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 2015  luglio 22 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - A RAPIRE I QUATTRO ITALIANI POTREBBERO ESSERE STATI GLI SCAFISTI


REPUBBLICA.IT
ROMA - Il quotidiano online libico Akhbar Libia24, citando fonti di Sabrata, città sulla costa nord-occidentale del Paese, ha scritto che "i quattro italiani rapiti sarebbero stati portati in una zona desertica dove è facile trovare nascondigli". Secondo le fonti, "i rapitori "hanno fatto scendere gli italiani dalla loro macchina, e li hanno fatti salire su un’auto obbligandoli a lasciare i loro telefoni cellulari". Il sito aggiunge che "l’autista dell’auto degli italiani è stato legato e abbandonato nel deserto".

Al momento, non c’è stata ancora alcuna rivendicazione del rapimento dei quattro uomini - Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla - di cui non si hanno più notizie da domenica sera. Non ha trovato conferma la pista del rapimento a opera di scafisti (scesi in campo per ’vendicarsi’ del ruolo in prima linea dell’Italia nel controllo delle coste) né quella sostenuta dal governo di Tripoli secondo il quale la mossa sarebbe opera di Jeish al Qabail (Esercito delle tribù), alleati del generale Khalifa Haftar, una formazione mista composta sia da arabi che da berber. Ma in un panorama frammentato e caotico come quello libico, piovono accuse reciproche che rendono molto nebuloso il panorama.

Ma alla domanda se il rapimento degli italiani in Libia possa essere una richiesta di scambio con scafisti detenuti, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano ha risposto a SkyTg24: "Faremo di tutto per liberarli. Non credo che possiamo escludere una pista, ma facciamo lavorare chi ha titolo a farlo e a farlo nel silenzio. Nessuno può dire se il rapimento possa essere attribuito" alla lotta agli scafisti. Successivamente, una nota diramata dal Viminale ha aggiunto: "L’unica cosa esclusa è che si tratti con gli scafisti".

Sulla vicenda, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da Malta ha dichiarato: "Tutti sono nel mirino: è nel mirino qualunque Paese che si batta per la tolleranza, la civiltà e il rispetto delle vite umane". Questo rapimento - ha proseguito - rappresenta una ferita aperta che speriamo si possa risolvere nel più breve tempo possibile". L’impegno dell’Italia per la soluzione della vicenda - ha poi concluso - è "molto forte".


Nel suo profilo Facebook, il Comando generale delle forze armate - operazioni dell’esercito nazionale, che fa capo al generale Haftar, con sede a Tobruk, ha oggi accusato le milizie di Zuara (Zuwarah), legate alla coalizione Alba della Libia (Fajr) che sostiene il governo di Tripoli, come responsabili del rapimento, un sequestro per scambiarli con scafisti libici detenuti: nella "notizia urgente" si legge che "nostre fonti confermano che le milizie della cosiddetta Fajr Libia di Zuara sono responsabili del sequestro dei quattro italiani". Nel messaggio si legge che il sequestro avrebbe lo scopo di "fare pressioni sull’Italia e ottenere la liberazione di sette libici arrestati per traffico di esseri umani nel Mar Mediterraneo".

Anche il politico libico Abdullah Naker, presidente del partito al Qimma, fedele al governo di Tobruk, ha rilanciato l’accusa contro le milizie di Alba della Libia. Naker ha ricordato che "il rapimento è avvenuto nella zona intorno a Mellitah". "Sappiamo tutti - ha continuato - che è controllata dalle milizie di Fajr. Queste milizie non sono nuove a questo genere di provocazioni ed hanno già rapito in passato alcuni diplomatici collaborano con i gruppi criminali e questo è il risultato". Naker ha invitato la comunità internazionale a prendere coscienza della "reale situazione in Libia" e ha aggiunto che "da tempo questi gruppi portano avanti provocazioni per chiedere soldi e imporre l’assunzione di persone a loro vicine nel porto di Mellitah".


LINKIESTA
DAVIDE VANNUCCI
Non sembra cambiato nulla, l’accordo raggiunto dieci giorni fa in Libia tra il governo di Tobruk e alcuni rappresentanti del fronte opposto (ma non dell’altro esecutivo, quello di Tripoli) resta sulla carta. L’ex colonia italiana non riesce a sottrarsi al caos e quattro nostri connazionali, tecnici che lavoravano per la Bonatti, un’azienda di Parma, sono stati rapiti nella zona di Mellitah, sede di un grande impianto dell’Eni. Gian Franco Damiano, presidente della camera di Commercio italo-libica, parla con Linkiesta, inserendo il particolare nel generale e unendo i trattini: da una parte, il caos della Libia, dall’altra, le debolezze della nostra politica estera.
Damiano, che idea si è fatto sul rapimento?
Le ipotesi più probabili, allo stato attuale, sono due. O il sequestro è opera di criminali comuni, per cui lo scopo è semplicemente estorsivo. Oppure si è trattato di una diatriba tra milizie.
Lo Stato Islamico non c’entra? A pochi chilometri da Mellitah, a Sabratha, c’è un campo di addestramento dell’Isis.
Non credo che la responsabilità sia dello Stato Islamico. Quella è un’area in cui operano sia le milizie legate al governo di Tripoli sia quelle vicine a Tobruk. Difficile che l’Isis si esponga in questa maniera. E non penso neppure che dietro il rapimento ci sia il generale Khalifa Haftar. Non si può escludere nulla, è vero, ma ritengo che il generale, vicino all’Egitto di al Sisi, abbia altri modi per influenzare la politica italiana.
Quante aziende del nostro Paese operano adesso in Libia?
«Da circa un mese e mezzo, un buon gruppo di tecnici è tornato nel Paese»
Non le posso fornire delle cifre, per motivi di sicurezza. Ma in Libia l’Italia è presente, sia con le imprese sia con i tecnici specializzati. Non ci sono solo le aziende che collaborano con l’Eni. La maggior parte degli italiani lavora nel campo dell’impiantistica e in quello della manutenzione. Centrali elettriche, acquedotti ed altro. Ci sono quelli che lavorano da sempre nel Paese, quelli che non se sono mai andati, ma, da circa un mese e mezzo, un buon gruppo di tecnici è tornato nel Paese.

