Antonio Losavio, l’Unità 22/7/2015, 22 luglio 2015
LA STRANA STORIA DI SAGAN, COSI’ FORTE CHE NON VINCE PIU’
Otto vittorie nel 2015, tra cui una cronometro e il Giro della California. Quattordici secondi posti, cinque dei quali al Tour. Al Tour, con la sintesi estrema dei numeri, Peter Sagan è questo: cinque secondi posti, due terzi, un quarto, un quinto. Più l’ovvia maglia verde, che lo slovacco si appresta a vincere per il quarto anno di seguito. Più una scarica di rabbia, segnali di impotenza o talvolta di prepotenza. Più la paura di non essere più il Sagan di una volta ma di esserne diventato un altro, più completo, più forte dovunque ma non negli ultimi 20 metri di una corsa, dove non conta il talento complessivo ma l’essenza che Sagan aveva un tempo, quella del vincitore. Smessa, come un maglione vecchio, perché un nuovo corridore sorgesse.
Peter Sagan, detto Peto, è un caso quasi letterario. Dostoevskiano perché vinto, infallibilmente, da personaggi come Ruben Plaza, come Greg Van Avermaet, come il Gorilla Greipel, assai meno dotati, assai più capitati nei momenti e nei luoghi giusti, dopo che Sagan ha inventato, creato e distorto la realtà. Infallibilmente Sagan dice «sono il più forte» però poi non vince, non vince mai. Chi ha assistito alla sua discesa dal Col de Manse potrà parlare a lungo di un fenomeno come pochi mai se ne siano visti su due ruote, scatenato eppure in ritardo quanto basta, con se stesso e con la sorte. Poi alla fine, a Gap, dove Basso, in un Mondiale, superò Bitossi che ebbe il solo torto di guardarsi indietro una volta di troppo, Sagan si è battuto il petto tre volte, io, io, io, e invece a vincere è stato Ruben Plaza, cioè il Belluca di Pirandello, un mansueto, docile contabile della bici.
Il treno ha fischiato ma tardi per Sagan, fischia sempre tardi. Fino a due anni fa batterlo era un’impresa, ora se lo inventa lui, ogni giorno, il modo per farsi battere: l’attimo non gli sorride più, il vento lo pesca sempre sul lato sbagliato della strada, il sole è sempre troppo forte o troppo debole, oppure nevica come in quella Sanremo del 2013, quando i corridori arrivarono con le luci della sera, e anche allora Peto perse, da Ciolek, addirittura.
Nei giorni scorsi Daniele De Rossi, parlando della Roma, diceva: «Salire di un gradino dall’ottavo al settimo posto è facilissimo. Salire il gradino dal secondo al primo posto è un’impresa». Ed è un po’ il senso del mistero Sagan, dell’incubo Sagan. A 25 anni, con 67 vittorie in carriera, più di quante il 90 per cento dei corridori, sommando, non saprà metterne insieme in tutta la vita, per lo slovacco è arrivato il momento terribile del non sapere più che corridore è, se è ancora un velocista - ma i velocisti vincono - o un uomo da classiche - zero in carriera ancora - o semplice- mente uno da fughe - però è poco, per uno così. Qualunque Mondiale, per dire, sarebbe adatto a lui. E quanti ne ha vinti finora? Zero.
La Tinkoff Saxo è un posto difficile dove stare se non spacchi il mondo. Oleg Tinkov ogni tanto appare e le sue frasi non sono quasi mai carezze. Tanto che il prossimo anno lo sponsor danese sarà altrove: quei modi spaventano la gente che vuol mettere i soldi al sicuro, dato che Saxo è una banca. Un cult della preparazione del team russo è la scalata novembrina al Kilimangiaro, tutti insieme, zaino in spalla, scarponi da trekking, fino ai cinquemila metri. Pare che fortifichi lo spirito di squadra, l’attaccamento alla maglia, ai compagni. Certo, bisogna averne un po’, di spirito di squadra, lo zero non si po’ moltiplicare. Sagan non è un uomo squadra: Sagan è Sagan, corre sempre da isolato, non va all’ammiraglia a caricarsi di borracce, nemmeno per Contador. Lui prende, parte e se c’è i commentatori dicono, almeno una volta ogni due ore, «occhio a Sagan». Non potrà più crescere perché già ora nessuno è più forte di lui. Ma ogni giorno qualcuno di più forte lo trova, e come se ne esce da questo stato balordo di cose?
Bellezza riposata del centro gruppo, dove si fanno le corse: pare che lì dentro le simpatie per Sagan aumentino di giorno in giorno, al contrario di come, fino a due anni fa, diminuissero. Che presto, magari, una tappa gliela regaleranno pure, per ringraziarlo di aver reso il Tour ogni giorno un vero spettacolo e non una sfilata di ragionieri alla Froome, alla Thomas, alla Van Gardeen. La gente accede la tv per vedere uomini come Sagan, e se la tv è accesa gli sponsor sono felici e tutto, nel microcosmo economico del ciclismo, gira come deve girare, e il 27 i soldi arrivano puntuali. Con tanti Froome, il ciclismo chiuderebbe domani.
Un corridore di molti anni fa, Tano Belloni, detto “Belùn”, passò alla storia per gli innumerevoli secondi posti, tanto da farsi ricordare, che è poi lo scopo per cui si sta al mondo. Quelli che lo battevano si chiamavano Binda o Girardengo, è normale che lo battessero. La cosa eccezionale è che battessero sempre lui. Raymond Poulidor non vinse mai un Tour, ma andò sette volte sul podio di Parigi, tre volte secondo, quattro volte terzo. Gianni Mura scrisse che «Poulidor sbatterà le ali come un tacchino che sogna la bianca divisa del cigno, e i tacchini non vincono il Tour». Che animale è Sagan? Un pavone forse. A volte, ma più raramente, un tordo. La china però è brutale. Francesco Casagrande, che fu un grande dei suoi anni, non riuscì mai a vincere un Giro, una Sanremo, un Mondiale. La volta che fu più vicino al sogno rosa, si risvegliò al Sestriere spogliato della maglia. L’occasione era quella e non tornò.
Sagan, al contrario, è un produttore seriale di occasioni, un ciclostile delle opportunità, un commensale quotidiano della sorte, lui siede e non aspetta che le cose cambino, le cambia da solo. Sul fuoco che accende, spesso è l’ultimo a scottarsi. Però non ha paura e il pugno sul cuore questo diceva, che ce ne vuole uno grande per arrivare secondo, e che i vincitori, come scrisse Gesualdo Bufalino, non sanno quello che perdono.