Sergio Ramazzotti, Vanity Fair 22/7/2015, 22 luglio 2015
NOI SIAMO I FORTUNATI
Quando raccontano di sé, balbettano e si torcono le mani. Uno per la vergogna, l’altro per il dolore. Probabilmente non si sono mai conosciuti, ma se anche fosse successo, non avrebbero saputo l’uno il nome dell’altro: July aveva sette anni ed era uno dei tanti bambini portati dal Benin in Nigeria e venduti come schiavi. Joel era il capo di una gang di Cotonou che li rapiva per portarceli: per lui, quei bambini erano «pezzi di carne». Un nome ce l’avevano, «ma era meglio non saperlo».
Un tempo il Benin si chiamava Dahomey, ed era noto per la qualità dei suoi schiavi. Cent’anni dopo la fine della tratta, gli schiavi sono ancora il principale prodotto d’esportazione del Paese: cambiano solo l’età (oggi sono bambini), il mezzo di trasporto (l’automobile) e la destinazione (la Nigeria).
I trafficanti li cercano nei grandi mercati della capitale Porto-Novo, di Cotonou e di Sèmè-Kraké, che pullulano di bambini di strada. Talvolta riescono a convincere i genitori a venderli. Battono i villaggi più poveri, promettono lavoro ben retribuito, tolgono alla famiglia il peso di una bocca da sfamare: c’è chi si e portato via un bimbo per l’equivalente di trenta euro. A volte – sembra il caso di July – sono gli stessi genitori a entrare in contatto coi trafficanti per liberarsi di un figlio di troppo.
La Nigeria, al di là di un confine volatile, è un Paese enorme, ricco, senza controllo e senza morale: la domanda di schiavi è sempre alta, braccia gratuite nelle case, nei negozi, nei campi, nelle miniere. Il ministero della Famiglia beninese stima (per quanto possibile: la scomparsa di un bambino di strada non viene mai denunciata) che i bambini vittime della tratta oscillino i 50 e i 200 mila l’anno. La maggior parte di loro sparisce per sempre.
July Hodonou e Joel Douango sono ancora qui. Avrebbero facilmente potuto sparire entrambi, vittima e carnefice, per motivi diversi. Ma invece di inghiottirli e digerirli e dissolverli nel nulla, il mondo marcio della tratta li ha evacuati mentre erano ancora tutti interi. Per questo devono considerarsi fortunati.
July ha 19 anni. Joel 26. Raccontano storie che non vorresti mai ascoltare. Loro stessi non avrebbero più voluto ascoltarsi mentre le raccontavano, né io avrei pensato di poterle scrivere in questo secolo. Eccole, tradotte alla lettera: dicono tutto quel che c’è da dire, e molto più di quanto si possa sopportare di leggere.
Joel: «Nei ghetti di Cotonou ognuno ha la sua specialità. La nostra era prendere i bambini. Li prendevamo di notte, fra i bambini di strada del quartiere, o nei villaggi fuori mano. Poi, sempre di notte, li portavamo nella foresta dove ci davano appuntamento i nigeriani. Lì non c’è nessun controllo, si può passare dal Benin alla Nigeria tranquillamente. I nigeriani venivano in macchina, si caricavano i bambini, ci sganciavano i soldi e arrivederci alla prossima. Non so bene che cosa ci facessero, con tutti quei bambini. Noi li prendevamo e basta».
July: «I miei genitori litigavano in continuazione. Io ero piccolo, non capivo perché. Un giorno mio padre mi ha detto: domani verrai con me al mercato e andremo da tua nonna, in Nigeria. Il papà mi aveva detto che la nonna viveva là perché mia madre era nigeriana, io però non l’avevo mai conosciuta. Non so nemmeno se mia madre fosse davvero della Nigeria, né se quella signora fosse mia nonna. Però mio padre mi ha consegnato a lei ed è tornato a casa.