MESSAGGIO PROMOZIONALE
A febbraio la nostra ambasciata ha chiuso e la Farnesina invita a rientrare in patria.
Infatti il saldo tra entrate e uscite è ancora negativo. Il deterioramento della situazione ha portato gli italiani a lasciare la Libia, ma adesso c’è una certa ripresa in entrata. Siamo tornati, sia in Cirenaica che in Tripolitania. L’unica zona in cui siamo assenti è il Sud.
Quali misure di sicurezza hanno adottato le nostre imprese?
«La sicurezza in Libia si ottiene attraverso la conoscenza del territorio e l’attivazione di relazioni sul campo»
Guardi, la sicurezza in Libia si ottiene attraverso la conoscenza del territorio e l’attivazione di relazioni sul campo. La maggior parte delle aziende non ha contractor privati per la sicurezza. Ci si affida alle milizie libiche, che vengono pagate per controllare i compound. Questo può portare a dei problemi, perché ci possono essere degli screzi. Tempo fa, a Ras Lanuf, c’è stato un problema relativo al pagamento delle milizie, ad esempio.
I quattro rapiti non avevano alcuna forma di protezione.
Sembra di no. Eppure io dubito fortemente che fossero da soli. Difficile che abbiano fatto il percorso dalla Tunisia senza alcun tipo di scorta. Ma ai posti di blocco può succedere di tutto. Chi ha più uomini, comanda. Dipende tutto dalle milizie, quindi può essere che gli italiani siano stati coinvolti in qualcuno dei loro screzi.
Cosa cambia con il recente accordo per un governo di unità nazionale in Libia?
Onestamente non ho grandi speranze riguardo al tentativo di Bernardino Leon, che sostanzialmente cerca di trasferire il governo di Tobruk nel nuovo ordinamento. Il rappresentante dell’ONU ha lavorato per un anno senza cavare un ragno dal buco. Il problema è che, mentre in Cirenaica si può interloquire con le tribù, attraverso i loro capi, in Tripolitania c’è uno sfarinamento totale. Non esiste un controllore politico. Sei mesi fa a Tripoli c’è stato un cambio di governo, senza alcun esito.
Non sarebbe più semplice mettere d’accordo i padrini dei due fronti, Egitto ed Emirati, da una parte, Qatar e Turchia dall’altra?
«C’è un solo Paese che può prendere in mano la questione. Questo Paese è l’Italia»
La Turchia ha altri problemi, non credo che si voglia esporre. C’è un solo Paese che può prendere in mano la questione, tenendo conto del fatto che gli Stati Uniti si sono sfilati. Questo Paese è l’Italia. Noi possiamo dialogare con tutti, con Tripoli, con Bengasi, con Tobruk. Purtroppo abbiamo fatto una scelta sbagliata, quella di accodarci all’Egitto. La nostra politica estera è stata deficitaria. Si ricorda quello che successe a febbraio, dopo la decapitazione dei copti a Sirte?
Intende le dichiarazioni "bellicose" di alcuni ministri?
Sì, il ministro degli Esteri Gentiloni e quello della Difesa, Pinotti, parlarono di 5.000 uomini già pronti. Bene, il giorno dopo la nostra ambasciata è stata costretta a chiudere. Renzi è riuscito a recuperare la situazione solo alcuni giorni dopo.
Cosa dovremmo fare, quindi?
«Dovremmo smettere di seguire le direttive di al Sisi, un dittatore che ha interessi definiti in Cirenaica»
Dovremmo smettere di seguire le direttive di al Sisi, un dittatore che ha interessi definiti in Cirenaica. Haftar è un suo uomo, è un militare, che ragiona come lui. Dovremmo lavorare a un’intesa che coinvolga tutti. E invece in Libia paghiamo le conseguenze di una politica estera sbagliata. Chissà, forse se l’ambasciata fosse stata aperta, il rapimento non ci sarebbe stato. Non lo so, ma probabilmente alcune antenne si sarebbero drizzate.

Il vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, è nato in Libia e più di quaranta anni fa è tornato a vivere lì, dopo aver studiato in Italia. Famiglia veneta, è l’ultimo italiano rimasto in città, nella chiesa di San Francesco. Sul sequestro dei quattro tecnici del colosso Bonatti, rapiti domenica 19 luglio nella zona di Mellitah, dice: "Mi sono direttamente interessato, non è facile capire cosa sia successo. Secondo lo stile libico, immagino che chi li ha presi adesso aspetti, perché vuole qualcosa. Mi sono interessato con una persona, penso che lui possa fare qualcosa"

LA STAMPA.IT
GIORDANO STABILE
Ancora nessuna rivendicazione. A tre giorni dal sequestro dei quattro tecnici italiani della Bonatti in Libia non ci sono certezze. Tutte le piste rimangono aperte, ha confermato il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Compresa quella di un rapimento da parte di una banda di scafisti, che però non trova conferme.
Alfano ha ribadito che l’Italia «farà di tutto per liberare» Fausto Piano, Gino Pollicardo, Filippo Calcagno e Salvatore Failla. Compreso un eventuale scambio di prigionieri se i quattro fossero stati rapiti da una banda di scafisti infastiditi dalle operazioni di contrasto al traffico di migranti condotte dalla Marina italiana. Operazioni che hanno portato anche all’arresto di alcuni scafisti, ora detenuti nel nostro Paese. Ma resta solo un’ipotesi. Che non «si può escludere», come tutte le altre.
I quattro tecnici sono stati sequestrati domenica sera a Mellitah, nella zona di Sabratah, dove esistono importanti infrastrutture petrolifere italiane. La zona, sottolinea il governo libico di Tobruk, alleato dell’Occidente e riconosciuto dalla comunità internazionale, «è controllata dalle milizie che fanno capo a Fajr Libya», il cartello «Alba libica», a ispirazione islamica, padrone dell’Ovest della Libia. Il portavoce di Fajr Libya proprio oggi ha affermato che il suo gruppo «non è dietro il rapimento degli italiani» aggiungendo però che «sappiamo che gli italiani si trovano nel sud-ovest e che entro 10 giorni saranno liberi».
Un’ipotesi per ora senza conferme. Come neppure la tesi del governo libico di Tripoli, che ha puntato il dito contro una formazione alleata dell’arcinemico generale Khalifa Haftar, cioè il Jaish al Qabail, «l’esercito delle tribù». Più una mossa interna al conflitto libico che una vera pista. Lo scambio di accuse fra Tripoli e Tobruk non aiuta le indagini e neppure la mediazione Onu per arrivare alla fine della guerra civile.

