Giovanni Maria Del Re, Avvenire 23/7/2015, 23 luglio 2015
I CINQUE ANNI DI SOLITUDINE DELL’EURO
La crisi dell’eurozona e il dramma greco non hanno fatto una gran pubblicità alla moneta unica nei sette paesi che secondo i trattati sarebbero obbligati a introdurla (Gran Bretagna e Danimarca godono di un’esenzione) una volta soddisfatti tutti i vari criteri di convergenza (deficit, debito, adesione al sistema di cambio Erm, anzitutto). Un recente sondaggio condotto tra aprile e maggio scorsi da Eurostat ha rivelato una spaccatura di orientamenti tra le popolazioni. In quattro prevalgono i favorevoli: Romania (68%), Ungheria (60%), Bulgaria (55%) e Croazia (53%). Una maggioranza di contrari all’adesione all’euro si registra in Repubblica Ceca (70%), Svezia (66%) e Polonia (53%). E un sondaggio nazionale a luglio ha messo anche la Croazia in questa categoria (60% di contrari).
Il paese che avrebbe più facilità ad aderire, vista la sua economia avanzata e moderna, oltre che l’anzianità di presenza nell’Ue (cui aderì nel 1994), è la Svezia. Peccato però che il 14 settembre 2003 abbia tenuto un referendum che ha visto il 55,9% di no contro il 42% di sì, sebbene i maggiori partiti e anche il mondo dell’impresa fossero a favore. Da allora Stoccolma ha evitato di aderire al sistema di cambio Erm, indispensabile per entrare nell’euro, né è in vista un nuovo referendum. Non aiuta l’avanzata della destra populista anti-Ue dei Democratici Svedesi data nei sondaggi al 16%.
Il resto dei candidati sono tutti ex paesi socialisti, il cui principale è la Polonia, sesta economia dell’Ue. Qui si registra l’avanzata del Partito della Legge e della Giustizia (PiS), fortemente nazionalista ed euroscettico, in testa nei sondaggi in vista delle politiche in autunno, dopo che un suo esponente di spicco, Andrzej Duda, a maggio ha vinto, a sorpresa, le presidenziali contro il filo-Ue Borislaw Komorowski. Beata Szydlo, la sfidante PiS del premier cristiano-democratico Ewa Kopacz, ha messo al centro della campagna elettorale la volontà di restare fuori dall’euro, accusando la Kopacz di «voler trasformare la Polonia in un’altra Grecia».
Spostandoci in Ungheria, il leader ultranazionalista Viktor Orban a giugno è stato perentorio: la crisi finanziaria dopo il 2008 ha «infranto il sogno» che l’euro «porti sicurezza e vantaggi» e dunque il fiorino ungherese sarà «ancora per vari decenni la valuta stabile e forte» del paese. Su posizioni scettiche nei confronti dell’euro si pone anche la Repubblica Ceca. Praga aveva originariamente puntato al 2010, poi la data è stata sempre posticipata, come non è stato rispettato l’impegno ad aderire all’Erm nel 2013. Recentemente il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka ha indicato come la data più vicina possibile per un’adesione il 2020, ma non c’è consenso nella coalizione di governo. Favorevolissimo è il presidente della Repubblica, Milos Zeman.
Una data precisa è stata invece fornita dalla Romania, che punta a introdurre l’euro dal primo gennaio 2019. Lo scorso aprile il governo ha annunciato di essere «nei tempi previsti» per il raggiungimento di tutti i criteri di convergenza entro dicembre 2018. La Romania però è ancora sotto sostegno finanziario internazionale con aiuti per 4 miliardi di euro e lo stesso premier Viktor Ponta tempo fa aveva indicato come «più verosimile» il 2020.
Più delicata la situazione della Bulgaria, che si trova in grave situazione economica e con le banche in affanno. A gennaio il ministro delle Finanze Vladislav Goranov ha definito «possibile » un’adesione almeno al sistema di cambio Erm per il 2018, il governo sta preparando una task force per preparare il paese all’euro.
Ultima a entrare nell’Ue (luglio 2013) la Croazia – appena uscita da una recessione durata sei anni – è divisa. Il presidente Kolinda Grabar-Kitarovic si è detta «convinta che nei prossimi cinque anni adotteremo l’euro» (2020), mentre il premier socialdemocratico Zoran Milanovic è molto meno entusiasta della prospettiva. «Non siamo pronti a indicare date al momento» ha tagliato corto il vicepremier Branko Grcic.