Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 24/7/2015, 24 luglio 2015
LA PARABOLA DEL BRASILE: DA VETRINA A MINA VAGANTE
I mondiali di calcio dello scorso anno e le Olimpiadi del prossimo. Pareva avviato a diventare il centro del mondo il Brasile, di sicuro la miglior vetrina per i cosiddetti cosiddetti Paesi emergenti: una storia da prendere come modello di crescita economica continua, duratura e sostenibile. Del resto i numeri erano tutti dalla sua parte, con un incremento del Pil che fra il 2010 e il 2014 viaggiava a un ritmo medio annuo del 3,2 per cento.
Pochi immaginavano che la corsa potesse arrestarsi nel giro di pochi mesi, fino a riportare il Paese a essere indicato come una sorta di mina vagante fra i già rischiosi fragile five. Proprio come nessuno poteva aver sognato, neanche come peggior incubo, il 7 a 1 subito dalla seleçao ad opera della spietata Germania nella semifinale di Belo Horizonte. E in fondo è quasi come se sul nefasto Mineiraço si fosse arenata un’intera nazione, non solo dal punto di vista calcistico ma anche e soprattutto sotto l’aspetto economico.
Ieri il real ha subito un nuovo tracollo, precipitando così ai minimi degli ultimi 12 anni nei confronti del dollaro, in quello che è un riflesso di una recessione ormai incombente (il Banco Central do Brasil prevede quest’anno una contrazione del Pil dell’1,1% e un’inflazione che potrebbe raggiungere il 9%) e al tempo stesso rappresenta anche un forte segnale di allarme per un Paese con un’esposizione debitoria verso l’estero di per sé non particolarmente rilevante, ma che negli ultimi 5 anni è cresciuta a un ritmo medio del 15% annuo.
Formalmente la crisi del Brasile nasce dal crollo dei prezzi delle commodity, che hanno colpito duramente un’economia che sul commercio delle materie prime basa il 60% delle esportazioni. Ma questo è purtroppo soltanto l’aspetto scatenante della questione, perché il Paese sudamericano ci ha messo del proprio per aggravare una situazione che scaturisce da uno shock esterno quale un brusco mutamento delle condizioni di mercato.
A conti fatti il grande sviluppo del Brasile nell’ultimo decennio si è basato, oltre che sul boom delle materie prime, anche su un piano di stimoli fiscali particolarmente aggressivo attuato prima dal governo Lula e proseguito poi da Dilma Rousseff. Un programma che equivale al 27% della ricchezza nazionale che ha sì spinto il Pil, ma che al tempo stesso ha fatto lievitare il debito pubblico (ora sfiora il 60% del Pil, uno dei più alti dei Paesi emergenti) e anche quello privato contribuendo a rendere il Brasile il più classico dei colossi dai piedi d’argilla.
La crescente instabilità politica (l’attuale coalizione di governo formata da 9 partiti non ha la maggioranza in parlamento), gli scandali e la corruzione che hanno coinvolto la stessa classe dirigente (il caso Petrobras e non solo), la sensibile esposizione a una Cina in rallentamento (dove si dirige il 20% dell’export) e il rilevante flusso di investimenti dall’estero (pericoloso in quanto instabile e soggetto a possibili riflussi) completa il quadro di un Paese fortemente vulnerabile.
Non per niente Morgan Stanley, tenendo in considerazione tutti questi fattori, lo colloca in testa alla propria classifica del rischio fra gli emergenti davanti a Turchia e Sudafrica e non è la sola a pensarla in questo modo. Il peggio, per il Brasile, potrebbe ancora arrivare.