PEZZO SUI QUATTRO RAPITI DI REP STAMATTINA

NAZIONALE - 22 luglio 2015
CERCA
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MONDO
Gino, Fausto, Filippo e Salvo: l’attesa tra preghiere e una telefonata
ILRACCONTO
GIUSEPPE FILETTO GIORGIO RUTA
LA SERA del 24 febbraio 2011 Gino Pollicardo era riuscito a salire sull’aereo noleggiato dalla Bonatti di Parma e decollato da Tunisi per Malta e poi fino a Roma. Al confine tra Libia e Tunisia, nei giorni in cui cadeva il regime di Gheddafi, per 24 ore rimasero 150 dipendenti della multinazionale che gestisce gli impianti petrolchimici di Mellitah.
«Era riuscito a scappare», racconta il nipote, che di nome fa Gino, anche lui. Stavolta il tecnico di Monterosso al Mare non ce l’ha fatta. Con lui, domenica sera, arrivati dall’Italia nella capitale tunisina, c’erano Filippo Calcagno (di Piazza Armerina), Salvatore Failla (di Carlentini) e Fausto Piano (di Capoterra). I quattro italiani rapiti in Libia, mentre rientravano al campo base.
L’ultima telefonata di Gino è delle 20. Ha chiamato alla moglie, Ema Orellana, cilena conosciuta 25 anni fa durante un viaggio di lavoro, che ha sposato e con la quale ha messo famiglia, nel borgo delle Cinque Terre. «Mi ha detto che era arrivato, che ad attenderlo c’era la macchina – ha raccontato la donna ai familiari – avrebbero fatto 2 ore di tragitto, accompagnati dalla scorta». Armata, composta da mercenari. «Mio zio non ha mai parlato di pericolo – precisa il nipote - ci ha sempre detto che il campo è militarizzato e c’è sempre pronto un mezzo per scappare».
Domenica sera a pedinarli non c’era soltanto la scorta. E da due giorni nello Spezzino, in Sicilia come nel Cagliaritano, si attende la notizia che siano ancora in vita e che il rapimento sia a scopo di riscatto.
A Monterosso ieri don Antonio gli ha dedicato la messa vespertina: «Preghiamo perché ritorni presto». Gli abitanti hanno alzato una cortina protettiva attorno ai Pollicardo. Però, alle 11,35, dopo 48 ore di silenzio, Ema ha trovato la forza di affacciarsi alla finestra di via 4 Novembre: «Sono momenti difficili - ha detto - non sappiamo nulla anche noi, scusateci, io non ce la faccio a scendere per parlarvi... ». Uniche parole di una donna che non dorme da due notti. Ha gli occhi gonfi, il volto stanco, commovente. La bandiera sul balcone non è della Libia, ma del Cile, fresco vincitore della “ Copa Amèrica”.
Nel borgo arso dallo scirocco che arriva dal Golfo della Sirte, invaso da turisti giapponesi e russi, non si parla d’altro. «Conosco Gino? - domanda Roberto Bertagna, cuoco della Ustaia Ca’ du Sciensa’ - . Qui siamo quattro gatti, ci conosciamo tutti». Lui e Gino sono di più: coetanei, hanno fatto le scuole medie seduti sullo stesso banco. «Lui poi ha fatto il liceo scientifico a Levanto, non si è laureato, ma da anni gestisce il personale nel campo base di cui è responsabile ».
Pollicardo, 55 anni, è stato a casa 22 giorni: il papà Giuseppe è ricoverato in ospedale ed ha saputo del rapimento del figlio dalla televisione. Il tecnico l’ultima volta è stato visto sabato, con i figli Gino Junior (23 anni) e la figlia Jasmine di 17. «È venuto a mangiare da noi - aggiunge Roberto - mi è sembrato tranquillo, come sempre». Domenica mattina è ripartito. Non si sa cosa è accaduto nelle 2 ore di tragitto tra la capitale della Tunisia e Mellitah. «Lo zio diceva sempre che questo era il punto più difficile», ricorda Gino Del Medico.
Oggi il nipote e zia Ema saranno a Roma, alla Farnesina. Come i familiari di Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla.
Calcagno, prima di ripartire per la Libia ha portato all’altare suo figlio Gianluca: il 14 luglio e nessuno immaginava che in una settimana sarebbe arrivato l’incubo. È un tecnico specializzato, ha lavorato per tanti anni al petrolchimico di Gela, prima di passare alla Bonatti. La moglie e la figlia più piccola, Cristina, pregano in casa, protetti da polizia e carabinieri. «Non possiamo parlare, capiteci», dicono i cognati.
Dall’altra parte della Sicilia, a Carlentini, si vive la stessa angoscia. «Siamo frastornati, speriamo tutto questo finisca presto », dice Enza, sorella di Salvatore. La moglie e le figlie, di 12 e 22 anni, lo aspettano nella casa della sorella. Il suo ritorno era previsto per agosto. Lo sguardo fisso sul telefono, sperano in una notizia. Anche Salvatore, saldatore specializzato, non è uno sprovveduto: ha lavorato all’estero e in diverse regioni italiane, prima di andare in Libia.
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CRONACA DI REP STAMATTINA
MONDO
LA GIOR NA TA
“I quattro tecnici italiani rapiti una vendetta dei trafficanti” Gentiloni: ipotesi prematura
È la pista indicata da alcune fonti di informazione di Tobruk Appello dell’Onu: “Vanno liberati senza alcuna condizione”
Gentiloni con l’inviato Onu per la Libia Leon ieri alla Farnesina
ROMA.
È presto per dire chi abbia rapito i quattro tecnici italiani impegnati in Libia, ma dietro il sequestro potrebbero esserci trafficanti di esseri umani. «Sembra molto improbabile che ci siano motivazioni politiche dietro il rapimento», dice l’ambasciatore libico in Italia, Ahmed Safar. Secondo Safar, quando i responsabili vengono identificati questo genere di rapimenti si risolve pacificamente. In altre parole, sembra farsi largo l’idea di un sequestro a scopo di estorsione, come sostiene anche il giornale pan-arabo
Al Hayat ,
piuttosto che quella – più preoccupante – di un collegamento con gli uomini del sedicente Stato Islamico, o del gruppo
Geish al Qabila,
l’Esercito delle tribù, milizie tribali contrapposte a Fajr
Libya.
Più prudente nel fare ipotesi è il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che ha comunque definito «premature e imprudenti» le interpretazioni politiche del rapimento e ha invitato tutti «a mostrare il volto di un Paese unito, come l’Italia, che conosce il terreno e ha fiducia nel lavoro della diplomazia e dell’intelligence».
Insieme con l’inviato delle Nazioni Unite Bernardino Leon, il titolare della Farnesina ha invitato «tutte le parti libiche» a condividere l’accordo firmato da alcune fazioni il 12 luglio scorso, sottolineando che l’intesa firmata è solo un primo passo, ma chi ne resta fuori va incontro all’isolamento internazionale. Il ministro ha ribadito che la sicurezza della Libia «non significa immaginare spedizioni di uomini», ma piuttosto «un lavoro di training, monitoraggio e sorveglianza, che dovrà rispondere alle richieste libiche». A ripetere che sarà indispensabile un intervento di stabilizzazione della comunità internazionale è stato lo stesso Leon, secondo cui questa missione «avrà una componente civile, una di polizia e magari una componente militare». Stabilizzare la Libia vuol dire soprattutto lavorare su due fronti: quello del terrorismo e quello del traffico di migranti.
L’uomo dell’Onu ha ringraziato l’Italia, che ha messo a disposizione cooperazione e intelligence e ha indicato i tre elementi indispensabili per il successo della missione: «l’impegno per un governo di unità, l’interesse per la sicurezza nel Paese e l’importanza di finalizzare l’accordo». Leon ha chiesto a nome delle Nazioni Unite la liberazione dei quattro tecnici italiani «senza condizioni».
Anche il governo filo-occidentale di Tobruk, che si contrappone a quello di ispirazione islamista di Tripoli, ha avviato le sue ricerche: «Faremo ogni sforzo possibile per proteggere la loro integrità, essendo loro impiegati dell’Ente petrolifero nazionale libico».
(g.cad.)
©RIPRODUZIONE RISERVATA
I TECNICI In alto, Fausto Piano posa davanti a un carrarmato. Da sinistra , Salvatore Failla, Filippo Calcagno e Gino Pollicardo. Le foto sono tratte dai loro profili Facebook. I quattro tecnici della Bonatti di Parma sono stati rapiti a Mellitah, a circa sessanta chilometri da Tripoli. Alcune fonti locali parlano di vendetta contro l’Italia che si batte contro i trafficanti di migranti Qualcuno ipotizza che sia stato chiesta in cambio dei tecnici la liberazione di sette scafisti libici. Ma il ministro Paolo Gentiloni frena

INTERVISTA A ANGELO DEL BOCA DI CADALANU

NAZIONALE - 22 luglio 2015
CERCA
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MONDO
L’intervista
Il pessimismo dello storico Angelo Del Boca: “Impossibile un accordo fra le tribù”
“Inviare soldati è un errore senza un leader vince il caos”
GIAMPAOLO CADALANU
ROMA. Nemmeno Angelo Del Boca riesce a distinguere bene quello che sta succedendo in Libia. Per il massimo storico delle imprese coloniali italiane «la situazione è molto complicata, nonostante il lavoro indefesso dell’inviato Onu, Beniamino Leon…».
Sta facendo dell’ironia, professore?
«Sì».
Non sembra avere molte speranze sulle possibilità di far fare la pace alle fazioni in lotta. Come mai?
«Si sapeva dall’inizio che sarebbe stato difficile mettere d’accordo due entità così diverse. Se Tobruk alla fine sembra disposta a cedere, Tripoli non cederà mai. Ma anche se arrivassero ad un accordo fra loro, servirebbe a poco. Ci sono moltissime altre fazioni armate, i gruppi sono centinaia. E ognuno vuole la sua fetta di potere».
Ritiene credibili i proclami di affiliazione di alcuni gruppi al sedicente Stato Islamico e l’idea che Al Baghdadi voglia impadronirsi del petrolio libico?
«Per ora mi sembra che sia ancora un gioco di gruppuscoli che cercano il loro spazio».
Come faceva Gheddafi a tenere tutti sotto controllo?
«Era un uomo di grande intelligenza, capace di governare trecento tribù. Teneva tutto in mano, conosceva tutti i personaggi importanti. È caduto solo di fronte alla potenza militare della Francia e dell’Inghilterra, e purtroppo anche dell’Italia».
L’Italia aveva firmato un accordo di amicizia con la Jamahiriya e poi invece ha partecipato alle missioni militari contro Gheddafi. Che ne pensa?
«È stata una vergogna. L’ho scritto chiaramente nel mio ultimo libro su Gheddafi, credo che il presidente Napolitano abbia violato la Costituzione imponendo di fatto la partecipazione alle operazioni contro Tripoli».
In quei giorni molti credevano che l’Italia dovesse in qualche modo stare a fianco dei partner europei...
«Credo che Napolitano sapesse molto bene quello che faceva. Bastava guardare alla Germania della Merkel per avere il riferimento di un Paese che non partecipava alla guerra».
Torniamo a questi giorni. C’è chi ipotizza che il rapimento di quattro italiani possa essere un avvertimento al nostro Paese, che ha dato disponibilità a guidare una missione militare in Libia. Come valuta quest’idea?
«Ma no, è una sciocchezza. In Libia i rapimenti sono cosa di tutti i giorni. Succede ben altro che il sequestro di lavoratori occidentali con il caos del Paese».
Lei è sempre stato critico sull’idea di una nuova operazione libica sotto il tricolore. E’ sempre della stessa opinione?
«Guardi, la situazione è così caotica che diventa ridicolo proporre una missione. Il ministro ha detto: siamo pronti, mandiamo cinquemila soldati. Ma per fare cosa? Con quale progetto, a fianco di chi? Sarebbe un grande errore, anche se ce lo chiedesse l’Onu».
Ma insomma, professore, come si viene fuori dal caos libico?
«Non si viene fuori. Non ci sono personalità in grado di trovare la via d’uscita. E il generale Haftar, che cerca l’appoggio egiziano, non è Gheddafi».
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I DUE GOVERNI
Un’intesa non risolverebbe nulla Ci sono altre fazioni armate e ognuna vuole la sua fetta di potere
L’ESPERTO Lo storico del colonianismo Angelo Del Boca, autore di vari libri su Gheddafi e la Libia


