Enrico Deaglio, il venerdì 24/7/2015, 24 luglio 2015
VIVERE A CATRO DOVE TUTTO E GAY. ANCHE I POLIZIOTTI. RACCONTO DI UN’AMERICA DOVE SPESSO LE PAROLE NON RIESCONO AD ABOLIRE LE DISCRIMINAZIONI
Impossibile non vederlo, perché il suo gigantesco vessillo arcobaleno, la bandiera del popolo Lgbt, marca ufficialmente il territorio di Castro, il più famoso quartiere gay degli Stati Uniti e probabilmente del mondo. Castro, una trentina di isolati di case di legno, ha ora la stazione della metropolitana intestata all’eroe del movimento Harvey Milk e i nuovi marciapiedi appena inaugurati incastonano, all’ombra del grande Castro Theatre, venti formelle di bronzo in onore delle storiche icone - si va da Federico Garcìa Lorca a Virginia Woolf, da Oscar Wilde a Alan Turing, a Frida Kahlo - mentre sulle strisce pedonali, anche queste arcobaleno, passeggiano, del tutto inosservati, uomini completamente nudi, si abbracciano vecchie tenere coppie scampate all’epidemia (è stato aperto per loro il primo ospizio per anziani), giovani turisti di campagna alla loro prima esperienza, travestiti multicolore, venditori di cani, esibizionisti e massaie salvadoregne con la borsa della spesa, tra manifesti di film porno, di truci attrezzi sessuali e di esami gratuiti per la ricerca dell’Hiv con risposta in venti minuti. Insomma, un tranquillo paesaggio urbano nella «zona liberata» di Gay, Lesbian, Bisexual, Transgender, ovvero l’acronimo Lgbt.
Ma se uno torna indietro nella memoria, vede lo stesso quartiere quarant’anni fa con i primi due o tre bar gay tra case di legno abitate da operai edili svedesi, le macchine della polizia che passano, sfottono i faggots e li rincorrono con il manganello, i blocchi stradali alla ricerca di drogati, scappati da casa, asociali; la nomea di quartiere dei pervertiti. E se torna indietro di venti, venticinque anni rivede il lazzaretto a cielo aperto dei malati di Aids, i funerali quotidiani, i cortei aperti dai moribondi che chiedono medicine. Erano i tempi in cui a Ronald Reagan venne proposto di chiudere Castro, «la fonte della peste», e di trasformarlo in un ghetto. Per fortuna, disse di no.
Oggi Castro, che si glorifica e si museizza, è la storia più visiva del politically correct al potere. Sono cambiate le parole, i poliziotti che pattugliano sono gay, le chiese sono aperte a tutti e se una scuola licenziasse un professore per le sue preferenze sessuali, anche il sindaco - il pacioso cinese Mr. Lee - insorgerebbe; d’altronde due ragazzi, o due ragazze, che vent’anni si fossero baciati in pubblico rischiavano l’arresto, oggi si possono sposare, adottare figli, far ottenere la cittadinanza al coniuge e godere della reversibilità della pensione. Tutto è cambiato: lo stato conservatore dell’Idaho aveva recentemente approvato una legge che permetteva l’obiezione di coscienza, per motivi religiosi, di fronte a un matrimonio gay. (Per esempio, un fiorista avrebbe potuto rifiutarsi di confezionare il bouquet per gli sposi). Ebbene, dieci grandi compagnie hanno minacciato di chiudere le loro attività e il governo dell’Idaho ha fatto marcia indietro. Non si scherza, col politically correct.
Ma, in realtà, in che cosa consiste? Riducendo la questione all’osso, il Pol Cor consiste nel cambiare nome alle persone e ai concetti, in genere in seguito alla vittoria di un’etnia, di un grappo politico o di un movimento di opinione, in una battaglia che riguarda diritti e cittadinanza. E visto che la storia americana è fatta di guerre sociali e (spesso, ma non sempre) di conquiste di progresso, sul terreno del linguaggio si gioca la battaglia spesso fondamentale. Chi vince stabilisce nuove regole, e non sarà più insultato, disprezzato, sbeffeggiato. Cambiato il nome delle cose, spesso cambia anche la realtà, con nuove leggi; in genere, però, prima cambia il nome delle cose. La battaglia linguistica qualche volta è stata campale, altre volte ipocrita, altre volte ancora, grottesca; ma, comunque, sempre stimolante.
