Andrea Schianchi, La Gazzetta dello Sport 22/7/2015, 22 luglio 2015
CON LIBERO E CATENACCIO È RIVOLUZIONE –
Alle radici di questa storia c’è un principio che, troppo spesso, l’uomo contemporaneo tende a dimenticare: la consapevolezza dei propri limiti. Fu, infatti, prendendo coscienza delle debolezza e dell’inferiorità della sua squadra che, al principio degli anni Trenta, un signore austriaco, da poco sbarcato in Svizzera come allenatore, sviluppò un’idea tattica rivoluzionaria. E, pur dovendo affrontare le feroci critiche e il sarcasmo degli esteti, questa idea ha attraversato (e contagiato) tutto il Novecento calcistico. Quel signore si chiamava Karl Rappan e il suo colpo di genio fu il «verrou», italianamente declinato in «catenaccio». Questo modulo prevedeva la nascita di un nuovo ruolo: il libero.
INFERIORI MA...
Rappan era cresciuto secondo la lezione del calcio danubiano, aveva seguito la scuola del grande Hugo Meisl, commissario tecnico dell’Austria che tutti chiamavano il Wunderteam, la squadra delle meraviglie. Si praticava il «metodo», il 2-3-2-3, modulo con il quale la Nazionale di Vittorio Pozzo conquistò i mondiali del ‘34 e del ‘38. Tuttavia anche nell’Europa continentale si cominciavano a diffondere gli insegnamenti provenienti dall’Inghilterra, dove imperava la moda del «sistema» inventato da Herbert Chapman. Quando Rappan arrivò in Svizzera, sulla panchina prima del Servette e poi del Grasshoppers, si accorse che i giocatori, quasi tutti dilettanti, non avevano le qualità atletiche per reggere il confronto con i colleghi delle altre nazioni. E così pensò che solo partendo dalla consapevolezza della propria inferiorità si poteva arrivare alla gloria. Decise quindi di adottare un modulo basato sull’attesa dell’avversario, sulla ferocia difensiva e sul rapido contrattacco. Per fare ciò, una volta accomodatosi sulla panchina della nazionale svizzera, si preoccupò di infoltire le truppe davanti al proprio portiere, anche a scapito di un inevitabile indebolimento del centrocampo (che da 5 uomini passava a 3). Rappan, partendo dal metodo danubiano, arretrò i due laterali di centrocampo sulla linea dei difensori e a uno di questi «centrali» ordinò di mettersi alle spalle degli altri con le funzioni classiche del libero: dove non arrivavano i compagni doveva arrivare lui. Ultimo baluardo prima del portiere. Siccome la Svizzera era spesso più debole dei nemici e, di conseguenza, per quasi tutta la partita doveva difendersi, il modulo ebbe successo: al Mondiale ‘38 fece fuori la Germania dei gerarchi nazisti e venne eliminata dall’Ungheria che si giocò poi il titolo contro l’Italia. Il «verrou», intuizione di un austriaco applicata da 11 disciplinati soldatini svizzeri, era la risposta al sistema inglese, anche se non venne subito capita e, soprattutto, applicata. Gli esteti storcevano il naso di fronte alla novità, i sudamericani non ne volevano sentir parlare e gli inglesi, fieri della loro superiorità che sfociava nella presunzione, figuriamoci se potevano accettare che qualcuno avesse inventato qualcosa di buono in un mondo che consideravano «loro».
IL DOPOGUERRA
Fu la necessità, come spesso succede, a far sì che gli allenatori italiani aguzzassero l’ingegno. Negli anni del Dopoguerra cominciò a imporsi il «sistema» anche da noi. Il Grande Torino, cioè la massima espressione calcistica di quell’epoca, giocava appunto con il WM e, logica conseguenza, le altre squadre cercarono di imitarlo non tenendo conto che non avevano a disposizione gli assi granata. Accadeva così che le «piccole» prendessero imbarcate storiche contro le «grandi», perché quel modulo prevedeva duelli uomo-contro-uomo in ogni zona del campo: i migliori avevano sempre partita vinta. Fu Giuseppe «Gipo» Viani il primo a battere nuove strade, a cercare uno stratagemma che garantisse, perlomeno, un po’ di equilibrio. Allenatore della Salernitana, subito dopo la guerra, inventò uno schema che venne poi definito «vianema»: in sostanza, prendeva un giocatore dal centrocampo e gli ordinava di incollarsi al centravanti avversario, poi spostava il cosiddetto «stopper» leggermente più indietro, in funzione di battitore libero. A spingerlo su questo sentiero fu la stessa esigenza che, anni prima, aveva mosso Rappan: siccome siamo inferiori, dunque destinati a difenderci, preoccupiamoci di infoltire la difesa senza pensare troppo all’attacco.
I SUCCESSI
Mentre sulle colonne dei giornali si accendevano dispute infinite tra difensivisti e offensivisti, tra sparagnini e scialacquatori, ecco spuntare la prima squadra che, con battitore libero e catenaccio, vinse lo scudetto. Fu l’Inter di Alfredo Foni, stagione 1952-53. Prima il campionato si conquistava a suon di gol, le squadre che lo vincevano ne segnavano un centinaio a stagione. Con Foni, invece, l’Inter fece il percorso opposto: raggiunse il titolo grazie alla difesa meno battuta del torneo (solo 24 reti subite). E là davanti, nonostante ci fossero dei campionissimi come «Veleno» Lorenzi, Nyers e Skoglund, i nerazzurri realizzarono la miseria di 46 gol. Foni impose una tattica ferrea: difesa e contropiede. E per difendersi meglio prese il terzino Blason e lo mise alle spalle di tutti, a fare da battitore libero appunto, quindi ordinò all’ala Armano di rientrare e trasformarsi in terzino. Nacque così il catenaccio, che fece inorridire i benpensanti del pallone, ma alle squadre italiane garantì anni di successi. Basti pensare al Milan di Rocco o all’Inter di Helenio Herrera. La tattica del catenaccio venne sviluppata e migliorata e si arrivò al cosiddetto «calcio all’italiana»: il libero non era più soltanto un battitore che aveva il compito di spazzare l’area, ma doveva anche saper impostare e proporsi in avanti. Cera, Scirea e Tricella furono i simboli di questa evoluzione. Se li avesse avuti Rappan, forse anche la Svizzera sarebbe diventata una grande nazionale...