FIORENZA SARZANINI SU CDS DI STAMATTINA
ROMA Il rischio forte è che il prezzo per il rilascio dei quattro italiani adesso diventi altissimo. Perché il clamore per il rapimento avvenuto in Libia certamente farà alzare la posta. E perché l’area che si affaccia sul Mediterraneo dove i dipendenti della Bonatti — Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla — sono stati catturati tre giorni fa, è controllata dai trafficanti di uomini. Gruppi criminali che gestiscono i viaggi verso l’Italia e potrebbero aver fiutato l’affare di sfruttare il sequestro per pretendere una contropartita che non sia soltanto economica. Un’organizzazione comunque ben strutturata, nessuno ancora può escludere che abbia una connotazione islamista. Tutti i possibili contatti sono stati attivati, in quella zona la presenza dell’Italia è comunque pesante visto che numerose aziende continuano a operare nonostante pericoli e difficoltà. Bisogna evitare il passaggio di mano, impedire in ogni modo che altri gruppi — di connotazione più politica o fondamentalisti — cerchino di interferire, addirittura di gestire gli ostaggi e le trattative con l’Italia.
La cattura
L’ipotesi più accreditata in queste ore è che i quattro siano stati «segnalati» al momento del passaggio della frontiera tra Tunisia e Libia, mentre erano a bordo del pulmino che doveva portarli nella base di Mellitah. Merce preziosa, soprattutto in un momento di difficoltà per gli scafisti che certamente hanno perso numerose imbarcazioni e — pur continuando a organizzare le traversate verso l’Italia e la Grecia — sanno di essere maggiormente sotto controllo. E dunque cercano altre fonti di guadagno. Se così fosse si tratterebbe di un’azione non premeditata, che comunque necessita dell’impegno di svariate persone per la custodia dei sequestrati. Un’esigenza che comunque potrebbe non rappresentare un problema visto che proprio in quella Regione ci sono interi stabili utilizzati per nascondere gli stranieri in attesa di imbarcarsi verso l’Europa. Palazzine che affacciano sulla costa, ma anche dimore più isolate, dove non è difficile tenere segregati quattro occidentali. Del resto il traffico di essere umani è controllato anche da ex miliziani del regime di Gheddafi con legami e contatti ben ramificati e ciò è fonte di ulteriore preoccupazione per l’ intelligence e diplomazia che stanno cercando di aprire il giusto canale per un negoziato, sfruttando quelli già percorsi per riportare a casa gli altri italiani sequestrati nei mesi scorsi.
Il prezzo
A rendere più complicata la trattativa questa volta è il numero degli ostaggi. Bisogna essere cauti, nella consapevolezza che la richiesta potrebbe essere molto onerosa. Viene analizzato e interpretato anche il minimo dettaglio, ogni dichiarazione pubblica viene letta per il messaggio che può contenere. Per questo ha destato interesse la posizione dell’ambasciatore libico in Italia Ahmed Safar, rappresentante solo di una parte del Paese visto che in Libia ci sono quattro fazioni che rivendicano di essere autorità nazionale, ma l’unico Parlamento riconosciuto a livello internazionale è quello di Tobruk. Ieri proprio da lì è arrivata la nota pubblica per sfruttare la situazione e ribadire la necessità di «revocare l’embargo sulla fornitura di armi all’esercito libico, fornendogli esperti, informazioni ed equipaggiamenti moderni affinché sia in grado di combattere e sconfiggere il terrorismo». Afferma invece il diplomatico: «Gli inquirenti in Libia occidentale sospettano che dietro il rapimento ci siano motivazioni criminali e che uno o più trafficanti di esseri umani abbia agito per rappresaglia contro la missione che punta ad individuare le navi che salpano dalla Libia per l’Europa».
La politica
In realtà gli analisti non credono a una ritorsione, piuttosto ritengono che ci possa essere la volontà di sfruttare la vicenda, ma sempre in termini di contropartita. E sono preoccupati che «suggerimenti» di questo tipo possano in realtà servire proprio a spostare il negoziato su un terreno più politico. Anche perché è proprio Safar ad aggiungere: «Qualsiasi notizia, affermazione e simili che manchino di credibilità non farà altro che infiammare la situazione in quanto rappresenta un tentativo a buon mercato di ottenere vantaggi politici a spese di vite umane». Al momento non c’è stato alcun tipo di rivendicazione e questo fa ben sperare: il tempo trascorso dalla cattura è comunque troppo breve, gli esperti sono concordi nel sottolineare che per avere un quadro più preciso bisognerà attendere almeno altre 48 ore. Non a caso il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, nel corso dell’incontro con l’inviato speciale dell’Onu per la Libia Bernardino Leon, ha definito «prematuro e imprudente dare interpretazioni politiche sul movente».
Fiorenza Sarzanini

GIUSI FASANO SUL CDS DI STAMATTINA INTERVISTA SANALLAH
«Sfortunatamente è stato fatto qualche errore, sono state violate le procedure di sicurezza».
E cioè?
«E cioè i quattro italiani viaggiavano in macchina soltanto con l’autista, senza nessuno che li proteggesse. E poi dopo il tramonto... erano le nove e mezza di sera, non si può fare. Ora la polizia sta cercando di capire perché si sono mossi in quel modo, chi ha organizzato il viaggio dalla Tunisia, perché hanno scelto di viaggiare via terra...»
Ci sono alternative?
«Sì, le procedure dicono che avrebbero dovuto viaggiare via mare invece che dalla terraferma. Non è stato prudente, non era certo un viaggio sicuro...».
La voce di Mustafa Sanallah arriva da Tripoli. È lì che si trova il quartier generale della National Oil Corporation (Noc), il colosso libico del petrolio e del gas del quale lui è presidente e amministratore delegato. Ora: i nostri quattro connazionali rapiti erano al lavoro, per conto dell’azienda Bonatti di Parma, all’impianto di Mellitah, che ha come operatore l’Eni ma che è gestito dalla Noc. Quindi, al netto dei vari passaggi, si può dire che i sequestrati lavorassero (indirettamente) per i libici della National Oil Corporation (dei quali l’Eni è partner principale).
Presidente Sanallah, lei si sta interessando personalmente della sorte degli italiani rapiti...
«Prima di risponderle vorrei esprimere la mia vicinanza alle loro famiglie. Quando abbiamo avuto la notizia siamo rimasti tutti scioccati e seguiamo l’evolversi della situazione 24 ore su 24. Proprio adesso ho appena finito un meeting con le comunità locali di un’area vicina a Mellitah. So che i parenti di Fausto Piano hanno contattato alcune persone nell’est del Paese dove lui è molto conosciuto. Abbiamo messo in campo tutte le forze possibili per cercare di aiutare gli amici italiani. So che la polizia ha interrogato a lungo l’autista che era con loro...»
Conosce il contenuto dell’interrogatorio?
«Mi hanno detto che ha raccontato di essere arrivato da ovest (dalla Tunisia, ndr ). Dice di essersi accorto che dietro di lui c’era un’auto e che quand’erano a circa cinque chilometri da Mellitah quella macchina li ha costretti a fermarsi e a deviare verso sud».
Secondo questa versione i rapitori si sarebbero allontanati dalla strada principale «per poter catturare gli italiani», come racconta l’ad della Noc, e rimettersi in marcia di nuovo nella direzione ovest da cui erano arrivati. Forse perché proseguendo lungo la via per Mellitah sapevano che avrebbero trovato una «specie di gate», come lo chiama Sanallah, un posto di blocco. I dettagli della testimonianza, però, non sono tutti noti.
Sa cos’è successo all’autista?
«Non gli hanno fatto niente. Hanno catturato gli ostaggi e lo hanno abbandonato fuori dall’auto».
Che idea si è fatto riguardo ai rapitori? Sequestro a scopo di estorsione?
«Non abbiamo nessuna informazione precisa».
Che cosa fa la Noc per fronteggiare i rischi che corrono le aziende straniere nel Paese?
«La situazione non è facile ma cerchiamo di fronteggiarla. Abbiamo avuto molte minacce di attacchi e ogni volta che è successo abbiamo evacuato gli impianti. In più incontri, soprattutto in un incontro a Malta assieme al nostro partner Eni, abbiamo preso molte decisioni sulle misure di sicurezza da adottare, sulla sorveglianza dei giacimenti petroliferi e degli stabilimenti. A Mellitha, per esempio, adesso la sicurezza è molto ben gestita. E abbiamo studiato delle procedure, come dicevo prima, che dicono dove andare e come muoversi».
E secondo lei gli italiani non le hanno seguite...
«Sfortunatamente no. Da soli e a quell’ora poi... nemmeno noi lo facciamo».
Il suo Paese è quanto mai nel caos in questo momento.
«È tutto difficile, sì. Ma andiamo avanti senza arrenderci. Dobbiamo costruire il futuro».