«Sono rimasto lì a lungo, forse due o tre anni. Lei mi obbligava a svegliarmi tutte le mattine alle quattro. Cominciavo subito a lavorare e andavo avanti tutto il giorno: dovevo pulire, fare il bucato, spaccare la legna. Molta legna, perché mia nonna la vendeva. In casa lavoravo solo io, suo marito era morto. Lei diceva: solo i giovani hanno la forza di lavorare. Ma io ero un bambino, e quella forza lì non sentivo mica di averla. Finché ho sbottato: non ce la faccio più. Allora lei ha detto che mi avrebbe dato a una sua amica.
«Siamo andati alla stazione dei bus, abbiamo viaggiato per tante ore, passato moltissimi villaggi e alla fine siamo scesi in un grande mercato. Tutti parlavano inglese o yoruba, io non capivo nulla. Non sapevo nemmeno il nome della città dove ero stato tutto quel tempo. Siamo saliti al quarto piano di un edificio, e lì mia nonna si è messa a discutere con quella sua amica. Parlavano sempre in yoruba, non so che cosa si sono dette. Alla fine però ho visto che la donna le ha dato trentamila naira (l’equivalerne di 135 euro, ndr) e mia nonna ha detto: tu rimani qui. Io ero molto spaventato, ma lei ha aggiunto: bisogna soffrire oggi per sperare di avere qualcosa domani.
«Quando siamo rimasti soli, questa signora ha detto che il mio nuovo nome sarebbe stato Segun. Lei aveva un marito. Non ho mai saputo i loro nomi: quando mi rivolgevo a loro dovevo chiamarli al-Hadji e al-Hadja (l’appellativo onorifico che assume un musulmano dopo aver compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, ndr). Mi svegliavo alle cinque, facevo i lavori di casa, quindi dovevo portare i loro figli a scuola. Poi vendevo acqua al mercato per conto della donna, per dieci o dodici ore, a volte fino a notte. Quando tornavo a casa dovevo darle tutti i soldi».
Joel: «Ci chiedevano i maschi, perché sono meglio per lavorare. Glieli procuravamo di sette, otto, massimo undici anni. Il prezzo variava. Se vedevi un compratore dall’aria ricca, cominciavi a chiedere due milioni di Cfa (il franco usato come valuta legale in 14 Paesi africani: due milioni equivalgono a tremila euro, ndr). Poi partivi con le contrattazioni, e in genere chiudevi a 300 mila, o 200, o 150 (150 mila equivalgono a 230 euro, ndr). Quelli senza cicatrici valevano di più, perché era più complicato risalire alla famiglia (le scarificazioni sul volto indicano l’appartenenza a un determinato clan o villaggio, ndr).
«Vendere bambini non faceva impressione a nessuno: quasi sempre si trattava di bambini di strada, era come se fossero già morti. Vivi o morti, del resto, non faceva differenza. Molti venivano uccisi: se li portavano in Nigeria e lì li uccidevano, e usavano la testa e il cuore per i riti vudù».
L’agghiacciante racconto di Joel mi è stato confermato da parecchie autorità, incluso il magistrato dei minori di Porto-Novo, Antoine Yehouenou: «Usano bambini del Benin perché nessuno li cerca, uno su cinque non è nemmeno registrato all’anagrafe. I sacrifici umani nei templi vudù sono ancora all’ordine del giorno. La stregoneria è un business attorno al quale girano un sacco di soldi. Fino a pochi anni fa, in Benin gli organi umani erano esposti in vendita nei mercati».
July: «Un giorno dalla casa sono spariti dei soldi, e al-Hadja si è convinta che li avessi rubati io. Allora mi ha spinto dentro la camera da letto, mi ha fatto mettere in una posizione scomodissima (si alza e la mima: busto in avanti, indice della mano sinistra a terra, gamba destra sollevata tesa e parallela al pavimento, braccio destro lungo la gamba, ndr) e mi ha ordinato di rimanere così, immobile, fino a che non avessi confessato. Dopo un po’ faceva molto male e mi sono messo a piangere, ma lei stava lì, seduta, a controllare che non mi muovessi. A un certo punto si è stancata e ha detto: oggi è il giorno in cui morirai.
