle sirene dell’intrattenimento familiare ed era principalmente una città di rounders, che spendevano il loro tempo giocando no limit holdem, «la Cadillac del poker», al Dunes, hotel frequentato da Frank Sinatra e Judy Garland, e conversando al Gambler book club, una sconosciuta libreria con oltre 3mila libri sul gioco che non avrebbe avuto alcun senso in nessuna altra parte del mondo e che era stata messa in piedi quasi per caso da un signore dal nome profetico, John Luckman. Per uno come Stu Ungar, che aveva come unico obiettivo quello di distruggere, lentamente, i suoi avversari, sembrava non ci fosse altro luogo dove vivere. Escluso per manifesta superiorità da ogni torneo di Gin Rummy, i direttori dei casinò gli avevano gentilmente intimato di farsi da parte altrimenti nessun altro sarebbe stato così pazzo da iscriversi, scelse di dedicarsi al poker. Così nel 1980 pagò il ticket d’ingresso di ben l0mila dollari per partecipare, senza praticamente alcuna esperienza, al torneo principale delle World Series of Poker. Tre giorni dopo, all’età di 26 anni, divenne il più giovane campione del mondo dopo aver sconfitto in finale Doyle texas dolly Branson, grande vecchio e leggenda del poker americano. «Fisicamente era piccolo ma mentalmente un gigante. Non ho mai conosciuto nessun altro con una tale velocità di pensiero» ha scritto Mixe Sexton, giocatore professionista e commentatore tv, nella prefazione a One of a king, la biografia di Stu Ungar. E per evitare fastidiose insinuazioni legate alla fortuna del principiante rivinse anche l’anno successivo, con una facilità che lasciò tutti a bocca aperta. In un gioco più legato all’abilità che alla fortuna, fatto di psicologia, di bluff e di continui affondi, Stu Ungar non aveva già più rivali.
La sua intelligenza però era difficilmente esportabile al di fuori del tavolo verde, dove si comportava da disadattato, complice un divorzio, il suicidio del figlio adottivo e il massiccio uso di cocaina e in seguito anche di crack. «Sembrava uno sbucato fuori dalla giungla» disse una volta Jack Binion, patron dell’omonimo Casinò. Un altro suo punto debole erano le scommesse sportive. Non aveva un conto in banca e tutti i suoi soldi, e spesso anche quelli degli altri, finivano regolarmente nelle mani dei bookmakers. Si narra che in un weekend di thanksgiving sia stato capace di puntare, perdendo, più di 1 milione di euro, con l’aggravante che parte dei soldi appartenevano a Antony The Ant Spilotro, l’ultima persona con cui qualcuno avrebbe voluto avere un debito, uomo molto vicino alla mafia di Chicago egregiamente interpretato da Joe Pesci nel film Casinò di Martin Scorsese. La sua vita ebbe un ultimo sussulto quando, molti anni dopo, nel 1997, riuscì nell’impresa di tornare a vincere i mondiali di poker. The comeback kid titolarono i giornali. Ma era solo un’illusione. Morì l’anno seguente, probabilmente per un attacco di cuore, e per una vita vissuta sempre ai limiti. I suoi amici dovettero fare una colletta per pagare le spese del funerale. Il ragazzino non conosceva le mezze misure: «Show me a good loser» amava ripetere, «I’ll show you a loser» (mostratemi un buon perdente e vi mostrerò che è solo un perdente).