LORENZO CREMONESI SUL CDS DI STAMATTINA
AL NOSTRO INVIATO TRIPOLI Possiamo provare a dare un’identità ai rapitori dei quattro italiani in Libia: sarebbero gli scafisti della regione di Zuara. E’ la risposta che raccogliamo quasi unanime dalle vecchie conoscenze della stampa tripolina, che ormai dalla rivoluzione del 2011 si sono fatte le ossa nel caos violento che domina la regione.
E il motivo che li avrebbe spinti all’azione sarebbe stata una sorta di vendetta-avvertimento all’Italia: non disturbate le nostre operazioni, soprattutto non arrestate i nostri scafisti in mare. «Una decina di giorni fa, tra Lampedusa e la Sicilia, le autorità italiane hanno arrestato tra cinque e sette pezzi grossi del racket degli immigranti illegali. Personaggi potenti in Libia. Quando i loro uomini si sono trovati tra le mani i quattro lavoratori italiani, allora è stata decisa la rappresaglia. Adesso cercano lo scambio. Ma i capi della mafia di Zuara non sanno come fare, chi contattare. Sono gente grezza, con pochi rapporti con l’estero», spiegano, con la preghiera però che non vengano citati i loro nomi.
Una versione che ben corrisponde con la situazione che si incontra sul terreno atterrando nella capitale libica. All’aeroporto militare di Mitiga (l’unico agibile visto che quello civile è stato devastato dagli scontri fratricidi tra milizie un anno fa) i soliti ragazzini male armati e male addestrati delle milizie pretendono di darsi un’importanza che non hanno, controllando dieci volte di fila i documenti senza palesemente conoscere un accidenti del loro preteso mestiere. In città sono spariti molti dei posti di blocco che solo un anno fa interrompevano il traffico ogni poche centinaia di metri. In compenso, domina un’atmosfera di sporcizia anarchica e trasandatezza generale. Sono i segni più evidenti del permanere della debolezza della politica locale. Criminalità diffusa e guerra tra bande fanno da padroni.
«Hanno rapito dei lavoratori italiani? Non lo sapevamo. Beh, non è strano. Qui ogni giorno rapiscono decine di libici a scopo di riscatto. E nessuno ne sa nulla», dice un gruppo di uomini sui trent’anni incontrati nella vecchia «Piazza Verde» dei tempi di Gheddafi, ribattezzata adesso «Piazza dei martiri». Uno di loro, Abdel Khader Jetlavi, 27 anni, neolaureato in medicina, è scappato dalla sua casa nell’oasi di Sabha (nel cuore del deserto libico) perché, sottolinea: «Ormai da noi sono arrivati i terroristi di Isis. Nessuno sa che, nel solo mese di Ramadan terminato due giorni fa, l’Isis ha ucciso 55 persone a Sabah». Sui muri della piazza sono appese le foto di decine di morti, quasi tutti giovani e giovanissimi, e tutti uccisi nelle battaglie contro le altre milizie e le forze armate del governo di Tobruk negli ultimi due anni.
Si spiega anche così la crescita prorompente dell’importanza degli scafisti. Un business ormai milionario, tanto da aver scalzato le vecchie oligarchie del petrolio. I conti sono presto fatti. Ci sono gruppi che mediamente venti-venticinque giorni al mese tra aprile e fine settembre riescono a imbarcare verso l’Italia sino a 300 migranti. «I loro guadagni netti possono variare tra i 300.000 e 500.000 euro a notte. Sono cifre spaventose, specie se si tiene conto dell’impoverimento generale. Chi gestisce il racket ha in mano il nuovo potere finanziario libico», aggiunge un reporter di Tripoli che ieri mattina era stato al terminale di Mellitah.
A riprova del ruolo degli scafisti sarebbe anche il silenzio che sta caratterizzando la vicenda degli italiani. Si fosse trattato dell’Isis, facilmente vi sarebbero già state rivendicazioni sui loro siti. Ma per ora i rapitori tacciono. La loro zona in teoria sarebbe sotto controllo del governo di Tripoli. Nei fatti non è così. Zuara è una sorta di repubblica indipendente dominata dagli scafisti locali, i quali controllano con i loro gruppi armati anche i 60 chilometri di strada che arrivano sino al confine con la Tunisia.
Ciò significa che la vettura dei quattro italiani è stata segnalata sin dal primo memento della sua entrata in Libia. Più a est, verso Tripoli, la situazione si complica ulteriormente. Una cinquantina di chilometri da Mellitah si trova infatti Sabrata, dove ormai da tempo è posizionata Ansar Al Sharia, una delle milizie islamiche locali più disposta ad ascoltare il messaggio dell’Isis.
Lorenzo Cremonesi

LAO PETRILLI SULLA STAMPA DI STAMATTINA


Tutte le piste restano aperte nel caso dei quattro italiani rapiti in Libia. La Farnesina è prudente e definisce «prematuro» fare ipotesi. Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo possono essere finiti in mano a semplici briganti, trafficanti, o a una delle centinaia di milizie che si spartiscono il territorio libico. Ma con una logica «tribale» più che politica, secondo il poco che trapela dagli ambienti che stanno lavorando sul caso
«Logiche tribali»
La vicenda si presta a interpretazioni e strumentalizzazioni, e il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha definito «imprudente» dare interpretazioni politiche della vicenda in questa fase. Una fase che, «come tutte quelle immediatamente successive a ogni sequestro» è «delicatissima». Secondo quanto trapelato, «le primissime, fragili ipotesi» rimandano a un sequestro che potrebbe essere legato a «logiche essenzialmente tribali». Lo stesso Ahmed Safar, ambasciatore libico in Italia ha sottolineato che «i rapitori non hanno ostentato posizioni radicali o politiche».
Rimane il fatto che domenica scorsa i quattro si sono trovati incredibilmente a passare per Zuara, una delle capitali degli scafisti libici, a bordo di un minivan non blindato, senza scorta e per giunta dopo l’imbrunire. Un rischio incomprensibile. Si ipotizza, dunque, che il tragitto dei quattro - rapiti dopo le 21 di domenica sera - possa essere stato in qualche modo rallentato. Forse da uno degli innumerevoli posti di blocco, ufficiali e non, istituiti lungo tutta la cosiddetta Costal Road, la strada che porta al complesso petrolifero di Mellitah.
Partire dalla Tunisia e tentare di raggiungere Mellitah passando per Zuara a quell’ora è «una follia», commentano fonti qualificate. Forse, però, viene spiegato, i quattro confidavano «in una sorta di lasciapassare», dato che chi lavora nell’area «intrattiene relazioni con i potentati del posto, prevalentemente attraverso i loro rappresentanti nelle istituzioni locali».
«Rischi incomprensibili»
Calcagno, Failla, Piano e Pollicardo dovevano passare solo un paio di giorni a Mellitah, per lavorare con gli operai dell’impianto alla connessione di alcuni pozzi e alla posa di una trunk line. Era stato programmato per ieri un volo da Tripoli per Wafa, il compound-base dei dipendenti della Bonatti di Parma. Non è chiaro come i quattro sarebbero stati condotti nella capitale libica. Di certo, viene riferito, sarebbe stato disponibile uno dei trasporti speciali organizzati dall’Eni anche a favore dei lavoratori delle aziende-partner. Occorreva solo arrivare a Malta. Dall’isola un elicottero li avrebbe portati su una piattaforma, da dove salpano le imbarcazioni che fanno arrivare a Mellitah i tecnici «in condizioni di ben superiore sicurezza», sebbene con tempi più lunghi. Uno di questi trasferimenti avrebbe consentito a ai 4 di partire per Roma la mattina di domenica e di giungere a destinazione all’alba di lunedì. Praticamente non perdendo nemmeno un’ora di lavoro.

