Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 23/7/2015, 23 luglio 2015
ISRAELE TEME IL CONTAGIO DEL BOICOTTAGGIO
Alla conferenza di Herzliyah d’inizio giugno, l’appuntamento annuale nel quale il potere israeliano si confronta sulle minacce presenti e future, Bibi Netanyahu aveva saltato le sfumature: il boicottaggio economico delegittima l’esistenza d’Israele ed è una forma di antisemitismo del XXI secolo. Nessuna considerazione politica, nessuna differenza fra un’opposizione legittima alle decisioni di un paese e la negazione dell’esistenza di quel paese.
Ma il movimento internazionale “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni”, conosciuto ormai con il suo acronimo di Bds – che esiste da sempre nel mondo arabo - si sta allargando in tutto l’Occidente. Soprattutto dopo le elezioni che hanno portato al potere l’esecutivo più nazional-religioso della storia d’Israele, e le dichiarazioni di molti suoi ministri contro uno stato palestinese.
Per evitare le semplificazioni di Netanyahu vanno distinte le azioni del Bds. La decisione del Louvre d’impedire l’accesso degli studenti israeliani al museo, è puerile. Il crescente boicottaggio culturale, nei centri di ricerca, nelle università, è una cosa più seria. Ancora di più lo sono il ritiro di banche e istituzioni finanziarie dai programmi d’investimento e fondi pensione dei coloni; e il disinvestimento delle industrie europee che avevano quote nelle imprese nei territori occupati. Tutto questo ha un aspetto più mirato, compiutamente politico e quindi più preoccupante per il governo israeliano. Secondo l’americana Rand Corporation, l’intero sistema del Bds potrebbe costare allo stato ebraico 47 miliardi di dollari in un decennio.
Ancora più diversa dal Bds è la decisione che l’Unione europea dovrebbe prendere presto, di boicottare i prodotti delle colonie. La “Direttiva Ue” non ne impedisce l’esportazione: si limita a rietichettare quei prodotti indicandone la provenienza e lasciando ai consumatori la decisione se acquistarli o no. Anche nel governo israeliano alcuni distinguono il movimento Bds dall’iniziativa della Ue. Ma solo alcuni. La maggioranza è convinta come Netanyahu che qualsiasi boicottaggio abbia un solo obiettivo: negare legittimità all’esistenza d’Israele.
L’export fra Unione e Israele vale 40 miliardi di dollari, per Israele è un terzo dei suoi scambi totali. I prodotti dei territori occupati valgono solo l’1% di tutto questo. Sono circa 600 le fabbriche che operano in Cisgordania, sulle alture del Golan e a Gerusalemme Est, i territori occupati. In gran parte non producono beni finiti ma componenti. Da anni ormai le imprese si stanno ricollocando all’interno della linea verde, cioè la frontiera d’Israele internazionalmente riconosciuta. Soda Stream che ha acquisito una posizione di rilievo nel mercato delle bevande gasate, ha spostato la sua linea produttiva dentro Israele; come Barkan, vini e prodotti agricoli. Anche Ahava, i cosmetici più apprezzati del Mar Morto, si sta organizzando.
Sul piano economico, dunque, le direttive Ue non hanno un grande valore. Molto più pesate sarebbe la loro applicazione su “Orizzonte 2020”, il piano d’investimenti nel settore della ricerca e dello sviluppo. La partecipazione europea e americana è notevole e determinante per l’’hi-tech israeliano. Ma un accordo è già stato trovato: gli israeliani hanno garantito che neanche un centesimo degli investitori stranieri sarà speso nei territori.
Tuttavia per gli israeliani conta l’aspetto politico delle direttive europee. E’ un precedente che rafforzerà la campagna Bds, fanno notare con preoccupazione. “Sul piano economico spingerà i consumatori europei a identificare come prodotto da boicottare tutto ciò che viene da Israele”, spiega un alto funzionario del governo, direttamente impegnato nella questione. “Su quello politico, se vuoi avere un effetto su Israele devi imparare a conoscere gli israeliani: ti devi chiedere cosa sia davvero utile e pragmatico e non, invece, cosa spinga la gente a credere che l’Europa sia diventata un nemico come gli arabi”.