«Ha acceso tre candele e mi ha fatto colare la cera su tutto il corpo, intanto mi chiedeva dove avevo messo i soldi. Quando le candele si sono consumate ha cominciato a frustarmi con un filo elettrico. Ha rotto una bottiglia di vetro e mi ha obbligato a inginocchiarmi sulle schegge (mostra le profonde cicatrici che gli segnano la schiena e le rotule, ndr). Io piangevo, dicevo che non avevo rubato niente, lei non ci credeva. Mi ha legato mani e piedi ed è andata al mercato a comprare del peperoncino in polvere. Quando è tornata, con un rasoio mi ha fatto dei tagli nelle mani e nei piedi, e nelle ferite ha messo il peperoncino. Me l’ha strofinato negli occhi. A quel punto, sì, ero sicuro che sarei morto. I tre giorni successivi li ho passati chiuso in uno scantinato, dormendo per terra. Poi al-Hadja ha detto che mi avrebbe dato a uno dei suoi figli».
Joel: «Non ricordo quanti bambini prendevamo, forse una dozzina al mese. La banda era grossa, siamo arrivati a essere in 14. Alcuni stavano in Nigeria per tenere i contatti coi compratori. C’erano anche due poliziotti del Benin. A volte ci aiutavano ad attraversare la frontiera, quando eravamo noi a dover portare i bambini in Nigeria. Ci prestavano anche le uniformi della polizia, così non dovevamo preoccuparci di passare dalla foresta».
Joel si riferisce a quella che la gente di Sèmè-Kraké, il posto di confine lungo la costa, chiama «la via illegale»: una strada parallela a quella ufficiale che porta in Nigeria esattamente come l’altra, ma quasi senza controlli: l’ho percorsa anche io senza dover mostrare il passaporto. Un giorno però sono stato fermato da un poliziotto beninese in uniforme che mi ha detto: «Désolè, questa è la via illegale, i bianchi di qui non passano».
July: «Un giorno è venuto uno dei figli di al-Hadja e mi ha portato via con lui. Anche là facevo le faccende domestiche, poi scaricavo la merce per sua moglie che aveva un negozietto al mercato.
Tutte le sere tornavo a casa con lei, ma sulla strada si fermava da un altro uomo, e io dovevo aspettare fuori. Il marito sospettava qualcosa, un giorno mi ha chiesto che cosa sapevo. Gli ho detto che non potevo parlare, altrimenti sua moglie mi avrebbe picchiato. Alla fine è andata proprio così. Prima hanno litigato loro due, e lui l’ha picchiata molto forte. Avevo tanta paura. Poi, quando le cose fra loro si sono calmate, lei è venuta da me e mi ha riempito di botte. Ha preso un pestello di legno pesante, quello che usava per schiacciare la manioca, e me lo ha dato in testa. Mi ha spezzato qualche osso, credo (metto la mano sulla testa, e sotto i capelli sento una fossa profonda, ndr). Ero pieno di sangue. Il mattino dopo il marito mi ha portato all’ospedale».
Joel: «Molti dei miei compagni sono morti, altri sono in prigione. A me è andata bene. Abbiamo avuto parecchi scontri, sia con la polizia che con i nigeriani. A volte col machete (mostra grosse cicatrici, in testa e sulle braccia, ndr), altre volte con armi da fuoco. Avevamo pistole e anche un paio di Kalashnikov».