Tutte le piste restano aperte nel caso dei quattro italiani rapiti in Libia. La Farnesina è prudente e definisce «prematuro» fare ipotesi. Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo possono essere finiti in mano a semplici briganti, trafficanti, o a una delle centinaia di milizie che si spartiscono il territorio libico. Ma con una logica «tribale» più che politica, secondo il poco che trapela dagli ambienti che stanno lavorando sul caso
«Logiche tribali»
La vicenda si presta a interpretazioni e strumentalizzazioni, e il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha definito «imprudente» dare interpretazioni politiche della vicenda in questa fase. Una fase che, «come tutte quelle immediatamente successive a ogni sequestro» è «delicatissima». Secondo quanto trapelato, «le primissime, fragili ipotesi» rimandano a un sequestro che potrebbe essere legato a «logiche essenzialmente tribali». Lo stesso Ahmed Safar, ambasciatore libico in Italia ha sottolineato che «i rapitori non hanno ostentato posizioni radicali o politiche».
Rimane il fatto che domenica scorsa i quattro si sono trovati incredibilmente a passare per Zuara, una delle capitali degli scafisti libici, a bordo di un minivan non blindato, senza scorta e per giunta dopo l’imbrunire. Un rischio incomprensibile. Si ipotizza, dunque, che il tragitto dei quattro - rapiti dopo le 21 di domenica sera - possa essere stato in qualche modo rallentato. Forse da uno degli innumerevoli posti di blocco, ufficiali e non, istituiti lungo tutta la cosiddetta Costal Road, la strada che porta al complesso petrolifero di Mellitah.
Partire dalla Tunisia e tentare di raggiungere Mellitah passando per Zuara a quell’ora è «una follia», commentano fonti qualificate. Forse, però, viene spiegato, i quattro confidavano «in una sorta di lasciapassare», dato che chi lavora nell’area «intrattiene relazioni con i potentati del posto, prevalentemente attraverso i loro rappresentanti nelle istituzioni locali».
«Rischi incomprensibili»
Calcagno, Failla, Piano e Pollicardo dovevano passare solo un paio di giorni a Mellitah, per lavorare con gli operai dell’impianto alla connessione di alcuni pozzi e alla posa di una trunk line. Era stato programmato per ieri un volo da Tripoli per Wafa, il compound-base dei dipendenti della Bonatti di Parma. Non è chiaro come i quattro sarebbero stati condotti nella capitale libica. Di certo, viene riferito, sarebbe stato disponibile uno dei trasporti speciali organizzati dall’Eni anche a favore dei lavoratori delle aziende-partner. Occorreva solo arrivare a Malta. Dall’isola un elicottero li avrebbe portati su una piattaforma, da dove salpano le imbarcazioni che fanno arrivare a Mellitah i tecnici «in condizioni di ben superiore sicurezza», sebbene con tempi più lunghi. Uno di questi trasferimenti avrebbe consentito a ai 4 di partire per Roma la mattina di domenica e di giungere a destinazione all’alba di lunedì. Praticamente non perdendo nemmeno un’ora di lavoro.

Tutte le piste restano aperte nel caso dei quattro italiani rapiti in Libia. La Farnesina è prudente e definisce «prematuro» fare ipotesi. Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo possono essere finiti in mano a semplici briganti, trafficanti, o a una delle centinaia di milizie che si spartiscono il territorio libico. Ma con una logica «tribale» più che politica, secondo il poco che trapela dagli ambienti che stanno lavorando sul caso
«Logiche tribali»
La vicenda si presta a interpretazioni e strumentalizzazioni, e il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha definito «imprudente» dare interpretazioni politiche della vicenda in questa fase. Una fase che, «come tutte quelle immediatamente successive a ogni sequestro» è «delicatissima». Secondo quanto trapelato, «le primissime, fragili ipotesi» rimandano a un sequestro che potrebbe essere legato a «logiche essenzialmente tribali». Lo stesso Ahmed Safar, ambasciatore libico in Italia ha sottolineato che «i rapitori non hanno ostentato posizioni radicali o politiche».
Rimane il fatto che domenica scorsa i quattro si sono trovati incredibilmente a passare per Zuara, una delle capitali degli scafisti libici, a bordo di un minivan non blindato, senza scorta e per giunta dopo l’imbrunire. Un rischio incomprensibile. Si ipotizza, dunque, che il tragitto dei quattro - rapiti dopo le 21 di domenica sera - possa essere stato in qualche modo rallentato. Forse da uno degli innumerevoli posti di blocco, ufficiali e non, istituiti lungo tutta la cosiddetta Costal Road, la strada che porta al complesso petrolifero di Mellitah.
Partire dalla Tunisia e tentare di raggiungere Mellitah passando per Zuara a quell’ora è «una follia», commentano fonti qualificate. Forse, però, viene spiegato, i quattro confidavano «in una sorta di lasciapassare», dato che chi lavora nell’area «intrattiene relazioni con i potentati del posto, prevalentemente attraverso i loro rappresentanti nelle istituzioni locali».
«Rischi incomprensibili»
Calcagno, Failla, Piano e Pollicardo dovevano passare solo un paio di giorni a Mellitah, per lavorare con gli operai dell’impianto alla connessione di alcuni pozzi e alla posa di una trunk line. Era stato programmato per ieri un volo da Tripoli per Wafa, il compound-base dei dipendenti della Bonatti di Parma. Non è chiaro come i quattro sarebbero stati condotti nella capitale libica. Di certo, viene riferito, sarebbe stato disponibile uno dei trasporti speciali organizzati dall’Eni anche a favore dei lavoratori delle aziende-partner. Occorreva solo arrivare a Malta. Dall’isola un elicottero li avrebbe portati su una piattaforma, da dove salpano le imbarcazioni che fanno arrivare a Mellitah i tecnici «in condizioni di ben superiore sicurezza», sebbene con tempi più lunghi. Uno di questi trasferimenti avrebbe consentito a ai 4 di partire per Roma la mattina di domenica e di giungere a destinazione all’alba di lunedì. Praticamente non perdendo nemmeno un’ora di lavoro.

