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 2015  luglio 22 Mercoledì calendario

Temeva di invecchiare fallito. Ma la vecchiaia sarebbe rimasta un orizzonte lontano, mai raggiunto, nella breve vita di Renato Serra, morto un secolo fa in trincea, sul monte Pogdora

Temeva di invecchiare fallito. Ma la vecchiaia sarebbe rimasta un orizzonte lontano, mai raggiunto, nella breve vita di Renato Serra, morto un secolo fa in trincea, sul monte Pogdora. Era il 20 luglio 1915, aveva poco più di trent’anni. Condannato alla giovinezza: letterato precoce, bibliotecario, l’«europeo di provincia» Serra, dopo una tesi su Petrarca, aveva scritto saggi illuminanti sui contemporanei, da Pascoli a Oriani, e il toccante Esame di coscienza di un letterato , autoritratto di una generazione che cercava nella Grande guerra la svolta esistenziale, un segno del destino. «Tutto quello che di buono faremo mai al mondo, è lì in quelle lettere dei vent’anni» scriveva Serra a un amico: il fascino straziante della sua parabola umana e intellettuale sta anche nel limite biografico. Quasi disperatamente il ragazzo di Cesena si scontra con quella soglia: la maturità sarebbe tutto per lui, sarebbe l’autentica conquista. Crescere, invecchiare: a questi imperativi si rifà la lezione di un maestro, vecchio da sempre, come Croce. Perciò, quando Serra scrive all’«illustrissimo signor professore» (il carteggio è raccolto in Polemica sulla storia, Edizioni di Storia e Letteratura), gli si confida come un figlio prodigo, quasi dovendo scusarsi di essere giovane. Il cuore in tempesta, le donne, le incertezze, le ondate di indolenza, il vizio del gioco. Come aveva fatto il filosofo, di vent’anni più grande, a conquistare tanto in fretta la saggezza? La lettera a Croce «Le sarei grato se Ella potesse oggi darmi un consiglio, per quanto vago; Ella sa tante cose, anche del mondo pratico», scrive Serra a Croce, manifestando l’intenzione di abbandonare Cesena, «di rompere questa catena, e di provare qualcosa di nuovo». Croce gli risponde che bisogna smettere certe abitudini perniciose della giovinezza, lo invita a scuotersi: «Lei ha tali qualità d’ingegno e di cultura da tener testa a moltissimi dei possibili concorrenti». Mai fino in fondo, mai fino alla risoluzione di partire per il fronte, Serra riuscirà ad abbandonare questa misteriosa perplessità, questo suo stare un piede dentro e un piede fuori, questa convinzione sempre a metà. Un tratto che si coglie bene nelle sue Lettere dal fronte, che Elliot ripubblica nella collana «Maestri» diretta da Antonio Debenedetti (pp. 96, € 9,50). Tra gli interlocutori, oltre ai familiari, letterati come Papini, Panzini, De Robertis. «Per me la critica, il lavoro critico che faccio io», confida proprio a De Robertis, «non è una esigenza assoluta né una soddisfazione totale». E questa non è, o non è soltanto, l’indolenza del provinciale: c’è qualcosa di più e di diverso. L’insicurezza di chi non si ritrova intero da nessuna parte, in nessuna azione, di chi vive e scrive sempre «da una lontananza disinteressata e piena di rincrescimenti, che fanno insufficiente e strana a me stesso la mia voce». Estremizzando, si potrebbe includere Serra in quella curiosa compagnia di intellettuali novecenteschi che si esprimono più nel progetto che nel risultato, più nell’appunto e nel frammento che nel compiuto. Ma non è una scelta estetica o puramente stilistica, è l’estensione di un temperamento, è l’abitare sempre e solo nella possibilità: anche quella del fallimento, anche o soprattutto quella del silenzio. Così, quando a settembre arriverà in libreria un volume contenente le cosiddette Carte Rolland - accanto all’edizione critica di Esame di coscienza di un letterato e al Diario di trincea (a cura di Marino Biondi e Roberto Greggi per Edizioni di Storia e Letteratura) - si comprenderà appieno il senso di una vocazione. Serra intende scrivere sull’opera dello scrittore francese antimilitarista Romain Rolland, premio Nobel nel 1915: annota, appunta, ipotizza, mette in fila idee per un libro che non farà in tempo a realizzare. Abbiamo così davanti agli occhi un cantiere intellettuale, che fa pensare, più che al frammentismo vociano, a un Walter Benjamin ante litteram, ai Passages: una forma di scrittura che vive solo nell’intuizione, nella sua luminescenza. La realtà afferrata in un istante in cui tutto si chiarisce, ma per poco, e poi torna a confondersi: la purezza delle idee con la materia, la materialità della vita, l’intelligenza e le sensazioni, il paesaggio del pensiero e quello del sentimento, del suo implacabile batticuore. «Fiume di vita» «La generazione del 1900: i suoi maestri: riepilogo di umanità e di cose essenziali», «Mi ricordo che trovavo un significato nei segni sul margine», così scrive Serra. Un riga prima, ha usato l’espressione «fiume di vita». Un fiume, sì, anche limaccioso, che tutto trascina: i desideri e le illusioni, i pomeriggi di domenica, gli anni, le bozze da correggere, le ragazze, i viaggi mai fatti, i libri letti, riletti e capiti, Ariosto e Manzoni, Carducci e Pascoli. Poi la guerra. «E una nuvola che passa e un raggio di sole che viene a trovarti in fondo alla buca acquista più importanza della pallottola che t’ha sfiorato il collo». L’ultima lettera, poco prima di morire, è per la madre: «Un saluto in fretta anche stamattina, alzati all’alba. Niente di nuovo».