July: «Un giorno che la donna mi aveva lasciato da solo al negozio, è venuta una ragazza. Ha detto che era la mia sorella maggiore, e che era lì per riportare a casa il suo fratellino, e mi ha chiamato July. Che strano sentirmi chiamare con il mio vero nome, per la prima volta dopo tanti anni. Non ero nemmeno sicuro che fosse mia sorella, perché ero uscito di casa da bambino e non la ricordavo. Mi ha detto di lasciare tutto e di seguirla. Io le ho risposto che mi spiaceva abbandonare quella donna perché, anche se mi aveva picchiato mi dava pur sempre da mangiare tre volte al giorno, e poi se me ne andavo lei non avrebbe avuto più nessuno che l’aiutava. Alla fine mi ha convinto, e l’ho seguita. Siamo arrivati a casa di mia nonna, quella dove ero stato i primi tempi. Però qui, non so come, ci ha raggiunto al-Hadji, che ha urlato e si è arrabbiato e alla fine mi ha riportato da suo figlio. Ci sono rimasto ancora a lungo. Sua moglie mi picchiava sempre».
Joel: «Ne sono uscito quando una delle mie fidanzate ha partorito. Il primo di cinque figli, avuti da lei e da altre due donne (in Benin la poligamia è molto diffusa, ndr). Li guardavo e pensavo: che cosa proverei se qualcuno me li portasse via? Solo allora mi sono reso conto del male che avevo fatto. Non solo: in questo mestiere rischi di restarci secco ogni giorno, ma io non voglio lasciare degli orfani. E poi, qui da noi quando muori la famiglia ti seppellisce con il funerale tradizionale, solo che, se ci lasci la pelle in una sparatoria, la polizia prende il tuo corpo e lo sotterra dove capita, mica lo restituisce alla famiglia: io non voglio essere seppellito così. Mi propongono in continuazione di tornare nel gruppo, perché ero un leader, avevo la visione del mercato, facevo fare dei bei soldi. Ma non voglio più. E oggi, se per caso vedo qualcuno che cerca di trafficare un bambino, lo ammazzo».
Dopo l’incontro con la sorella – ammesso che lo fosse – July è fuggito altre due volte. Due volte i padroni l’hanno riacciuffato. La terza non l’hanno trovato, o forse hanno deciso che conveniva procurarsi qualcun altro, più facile da domare. E poi, sei anni fa, i poliziotti nigeriani si sono imbattuti in questo bambino di strada che parlava la lingua di un altro Paese. Riconoscendo le frasi in fon, hanno capito dove veniva e, come da prassi, l’hanno consegnato ai colleghi beninesi. I quali, come da prassi, lo hanno affidato ai salesiani, che in Benin, per dirla tutta, sono l’unica organizzazione non governativa in grado di gestire casi del genere: lo fanno da vent’anni, con una rete di rifugi e un gruppo di uomini che, a rischio della propria vita, fa quello che la polizia non fa – pattuglia i mercati per smascherare i trafficanti.
«Gestire casi del genere» non è affare da poco: come mi spiega don Juan José Gómez, direttore dell’opera Don Bosco in Benin, significa diseducare un bambino alla legge della violenza, aspettare con pazienza che smetta di pisciare ancora nel letto a 17 anni, insegnargli un mestiere, prepararlo per tornare a vivere. Nel 2014, i salesiani l’hanno fatto con oltre 3.300 bambini. Significa che questo articolo potrebbe essere 3.300 volte più lungo.
July ha quasi completato l’apprendistato come sarto e parla correttamente il francese, che non aveva mai studiato, essendo stato fatto schiavo prima di poter andare a scuola. I genitori, quando don Gómez si è messo in contatto con loro, hanno semplicemente detto: tenetevelo. Nessuno è riuscito a stabilire con precisione quanti anni abbia trascorso in Nigeria, né dove. Nel suo passato c’è un buco, ma July non ha particolare interesse a riempirlo. È così anche per Joel. Entrambi si considerano fortunati, e hanno ragione, perché possiedono ancora un nome (per quanto lo pronuncino balbettando), un volto (per quanto segnato dalle cicatrici) e un futuro, per quanto si affacci su un letamaio.