Tutte le piste restano aperte nel caso dei quattro italiani rapiti in Libia. La Farnesina è prudente e definisce «prematuro» fare ipotesi. Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo possono essere finiti in mano a semplici briganti, trafficanti, o a una delle centinaia di milizie che si spartiscono il territorio libico. Ma con una logica «tribale» più che politica, secondo il poco che trapela dagli ambienti che stanno lavorando sul caso
«Logiche tribali»
La vicenda si presta a interpretazioni e strumentalizzazioni, e il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha definito «imprudente» dare interpretazioni politiche della vicenda in questa fase. Una fase che, «come tutte quelle immediatamente successive a ogni sequestro» è «delicatissima». Secondo quanto trapelato, «le primissime, fragili ipotesi» rimandano a un sequestro che potrebbe essere legato a «logiche essenzialmente tribali». Lo stesso Ahmed Safar, ambasciatore libico in Italia ha sottolineato che «i rapitori non hanno ostentato posizioni radicali o politiche».
Rimane il fatto che domenica scorsa i quattro si sono trovati incredibilmente a passare per Zuara, una delle capitali degli scafisti libici, a bordo di un minivan non blindato, senza scorta e per giunta dopo l’imbrunire. Un rischio incomprensibile. Si ipotizza, dunque, che il tragitto dei quattro - rapiti dopo le 21 di domenica sera - possa essere stato in qualche modo rallentato. Forse da uno degli innumerevoli posti di blocco, ufficiali e non, istituiti lungo tutta la cosiddetta Costal Road, la strada che porta al complesso petrolifero di Mellitah.
Partire dalla Tunisia e tentare di raggiungere Mellitah passando per Zuara a quell’ora è «una follia», commentano fonti qualificate. Forse, però, viene spiegato, i quattro confidavano «in una sorta di lasciapassare», dato che chi lavora nell’area «intrattiene relazioni con i potentati del posto, prevalentemente attraverso i loro rappresentanti nelle istituzioni locali».
«Rischi incomprensibili»
Calcagno, Failla, Piano e Pollicardo dovevano passare solo un paio di giorni a Mellitah, per lavorare con gli operai dell’impianto alla connessione di alcuni pozzi e alla posa di una trunk line. Era stato programmato per ieri un volo da Tripoli per Wafa, il compound-base dei dipendenti della Bonatti di Parma. Non è chiaro come i quattro sarebbero stati condotti nella capitale libica. Di certo, viene riferito, sarebbe stato disponibile uno dei trasporti speciali organizzati dall’Eni anche a favore dei lavoratori delle aziende-partner. Occorreva solo arrivare a Malta. Dall’isola un elicottero li avrebbe portati su una piattaforma, da dove salpano le imbarcazioni che fanno arrivare a Mellitah i tecnici «in condizioni di ben superiore sicurezza», sebbene con tempi più lunghi. Uno di questi trasferimenti avrebbe consentito a ai 4 di partire per Roma la mattina di domenica e di giungere a destinazione all’alba di lunedì. Praticamente non perdendo nemmeno un’ora di lavoro.

(eni/ansa) - L’impianto di Mellitah fornisce energia a gran parte della Libia
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FRANCESCA PACI SULLA STAMPA DI STAMATTINA


«L’accordo c’è e per la prima volta s’intravede la luce in fondo al tunnel». L’inviato dell’Onu per la Libia Bernardino Leon esce dalla Farnesina dopo l’incontro con il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni mostrando fiducia: «Restano ancora molte cose da fare ma c’è l’impressione che vi sia una road map con le istituzioni e per questo voglio ringraziare l’Italia senza la cui cooperazione l’accordo non sarebbe stato possibile». Secondo fonti della Difesa Leon avrebbe addirittura ipotizzato che il 16 o il 17 agosto «la Libia intera» possa richiedere ufficialmente all’Onu un sostegno militare di cui l’Italia è candidata ad avere la guida.
La Farnesina pare condividere l’ottimismo dell’inviato dell’Onu. L’Italia fornirà un «contributo importante alla fase che si aprirà in Libia dopo l’accordo auspicato» che però «non significa immaginare spedizioni di migliaia di uomini» spiega Gentiloni. A conferma di quanto detto da Leon («non ci sarà una forte missione militare ma un addestramento delle forze libiche»), il ministro degli Esteri aggiunge che il nostro impegno dovrebbe tradursi in «un lavoro sofisticato di training e sorveglianza» tarato «sulle richieste dei libici». La «conditio sine qua non» è ovviamente la formazione dell’agognato governo di unità nazionale su cui Leon ha puntato tutto.
L’ipotesi delle sanzioni
La strada, seppure non sbarrata, appare in salita, come provano le rivelazioni della «Reuters» sulla volontà dell’Unione europea di imporre sanzioni ai leader libici irriducibili all’accordo o addirittura il blocco totale. Lo stesso Gentiloni sottolinea che «chi cercherà di boicottare questo processo verso il negoziato avrà una reazione di isolamento da parte della comunità internazionale».
Il messaggio è chiaro, l’intesa siglata il 12 luglio è nella migliore delle ipotesi un primo passo. Un passo debole, secondo un analista vicino ad ambienti economici e diplomatici italiani: «Leon va avanti da ottobre con delle bozze, ora ha un accordino sul quale però c’è solo l’ok di Tobruk e di alcune forze minori della Tripolitania come i berberi e parte delle milizie di Misurata. In queste condizioni il nuovo governo verrebbe installato nella capitale sotto il ricatto delle milizie che non ci stanno. Leon lo sa, ma teme di essere sostituito. L’Italia ha il cerino in mano perché mentre la comunità internazionale è schierata con Tobruk i nostri principali interessi sono in Tripolitania e dobbiamo parlare con Tripoli. Se Leon fallisse toccherebbe a noi, per questo nessuno dice che l’imperatore è nudo e l’accordo è solo un accordino. Sembra che a un certo punto si sia fatto il nome dell’ex ambasciatore Buccino per il posto di inviato dell’Onu, l’Italia insomma è in prima linea e lo sarebbe anche nel caso dell’invio di una forza militare Onu che non potrebbe essere composta di algerini o egiziani».
L’Italia ha chiaro il quadro libico. Gentiloni auspica «il coinvolgimento di ulteriori forze che sinora non hanno siglato l’accordo come il Gnc (il Parlamento di Tripoli, ndr)» e mette in guardia dal fallimento della diplomazia che porterebbe al moltiplicarsi di «fatti gravi come il sequestro dei 4 tecnici italiani, una vicenda su cui è prematuro e imprudente dare interpretazioni politiche». La strada per la fine dell’anarchia post Gheddafi è quella dell’accordo tra le fazioni, tutte.

«L’accordo c’è e per la prima volta s’intravede la luce in fondo al tunnel». L’inviato dell’Onu per la Libia Bernardino Leon esce dalla Farnesina dopo l’incontro con il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni mostrando fiducia: «Restano ancora molte cose da fare ma c’è l’impressione che vi sia una road map con le istituzioni e per questo voglio ringraziare l’Italia senza la cui cooperazione l’accordo non sarebbe stato possibile». Secondo fonti della Difesa Leon avrebbe addirittura ipotizzato che il 16 o il 17 agosto «la Libia intera» possa richiedere ufficialmente all’Onu un sostegno militare di cui l’Italia è candidata ad avere la guida.
La Farnesina pare condividere l’ottimismo dell’inviato dell’Onu. L’Italia fornirà un «contributo importante alla fase che si aprirà in Libia dopo l’accordo auspicato» che però «non significa immaginare spedizioni di migliaia di uomini» spiega Gentiloni. A conferma di quanto detto da Leon («non ci sarà una forte missione militare ma un addestramento delle forze libiche»), il ministro degli Esteri aggiunge che il nostro impegno dovrebbe tradursi in «un lavoro sofisticato di training e sorveglianza» tarato «sulle richieste dei libici». La «conditio sine qua non» è ovviamente la formazione dell’agognato governo di unità nazionale su cui Leon ha puntato tutto.
L’ipotesi delle sanzioni
La strada, seppure non sbarrata, appare in salita, come provano le rivelazioni della «Reuters» sulla volontà dell’Unione europea di imporre sanzioni ai leader libici irriducibili all’accordo o addirittura il blocco totale. Lo stesso Gentiloni sottolinea che «chi cercherà di boicottare questo processo verso il negoziato avrà una reazione di isolamento da parte della comunità internazionale».
Il messaggio è chiaro, l’intesa siglata il 12 luglio è nella migliore delle ipotesi un primo passo. Un passo debole, secondo un analista vicino ad ambienti economici e diplomatici italiani: «Leon va avanti da ottobre con delle bozze, ora ha un accordino sul quale però c’è solo l’ok di Tobruk e di alcune forze minori della Tripolitania come i berberi e parte delle milizie di Misurata. In queste condizioni il nuovo governo verrebbe installato nella capitale sotto il ricatto delle milizie che non ci stanno. Leon lo sa, ma teme di essere sostituito. L’Italia ha il cerino in mano perché mentre la comunità internazionale è schierata con Tobruk i nostri principali interessi sono in Tripolitania e dobbiamo parlare con Tripoli. Se Leon fallisse toccherebbe a noi, per questo nessuno dice che l’imperatore è nudo e l’accordo è solo un accordino. Sembra che a un certo punto si sia fatto il nome dell’ex ambasciatore Buccino per il posto di inviato dell’Onu, l’Italia insomma è in prima linea e lo sarebbe anche nel caso dell’invio di una forza militare Onu che non potrebbe essere composta di algerini o egiziani».
L’Italia ha chiaro il quadro libico. Gentiloni auspica «il coinvolgimento di ulteriori forze che sinora non hanno siglato l’accordo come il Gnc (il Parlamento di Tripoli, ndr)» e mette in guardia dal fallimento della diplomazia che porterebbe al moltiplicarsi di «fatti gravi come il sequestro dei 4 tecnici italiani, una vicenda su cui è prematuro e imprudente dare interpretazioni politiche». La strada per la fine dell’anarchia post Gheddafi è quella dell’accordo tra le fazioni, tutte.

