Gianni Toniolo, Il Sole 24 Ore 23/7/2015, 23 luglio 2015
IL DEBITO E IL VELENO DELLE OPPOSTE NARRAZIONI
Con il trattato di Versailles fu imposto al Reich sconfitto un pesante debito a titolo di riparazioni di guerra. I tedeschi si proclamarono, e si ritennero sinceramente, vittime di vincitori arroganti, insensibili alle sofferenze del popolo e incapaci di comprendere l’insostenibilità economica del peso che caricavano sulle loro spalle. Da parte sua, la Francia (in posizione per qualche aspetto analoga a quella della Germania odierna) ricordava che nel 1815 e nel 1871 aveva onorato, senza tante storie, i propri debiti di guerra, addirittura prima della scadenza, a costo di pesanti ipoteche sulla propria finanza pubblica. Un debito è un debito, dicevano, e va onorato oggi come noi lo onorammo allora, costi quel che costidel creditore. Nacquero due narrazioni diverse, entrambe non prive di fondamento, ma tra loro inconciliabili. Anche perché le due storie erano narrate soprattutto a beneficio di ciascuna opinione pubblica interna. I politici di Weimar per indicare nello straniero il responsabile delle misere condizioni di vita di molti, anche nella classe media, l’accresciuta povertà, l’iperinflazione.
La classe dirigente francese, per parte sua, aveva basato la propaganda bellica sullo slogan “I crucchi (si può forse tradurre così il dispregiativo le Bosche) pagherà e l’opinione pubblica si aspettava esattamente questo da loro, insieme al riconoscimento della “colpa” unilaterale e totale della Germania per la tragedia della guerra.
Dal punto di vista del benessere complessivo dell’Europa, come scrisse Keynes, i tedeschi avevano buone ragioni: era autolesionista l’impoverire la Germania. Ma Berlino non mancò di usare l’argomento a fini propagandistici, esagerando le proprie difficoltà. Il debito tedesco fu spalmato su un gran numero di anni e pagato, finché durò, con un flusso di capitali privati. Nel 1931 fu dapprima sospeso poi cancellato. Sul debito privato vi fu un parziale default. Succede, quando i debiti sono economicamente o socialmente insostenibili.
L’analogia tra l’Europa degli anni venti e quella di oggi sconta, per fortuna, molte differenza, prima tra tutte il fatto che allora il debito fu imposto dai vincitori ai vinti con il trattato di pace mentre i debiti attuali furono assunti volontariamente dai vari paesi. Resta, mi pare, nei due casi l’analoga presenza di due opposte narrazioni dell’origine della crisi che si riflettono in opposte visioni sul come uscirne, entrambe – oggi come allora - connotate di valenze etiche, di principi irrinunciabili. Per la Germania (nella posizione della Francia degli anni Venti), il dovere di ripagare i debiti è obbligo morale imprescindibile.
L’Unione Europea non può sussistere senza lo scrupoloso rispetto da parte di tutti degli impegni liberamente assunti. Siano essi derivanti da contratti bi-multi laterali (tali sono i debiti) sia dalla firma di trattati (per esempio l’obbligo di mantenere il disavanzo pubblico entro limiti prefissati).
Senza il rispetto degli impegni assunti, dicono i tedeschi, si sgretola la fiducia reciproca, essenziale collante dell’Unione. In Grecia prevale una narrazione della crisi diametralmente opposta: il debito fu originariamente subìto (2010) per imposizione dei più forti intenti solo a salvare le proprie banche, inoltre c’è un limite invalicabile ai sacrifici che si possono imporre ad un popolo in nome della santità degli impegni assunti (si aggiungono, come sappiamo, altri argomenti, meno ragionevoli e plausibili). Esigere solidarietà e riduzione del debito da parte dei creditori è solo esigere giustizia.
Ciascuna “narrazione” della crisi e del modo di superarla riflette sentimenti radicati nelle opinioni pubbliche. Le opposte visioni sono state esasperate dalle vicende delle ultime settimane. Si riflettono tanto nell’inusitata durezza di taluni passaggi del documento ufficiale sull’accordo raggiunto il 12 luglio al Consiglio Europeo quanto nell’incredibile accusa di terrorismo lanciata da un ministro in carica nei confronti delle controparti in una difficile trattativa. Le narrazioni fanno parte di una propaganda che, come negli anni Venti e Trenta, può avvelenare i pozzi degli accordi lungo il futuro cammino dell’Europa, impedendo l’attenzione alle ragioni degli altri, senza la quale trattare diventa terribilmente difficile.
Sarà difficile ripartire nella costruzione dell’unità europea senza tornare a narrazioni meno apodittiche e virulente delle posizioni e ragioni di ciascuno.
Ma qualcosa va fatto in proposito. Un contributo importante devono darlo gli opinon makers: chi parla in televisione, scrive su giornali e blogs, twitta, insegna nelle scuole e nelle università. Ma ancora più devono fare i politici di governo e opposizione bandendo dalla quotidiana dialettica l’uso a fini di polemica interna interni di visioni esasperate e distorte di torti e ragioni nella politica europea.
Ha molto danneggiato la reputazione delle istituzioni europee, delle quali abbiamo più che mai bisogno, l’avere giustificato ogni scelta indispensabile ma impopolare dicendo “ce lo impone l’Europa” invece che “ce lo impone l’interesse nazionale, dobbiamo cambiare sia che l’Europa lo chieda sia che non lo chieda”.