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 2015  luglio 23 Giovedì calendario

LA GIOIA DI SCRIVERE

[Intervista a Nicola Lagioia]–
Come ci si grafitica dopo le fatiche di una vittoria allo Strega? Faticando e sudando ancora, per esempio come selezionatore di film per la Mostra del cinema. Nicola Lagioia, 43 anni da Bari, ha vinto il premio letterario più blasonato d’Italia con il romanzo La Ferocia, e si trova ora a Venezia («Ma non posso dire nulla su quantità e qualità di quello che vedo, per contratto» precisa). Il suo libro è uno di quelli che non lascia indifferenti: spacca il pubblico tra entusiasti pro-feroci e arrabbiati anti-feroci. Certi critici (viene da pensare, anche per invidia) ne collezionano le frasi come capi d’accusa di scarsa letterarietà. Di Lagioia, accanto allo scrittore, Panorama cerca di raccontare anche l’uomo, tra ricordi, idiosincrasie, cadute e scaramanzie.
Il suo primo ricordo da bambino?
Io che mi alzo nel cuore della notte per andare in bagno, avrò avuto tre anni, e guardo la luna alla finestra. E quando il sospetto di un futuro da scrittore?
Temo sia venuto a mia madre quando avevo cinque anni e la obbligavo a leggermi pagine di Dante a casa dei suoi genitori, a Capurso. I miei nonni erano coltivatori diretti e da loro c’erano solo tre libri: Divina Commedia, I promessi sposi e Il Paradiso perduto di John Milton. Solo che la Commedia aveva quelle magnifiche illustrazioni di Gustave Doré. Chiedevo a mia madre di leggere. Poi, come attaccava a spiegarmi le terzine, io pretendevo che leggesse per bene le note. Insomma: mi fidavo più del testo che di lei! Già allora c’era in me uno scrittore, ma un cattivo scrittore, uno che dava troppo peso alla parafrasi. Invece è la musica che conta.
Perché ha lasciato Bari?
Me ne sono andato a 23 anni perché il mio coetaneo Andrea Piva (futuro sceneggiatore del film Lacapagira, ndr) aveva vinto dei soldi a biliardo e non sapeva come spenderli. A Bari eravamo inseparabili. Frequentavamo ognuno per i fatti suoi dei postacci dove nessuno dei due si scomponeva alla comparsa, peraltro rara, di un’arma da fuoco o di una dose di eroina. Ma poi la sera ci incontravamo per leggerci a vicenda Montale, Campana, Majakovskij. Così Piva aveva vinto questi soldi e una sera mi dice: «Andiamocene a Milano ed entriamo nell’editoria». Molto balzachiano. Ancora oggi mia moglie mi rinfaccia che l’unica fuga d’amore della mia vita l’abbia fatta con Piva. Che successe? Otto mesi a Milano con Piva: ci iscrivemmo a un corso in tecniche editoriali, condividevamo un appartamento in viale Abruzzi popolato da scarafaggi non parlanti, come quello di Franz Kafka.
E poi?
Poi trovai lavoro in una casa editrice di Roma. Il problema fu che, arrivato lì, la casa editrice era già fallita. Allora contai i soldi che mi rimanevano: avevo un mese e mezzo d’autonomia. Iniziai a lasciare il mio curriculum a tutti gli editori della città. Ricordo sfiancanti camminate dall’Esquilino a Trastevere con questi inutili fogli sotto il braccio. Pensai con molta serietà che se non trovavo qualcuno che si faceva avanti avrei potuto magari prostituirmi: avevo 24 anni ed ero un bel ragazzo. O magari spacciare un po’. Invece un altro editore mi diede lavoro. Che bastava a malapena per vivere a scatolette di tonno. E non era sufficiente per invitare una ragazza in pizzeria.
Gli esordi spesso sono complessi.