Si comincia con il tabù più feroce e più lacerante: il colore della pelle. Come si chiamano i 42 milioni di americani i cui avi, o anche solo bisnonni vennero deportati dall’Africa e ridotti in schiavitù? Il politically correct oggi dice che si devono chiamare African american, senza trattino. Il termine venne coniato negli anni Sessanta, quando i Negroes (così erano chiamati nei documenti ufficiali e nelle aule di giustizia) conquistarono il diritto civile di frequentare le scuole dei bianchi e di votare senza per questo essere uccisi. In quell’epoca di grandi lotte, nacquero anche i termini Afro, Afro-american, Black, e anche la Nation of Islam. Il termine African american, inventato dall’attivista e poi dirigente del partito democratico Jesse Jackson, si impose come una mediazione tra le spinte più radicali. I neri d’America – si convenne – sono cittadini americani con ascendenza in Africa, così come gli Irish American hanno ascendenza in Irlanda e i German American hanno ascendenza in Germania (Paese peraltro contro cui gli Usa hanno fatto due guerre in soli trent’anni). I termini negro, il suo dispregiativo nigger, e darkie vennero banditi dal linguaggio pubblico.
Ma si aprì subito un altro campo di battaglia: l’educazione scolastica.
Mark Twain, peraltro il più grande liberal americano, usa spesso il termine nigger. Cosa si fa? Spiacenti, ma i suoi libri vanno espunti dalle biblioteche scolastiche. E così per altri libri, film, poster pubblicitari popolarissimi in cui gli afroamericani sono stereotipi, macchiette, caricature (dell’allegro cuoco, della serva grassa, del contadino ingenuo). Da valutare bene anche ogni riferimento alla schiavitù, perché per un ragazzino a scuola, può essere traumatico apprendere che il suo antenato è stato uno schiavo. Meglio avvolgere il passato in una favola.
Ha funzionato? Forse, un po’ per la classe medio-alta delle metropoli, ma non nei quartieri ghetto o nel profondo Sud. L’America di oggi è scossa da una serie interminabile di uccisioni tutte simili tra di loro: ogni settimana c’è un poliziotto bianco, superarmato, che uccide a sangue freddo un giovane afroamericano disarmato, ma sospetto per come cammina, per il cappuccio della felpa, perché scappa. Si aprono inchieste e ci si trova davanti una polizia decisamente incorrect. Si indaga sulle loro mail private e si scopre che i poliziotti passano il tempo a insultare i neri, minacciarli, a scambiarsi barzellette su di loro in cui li si paragona alle scimmie. Si scopre, in sostanza, che il politically correct, sotto la superficie dell’ufficialità, nella realtà quotidiana non esiste e – lo ha detto, rompendo un tabù, lo stesso Obama in un’intervista alla radio – «Ci chiamano ancora nigger, perché il razzismo è nel Dna degli americani, e non bastano due o trecento anni per cancellarlo». Solo dopo la strage di Charleston (i nove uccisi in una chiesa mentre stavano pregando), ci si è accorti che in molti stati del Sud sventola sugli edifici pubblici la bandiera dei Confederati (ovvero degli schiavisti) o che il ponte di Selma, in Alabama – quello che Martin L. King attraversò sfidando la polizia nel 19(53 – era intitolato, e lo è tuttora, al locale fondatore del Ku Klux Klan. Contro la catena di omicidi si sta sviluppato un forte movimento di opinione che inalbera i cartelli (a San Francisco, ogni negozio lo espone) Black lives matter. Black, non African american: più chiaro, meno ipocrita.
Il politically correct ha avuto origini e percorsi diversi. Gli ebrei americani hanno ottenuto di non essere diffamati dalle vignette, di non essere chiamati col dispregiativo kike, di essere ammessi nei club e nei condomini, in pratica solo dopo l’Olocausto in Europa; chiamare un italiano wop (without papers, senza documenti) oggi non è solo disdicevole, ma è anche punibile, e anche questo è avvenuto dopo la guerra; il termine Godfather, invece, una volta avversato dalla comunità italoamericana, è ora addirittura il brand di una grande catena di pizzerie; è offensivo usare China man, perché ricorda il periodo in cui i cinesi erano semischiavi importati per costruire le ferrovie. I Japanese americans solo da poco tempo hanno visto riconosciuta la loro illegale e disumana detenzione durante la seconda guerra mondiale, quando erano dei pericolosi musi gialli.
