Gabriella Montali, Oggi 22/7/2015, 22 luglio 2015
LA STORIA DI ROBERTO BERARDI, TORTURATO IN GUINEA
«Al buio, sempre, in una cella di due metri per tre, mi lasciavano per giorni senza mangiare, mi frustavano, mi bastonavano... Ma era peggio quando torturavano i miei vicini. Da dietro il muro, sentivo i tonfi, le grida di dolore, poi i rantoli dell’agonìa. “Ora tocca a me, il prossimo sono io, tra poco morirò”, mi dicevo. In pochi mesi, e in seguito ai crudeli maltrattamenti, noi dell’isolamento da 14 eravamo rimasti solo sei. Ma dall’inferno di quella galera invece sono uscito: per la denutrizione ho perso 35 chili, insieme con i miei beni. Ma amo l’Africa, anche più di prima».
Lo incontriamo a casa dell’anziana mamma Silviana, Roberto Berardi, 50 anni, gli occhi che luccicano di commozione: è l’imprenditore di Latina nei giorni scorsi scarcerato dal penitenziario militare di Bata, nella Guinea Equatoriale. Lì, due anni e mezzo fa, questo connazionale ridotto pelle e ossa era stato rinchiuso con l’accusa di appropriazione indebita: diventando protagonista di un complicato caso diplomatico, subito esploso in Rete. Per restituirgli la libertà, per 921 giorni si sono impegnate le maggiori istituzioni umanitarie internazionali: dallo stesso Kofi Annan, responsabile del dipartimento diritti umani dell’Onu, ad Amnesty International, alle americane Open Society, Human Rights Watch, alla francese Sherpa France, all’italiana «A buon diritto». Più volte hanno disperato di poter riportare a casa quest’uomo d’affari da anni all’Equatore con una ditta di costruzioni in società con il ricchissimo vicepresidente della Guinea, Teodorin Obiang detto «il Principe», unico figlio del dittatore locale Teodoro. Prima di essere arrestato, Berardi si era scontrato con i potenti del posto; e dopo essere stato coinvolto in un procedimento per riciclaggio.
Cosa è successo?
«Sono stato raggirato. Come un fulmine a ciel sereno, mi sono trovato coinvolto in un procedimento per riciclaggio di denaro all’estero aperto dal Dipartimento di Giustizia californiano, determinato a vedere chiaro su certi vistosi acquisti fatti negli Stati Uniti, tra i quali alcune celebri mirabilia di Michael Jackson, per esempio i guanti tempestati di brillanti che Teodorin comprò per decine di milioni di dollari, insieme con jet privati e residenze del valore di centinaia di milioni. A mia insaputa (e con la complicità degli istituti di credito africani) il mio potente socio era riuscito ad aprire una serie di conti correnti paralleli intestati a me in quanto “socio con firma” di Eloba, la nostra azienda edile. E si serviva di questi canali per esportare negli Stati Uniti (ma anche in Francia e Svizzera) denaro estraneo agli utili della nostra società. Un tesoro, quello americano, esito di monumentali tangenti, di traffici di ogni tipo, e sul quale i giudici mi chiedevano spiegazioni. Mandai loro una montagna di carte, cominciai a rendermi conto di quel tentacolare sistema di contabilità. Denunciai la situazione. Prima che le accuse di frode contro il mio potente socio, riconosciuto colpevole dagli Usa, mi si rivoltassero contro. E finii in prigione con l’accusa di appropriazione indebita. Gli Obiang dovevano eliminarmi subito. Ero diventato un testimone troppo scomodo».
Non ne ebbero il coraggio?
«Non hanno voluto trasformarmi in un martire. Per di più bianco. Unico detenuto non di colore di quella galera destinata a criminali e ribelli. Non ho mai abbassato la testa, nemmeno là dentro. Quanti detenuti mi hanno difeso, quanti hanno preso botte al posto mio! Ammiravano il mio coraggio: in me vedevano un leader. Mi chiamavano “il vecchio coccodrillo che non muore”. Escobor, uno di loro, mi regalò una collanina di corda. Lui stesso l’aveva tessuta. “Ti porterà fortuna”, mi disse, “ti farà uscire da qui”. Due giorni dopo morì, nel corso di una tortura. Un altro detenuto mi ha dedicato il tatuaggio che porto al braccio sinistro. Rappresenta la spada del bene che taglia la testa di un terribile drago, emblema del male. “Questo sei tu”, mi disse quel vicino di cella, al termine del suo minuzioso lavoro. L’Africa è fatta di tante persone di cuore. Io ne ho incontrate molte anche in prigione».
Insomma lei si è salvato, ma il merito non fu della collana...
«Devo tanto alle organizzazioni umanitarie, che non hanno mai mollato, tenendo accesa l’attenzione sul mio caso, soprattutto sul web. Il popolo di Internet mi amava: gli Obiang, eliminandomi, avrebbero innescato una sorta di autogol d’immagine. Devo molto anche ai giornalisti. Ma il debito più grande ce l’ho verso la mia famiglia. Verso mia madre Silviana, con i suoi indomabili 80 anni, che mi ha sempre aspettato. Verso i miei figli Giulia, 20 anni, Marco, 16, e Claudio, 9. I primi li ho avuti da Rossella, la mia ex moglie di Latina che conosco da quando avevo sette anni e cui sono ancora legato da un’amicizia profonda: ha organizzato le fiaccolate, le veglie, i comitati per la mia liberazione. E tanto devo a Chantal, la mamma del mio terzogenito Claudio. È la mia seconda moglie africana, con cui mi sono costruito un’altra esistenza. Originaria della Costa d’Avorio e di lingua francese, ha sensibilizzato le associazioni umanitarie parigine (Teodorin è sotto processo anche in Francia, ndr)».
E dei suoi beni africani che ne sarà?
«I miei avvocati hanno aperto un contenzioso impegnativo. Da una parte c’è la causa civile per il recupero dei miei beni in Guinea, bloccati in seguito alle accuse e alla mia estromissione dall’azienda africana dove avevo investito ed ero azionista al 40%: qualcosa come una trentina di milioni di euro. Poi ci sono i gravissimi aspetti penali. I risarcimenti dovuti per arresto, detenzione e sequestro arbitrario di cittadino straniero, i crudeli maltrattamenti subiti, la malnutrizione, le torture... Ma l’Africa io l’amo. Voglio che la gente lo sappia: in Guinea Equatoriale ci sono persone fantastiche, e ricchezze infinite, in mano a un pugno di malvagi che affamano tutti gli altri. Quel Paese minuscolo, di cui non parla nessuno, galleggia sul petrolio. Da quando hanno cominciato a estrarlo, nei primi anni Novanta, l’avidità di pochi ha reso ancora più intollerabile la mancanza di libertà di quella feroce dittatura».