Le prime due parole che ho imparato in editoria sono state «bancale» e «muletto». Ho spostato centinaia di scatoloni. Ho fatto il dialoghista per le soap. Ho caricato in macchina alle 6 del mattino 200 copie di un libro su Rocco Siffredi, per sfrecciare a Torino al Salone dell’erotismo, dove: ho montato lo stand, piazzato le copie, sono tornato di corsa a Roma e ho fracassato l’auto che guidavo contro un guardrail. Proprio disintegrata, all’altezza di Orte: io, neanche un graffio. La macchina era dell’editore per cui lavoravo.
Le decine di film che vede a Venezia danno anche idee per i libri? Forniscono spunti, come tutto. Ma poi l’importante è tradurre ogni cosa in codici letterari. Restano linguaggi diversi, e vale il contrario: i migliori film tratti da romanzi sono quelli che li tradiscono. Kubrick, ad esempio: ogni suo film nasce da un libro. Però, magari sposta la cronologia da inizio a fine Novecento, e il luogo da Vienna a New York. Così Doppio sogno di Arthur Schnitzler diventa Eyes Wide Shut.
Per scrivere il suo libro ci ha messo quattro anni. Il suo passatempo per fuggire dalla scrittura? Giocare col gatto, che significa comporre e cantare canzoncine per il gatto, anzi la gatta Lunedì. Inseguirla e scappare per casa quando lei m’insegue.
Di quale difetto soffre la narrativa italiana? Eccesso di vitalità. Che ovviamente non è un difetto. Lo diventa quando non è accompagnato da un pizzico d’immaginazione e dalla disponibilità di riscrivere una pagina anche cento volte. Se non sei Kafka, che era toccato da Dio, puoi sempre provare a seguire la scia dei Faulkner, dei Fenoglio, dei Nabokov.
Si fa narrativa provinciale nel nostro Paese? La migliore parla di provincia facendo a meno del provincialismo. Come tanta grande letteratura. Le Langhe di Pavese e Fenoglio. L’agrigentino di Pirandello. La Dublino di Joyce. Facondo di Garc. La contea di Yoknapatawpha di Faulkner. I paesini della Huron County di Alice Munro. Tutta provincia è. Persino Philip Roth per le sue storie preferisce il New England a New York, come in La macchia umana.
Dia un giudizio da cinefilo su tre nomi: Moretti, Sorrentino, Garrone. Di Garrone mi piacciono molte cose. Di Moretti mi piacciono alcune cose (come l’ultimo Mia madre). Di Sorrentino non mi è piaciuto La grande bellezza. Scrissi una stroncatura forse troppo di pancia, appena uscito dalla sala. Tutti s’incazzarono. Non solo amici di Sorrentino, ma anche amici miei a cui il film era piaciuto tanto.
Che colleghi riconosce nel personaggio di un Jep Gambardella? Io non sono della generazione che poteva permettersi di andarsene a giro per Roma senza fare un cazzo per più di cinque notti di seguito. Arenarsi in quella bellezza ha anche il suo fascino, ma io non ci sono mai stato dentro. Il suo attore preferito? Ugo Tognazzi. A seguire, Ettore Petrolini e Carmelo Bene. Gli italiani leggono poco. Forse i libri che trovano sono noiosi? Se leggi sbadigliando Il teatro di Sabbath di Roth o Seminario sulla gioventù di Busi, non è il libro a essere noioso: sei tu che sei morto. Il primo «no» ricevuto per un suo romanzo? È stata una lunghissima lettera circostanziata di Diego Paolini delle edizioni Es. Mi incoraggiò molto. Fu anche l’unica. Tutti gli altri no me li sono detti da solo. Come ha fatto colpo su sua moglie? Con l’aplomb dell’intellettuale? Le prime due cose che ho notato di Chiara sono state le gambe lunghissime e scoperte e un tatuaggio stampato sulla nuca con sopra scritto «Heathcliff», il protagonista di Cime tempestose. «Questo è troppo» ho pensato. Forse ho fatto colpo su di lei presentandomi in pelliccia al primo appuntamento. Cova rimpianti che l’angosciano? Futuri