«L’accordo c’è e per la prima volta s’intravede la luce in fondo al tunnel». L’inviato dell’Onu per la Libia Bernardino Leon esce dalla Farnesina dopo l’incontro con il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni mostrando fiducia: «Restano ancora molte cose da fare ma c’è l’impressione che vi sia una road map con le istituzioni e per questo voglio ringraziare l’Italia senza la cui cooperazione l’accordo non sarebbe stato possibile». Secondo fonti della Difesa Leon avrebbe addirittura ipotizzato che il 16 o il 17 agosto «la Libia intera» possa richiedere ufficialmente all’Onu un sostegno militare di cui l’Italia è candidata ad avere la guida.
La Farnesina pare condividere l’ottimismo dell’inviato dell’Onu. L’Italia fornirà un «contributo importante alla fase che si aprirà in Libia dopo l’accordo auspicato» che però «non significa immaginare spedizioni di migliaia di uomini» spiega Gentiloni. A conferma di quanto detto da Leon («non ci sarà una forte missione militare ma un addestramento delle forze libiche»), il ministro degli Esteri aggiunge che il nostro impegno dovrebbe tradursi in «un lavoro sofisticato di training e sorveglianza» tarato «sulle richieste dei libici». La «conditio sine qua non» è ovviamente la formazione dell’agognato governo di unità nazionale su cui Leon ha puntato tutto.
L’ipotesi delle sanzioni
La strada, seppure non sbarrata, appare in salita, come provano le rivelazioni della «Reuters» sulla volontà dell’Unione europea di imporre sanzioni ai leader libici irriducibili all’accordo o addirittura il blocco totale. Lo stesso Gentiloni sottolinea che «chi cercherà di boicottare questo processo verso il negoziato avrà una reazione di isolamento da parte della comunità internazionale».
Il messaggio è chiaro, l’intesa siglata il 12 luglio è nella migliore delle ipotesi un primo passo. Un passo debole, secondo un analista vicino ad ambienti economici e diplomatici italiani: «Leon va avanti da ottobre con delle bozze, ora ha un accordino sul quale però c’è solo l’ok di Tobruk e di alcune forze minori della Tripolitania come i berberi e parte delle milizie di Misurata. In queste condizioni il nuovo governo verrebbe installato nella capitale sotto il ricatto delle milizie che non ci stanno. Leon lo sa, ma teme di essere sostituito. L’Italia ha il cerino in mano perché mentre la comunità internazionale è schierata con Tobruk i nostri principali interessi sono in Tripolitania e dobbiamo parlare con Tripoli. Se Leon fallisse toccherebbe a noi, per questo nessuno dice che l’imperatore è nudo e l’accordo è solo un accordino. Sembra che a un certo punto si sia fatto il nome dell’ex ambasciatore Buccino per il posto di inviato dell’Onu, l’Italia insomma è in prima linea e lo sarebbe anche nel caso dell’invio di una forza militare Onu che non potrebbe essere composta di algerini o egiziani».
L’Italia ha chiaro il quadro libico. Gentiloni auspica «il coinvolgimento di ulteriori forze che sinora non hanno siglato l’accordo come il Gnc (il Parlamento di Tripoli, ndr)» e mette in guardia dal fallimento della diplomazia che porterebbe al moltiplicarsi di «fatti gravi come il sequestro dei 4 tecnici italiani, una vicenda su cui è prematuro e imprudente dare interpretazioni politiche». La strada per la fine dell’anarchia post Gheddafi è quella dell’accordo tra le fazioni, tutte.

«L’accordo c’è e per la prima volta s’intravede la luce in fondo al tunnel». L’inviato dell’Onu per la Libia Bernardino Leon esce dalla Farnesina dopo l’incontro con il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni mostrando fiducia: «Restano ancora molte cose da fare ma c’è l’impressione che vi sia una road map con le istituzioni e per questo voglio ringraziare l’Italia senza la cui cooperazione l’accordo non sarebbe stato possibile». Secondo fonti della Difesa Leon avrebbe addirittura ipotizzato che il 16 o il 17 agosto «la Libia intera» possa richiedere ufficialmente all’Onu un sostegno militare di cui l’Italia è candidata ad avere la guida.
La Farnesina pare condividere l’ottimismo dell’inviato dell’Onu. L’Italia fornirà un «contributo importante alla fase che si aprirà in Libia dopo l’accordo auspicato» che però «non significa immaginare spedizioni di migliaia di uomini» spiega Gentiloni. A conferma di quanto detto da Leon («non ci sarà una forte missione militare ma un addestramento delle forze libiche»), il ministro degli Esteri aggiunge che il nostro impegno dovrebbe tradursi in «un lavoro sofisticato di training e sorveglianza» tarato «sulle richieste dei libici». La «conditio sine qua non» è ovviamente la formazione dell’agognato governo di unità nazionale su cui Leon ha puntato tutto.
L’ipotesi delle sanzioni
La strada, seppure non sbarrata, appare in salita, come provano le rivelazioni della «Reuters» sulla volontà dell’Unione europea di imporre sanzioni ai leader libici irriducibili all’accordo o addirittura il blocco totale. Lo stesso Gentiloni sottolinea che «chi cercherà di boicottare questo processo verso il negoziato avrà una reazione di isolamento da parte della comunità internazionale».
Il messaggio è chiaro, l’intesa siglata il 12 luglio è nella migliore delle ipotesi un primo passo. Un passo debole, secondo un analista vicino ad ambienti economici e diplomatici italiani: «Leon va avanti da ottobre con delle bozze, ora ha un accordino sul quale però c’è solo l’ok di Tobruk e di alcune forze minori della Tripolitania come i berberi e parte delle milizie di Misurata. In queste condizioni il nuovo governo verrebbe installato nella capitale sotto il ricatto delle milizie che non ci stanno. Leon lo sa, ma teme di essere sostituito. L’Italia ha il cerino in mano perché mentre la comunità internazionale è schierata con Tobruk i nostri principali interessi sono in Tripolitania e dobbiamo parlare con Tripoli. Se Leon fallisse toccherebbe a noi, per questo nessuno dice che l’imperatore è nudo e l’accordo è solo un accordino. Sembra che a un certo punto si sia fatto il nome dell’ex ambasciatore Buccino per il posto di inviato dell’Onu, l’Italia insomma è in prima linea e lo sarebbe anche nel caso dell’invio di una forza militare Onu che non potrebbe essere composta di algerini o egiziani».
L’Italia ha chiaro il quadro libico. Gentiloni auspica «il coinvolgimento di ulteriori forze che sinora non hanno siglato l’accordo come il Gnc (il Parlamento di Tripoli, ndr)» e mette in guardia dal fallimento della diplomazia che porterebbe al moltiplicarsi di «fatti gravi come il sequestro dei 4 tecnici italiani, una vicenda su cui è prematuro e imprudente dare interpretazioni politiche». La strada per la fine dell’anarchia post Gheddafi è quella dell’accordo tra le fazioni, tutte.
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