E come la mettiamo con Dio? In America sono molto diffuse e potenti le chiese creazioniste, ovvero quelle che sostengono che il mondo è stato davvero creato in sei giorni e che l’evoluzione è una menzogna. Non è raro che queste chiese riescano a mettere Darwin al bando nelle scuole e si oppongano anche ai film sui dinosauri, simpaticissimi ai bambini, ma – ahimè – non compatibili con il creazionismo. Babbo Natale è discriminatorio per chi non è cristiano. I grandi magazzini lo usano con discrezione e sulle vetrine non scrivono Merry Christmas, ma Happy Holidays. Il presepe è contestato dagli islamici, il Ramadan, il rispetto del venerdì, del sabato e le restrizioni religiose in campo alimentare sono oggetto di contenziosi diffusi nelle scuole, negli uffici e nelle mense aziendali. La libertà di satira, soprattutto dopo la tragedia di Parigi, è oggi apertamente contestata. E dire che era stato George Bush, ai tempi in cui Chirac si oppose alla guerra in Iraq, a cambiare nome alle patatine fritte. Alla mensa del Senato, da French Fries diventarono Freedom Fries. Invasione, peraltro, era diventato regime change. (Forse era satira anche quella).
Misurati con la spanna del tempo, i cambiamenti maggiori li ha sicuramente ottenuti la rivoluzione femminista degli anni Sessanta. L’abolizione del Miss o Mrs per l’omnicomprensivo Ms, la definizione del concetto di sexual harassment (molestie sessuali), la ridefinizione dello stupro, che c’è «quando la donna dice no» (rape is when the woman said no) sono alla base delle conquiste ottenute sul lavoro, nel diritto di famiglia o nel costume.
Da quarant’anni, tra grosse spinte e periodi di riflusso, il femminismo non solo ha contestato alle basi il linguaggio quotidiano dei maschi, ma si è anche spinto nelle roccaforti del linguaggio scientifico. Famosa, per esempio, la contestazione della narrazione della procreazione fatta dalla biologa Emily Martin nel 1996. La versione maschile vuole gli spermatozoi compiere una «pericolosa missione» – dove molti non sopravvivono – nella calda oscurità del tratto genitale femminile. Uno solo risulterà vincitore nell’assalto all’uovo, che assiste passivo. Secondo Martin, le cose non stanno così. La coda dello spermatozoo lo muove lateralmente, con forza dieci volte superiore alla sua testa, proprio per evitare l’arrivo a contatto con l’uovo, il quale, peraltro, non è affatto passivo, ma esercita con la sua superficie una forza adesiva per catturarlo. Le parti sono dunque invertite, ma sulla metafora dell’eroico spermatozoo si è costruita la teoria dell’inferiorità femminile, non una cosa da poco perché coinvolge le basi dell’educazione sessuale, e oggi l’identità sessuale è diventata la nuova frontiera della sfida culturale.
La ormai gloriosa bandiera arcobaleno che sventola sul quartiere Castro sta per aggiungere un’altra lettera maiuscola oltre a L, G, B, T. È la Q di Questioning, ovvero le persone, in genere preadolescenti, che si interrogano sulla loro identità sessuale, che sentono incerta e indefinita, e che per questo sono vittime del bullismo, degli insulti, portati alla depressione e al suicidio. Di qui la richiesta che la questione sia affrontata, a partire dalla scuola elementare, con rispetto e senza ipocrisie. Di qui la fortissima opposizione di chi vede in questi» apertura l’ennesimo attacco alla «famiglia tradizionale».
Come finirà non lo sa ancora nessuno, ma mi è venuta in mente una scena quotidiana sull’autobus numero 48 che prendo per tornali* a casa e che attraversa il quartiere Castro. Ci sono i bambini che tornano da scuola, in genere in mezzo a simpatici travestiti, omaccioni con tatuaggi paurosi, ostentazioni di differenze sessuali di ogni genere. Tutti tendono a sorridersi, in un trionfo di tolleranza. Una volta, un bambino, rannuvolato per fatti suoi, stava scendendo e la maestra l’ha fermato. «Come si dice?» gli ha fatto, severa. Lui ha guardato la donna nera di centoventi chili, stivali, orecchini enormi e capelli blu, ha fatto un leggero inchino e ha pronunciato compunto: «Grazie, signora autista».
E mi è venuto in mente che non c’è nulla di più politically correct che la buona educazione imparata da bambini.