rimpianti ne avrò seminati a bizzeffe. Ma non ho mai avuto tempo per vederli crescere. A chi si è ispirato per Clara e Michele Salvemini, i protagonisti di La Ferocia? Sono il frutto di lunghe chiacchierate notturne, sempre con mia moglie. Quei personaggi sono i fantasmi che ci perseguitano da quando eravamo bambini. Lei è cultore di rock e dintorni. Artista di riferimento? Bob Dylan, maledizione: sempre lui. Era in Italia la notte che ho vinto lo Strega. Lui finiva il concerto, io sollevavo la bottiglia. Che effetto le fa la fama? Arrivano 50 telefonate al giorno e centinaia di sms, email. Avevo totalmente sottovalutato l’onda d’urto, per quanto bella, di una vittoria allo Strega. Cosa farà per rilassarsi? Una vacanza in Grecia. Mi sono sposato a Koufonissi, senza nessun motivo che non fosse il desiderio di farlo. Con Chiara stavolta andremo a Patmos. Il tratto che non le piace nel carattere di Nicola Lagioia? So essere punitivo con gli altri. Però oggi meno che in passato. E nel suo prossimo cosa non sopporta? Chi non ha un mondo dentro e va a traino dell’altrui immaginario. Preferisco l’odio alla banalità. L’accusano di aver scritto un romanzo con tutte le parti «a posto», politicamente corretto anche nella sua violenza, un romanzo da età renziana. Accetto tutte le critiche, come gli elogi. Ma renziano... La Ferocia divide, non è un libro democristiano. Mi hanno pure detto che sono vendoliano, perché di Bari. Sui social, poi, mi sono preso tantissimi vaffanculo... Allo stesso modo, è inquietante che sull’onda dell’entusiasmo uno mi abbia invitato a casa sua, a Capri. Un po’ di bene, un po’ di male: lei è ecumenico. Macché, la critica che preferisco è stata quella del giornalista sportivo Pippo Russo. A Firenze ha organizzato in libreria due stroncature pubbliche. Il librario ha detto che ha venduto parecchie mie copie... È un format da brevettare: la contropresentazione! Luogo per scrivere: isolarsi o tenere aperta la finestra per far entrare il mondo, a mo’ di García Márquez? Il posto migliore è casa mia. Ma il primo anno in cui ho fatto il selezionatore a Venezia, pur di non mollare La ferocia, mi svegliavo ogni giorno alle 4,10 del mattino. Dalle 4,30 alle 8,30 ero al computer, e alle 9 ero pronto per
guardare il primo film della giornata. Alle 10 di sera crollavo. Il libro favorito allo Strega, quello di Elena Ferrante, è stato lanciato da Roberto Saviano. Le piace come scrive? La cosa più interessante di Gomorra è la fascinazione per il male. È quella che si prova per Macbeth, per Kurtz di Cuore di tenebra. Da quando Saviano è entrato nel ruolo dell’intellettuale civile ha perso quel tocco, forse per le continue posizioni che deve prendere. Ma è un ruolo difficile il suo. Se io mi faccio un tiro di coca, lo posso dire e pure scrivere. Lui, ormai, no. Chi ha scelto il suo look da «Blues Brothers» allo Strega, così poco da scrittore italiano? Con mia moglie ho comprato l’anno scorso una giacca nera. Ero elegante, lo so. E quando non puoi essere elegante, cerca almeno di essere selvatico. Fitzgerald in una tasca, ma nell’altra sempre Genet pronto a venir fuori. Lei è un tipo superstizioso? Durante gli incontri Strega mi offrivano spesso il liquore. E io: «Grazie, già bevuto». Mi dicevo: «Se ti accontenti di questi sorsi qua non berrai, a canna, quello finale». Dopo uno Strega cosa conviene fare? Aspirare a scrivere un bel libro. Nessun premio ti garantisce che riuscirai a farlo anche la prossima volta. Perché leggere un romanzo, quando è bello, può essere più divertente che andare sui social? Non faccio inviti alla lettura. Nessuna bussola per gli incontri che cambiano la vita.