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 2015  luglio 18 Sabato calendario

Il pri­vi­le­gio è grande. Poter cam­mi­nare pres­so­ché in soli­tu­dine nelle sale dove tra poche ore si affol­lerà il pub­blico

Il pri­vi­le­gio è grande. Poter cam­mi­nare pres­so­ché in soli­tu­dine nelle sale dove tra poche ore si affol­lerà il pub­blico. E con il pub­blico arri­ve­ranno le tele­ca­mere e i micro­foni dei gior­na­li­sti, i com­menti, il tin­tin­nar di bic­chieri. Tra poche ore la soli­tu­dine, il silen­zio delle sale, ver­ranno riem­piti dalla neces­sità del rito di inau­gu­ra­zione. E Vivian Maier salirà sulla ribalta del MAN, Il Museo d’Arte di Nuoro. Forse, per l’ennesima volta, la prima in Ita­lia, Vivian non lo avrebbe gra­dito. Forse non avrebbe gra­dito le sue foto appese ai muri, o almeno quelle scelte, per forza di cose, da altri. E nep­pure avrebbe gra­dito così tanta folla, tanta atten­zione, tante domande prive di rispo­sta, tanto stu­pore. Il pri­vi­le­gio è grande. Poter cam­mi­nare pres­so­ché in soli­tu­dine e pro­vare a cer­care in ogni foto un bran­dello della vita di Vivian, o meglio pro­vare a farlo. Per­ché lei, all’inaugurazione della mostra di Nuoro non ci sarà. Non c’era nep­pure a Chi­cago, a New York, a Parigi e altre capi­tali d’Europa. Per il sem­plice fatto che Vivian Maier è morta, con­ge­data dal mondo in un necro­lo­gio tanto ano­nimo quanto, guar­dando alla sua vita, ridi­colo ‘Si è spenta sere­na­mente Vivian Maier’, anno 2009. Per il sem­plice fatto, ma sem­plice solo in appa­renza, che della ‘bam­bi­naia foto­grafa’ nes­suno aveva mai sen­tito par­lare, nes­suno aveva mai visto uno scatto. Com­preso chi adesso ne scrive. Quante mostre avete visi­tato, richia­mati dalla cele­brità del foto­grafo? Ogni volta, giu­sta­mente, siete ricorsi a inter­net per docu­men­tarvi, appro­fon­dire. Oggi, digi­tando Vivian Maier su goo­gle, appa­iono bio­gra­fie, arti­coli, fil­mati. Ieri non avre­ste tro­vato una riga. Oggi, digi­tando John Maloof su goo­gle, lo tro­ve­rete sem­pre asso­ciato a Vivian. Ieri non avre­ste tro­vato una riga. La sto­ria che da qui in poi rac­con­te­remo è stru­mento indi­spen­sa­bile per capire, inter­ro­garsi, emo­zio­narsi davanti a cia­scuna delle cen­to­venti foto della mostra; una sto­ria che giu­sti­fica l’uso degli agget­tivi bel­lis­sima, magni­fica, incre­di­bile; una sto­ria che con­fe­ri­sce senso a domande del tipo ‘come avrà fatto?’ ‘dove avrà tro­vato quella fac­cia?’, ‘ma l’avrà messo in posa?’. È bene saperlo: senza cono­scere quanto finora si è riu­sciti a cono­scere della vita di Vivian Maier, diviene impos­si­bile com­pren­dere quanto ha lasciato su migliaia di nega­tivi e che in minu­scola, sep­pure signi­fi­ca­tiva parte, è in mostra al MAN. Anno­tate que­ste quat­tro parole, fon­da­men­tali nell’esistenza di una donna nata a New York il primo feb­braio del 1926 da padre di ori­gine austro — unga­rica e madre fran­cese, morta a Chi­cago il 21 aprile del 2009: com­pul­sione, ano­ni­mato, soli­tu­dine, genia­lità. Quat­tro parole, quat­tro ele­menti che, a poste­riori, hanno por­tato la cri­tica a defi­nire Vivian una delle figure di spicco del repor­tage di strada. Gli scherzi del destino non sono sol­tanto un facile modo di dire. Molti hanno visto, nell’incontro a distanza tra Maier e Maloof, un destino da anni in attesa di com­piersi, aiu­tato da forti somi­glianze caratteriali. Prima parola da ricor­dare, com­pul­sione. Scrive lo psi­co­logo e psi­ca­na­li­sta Roberto Goi­sis in uno dei saggi che com­pon­gono il libro alle­gato al film in dvd Alla ricerca di Vivian Maier (Fel­tri­nelli Real Cinema) «Ci sono incre­di­bili sovrap­po­si­zioni e siner­gie tra loro due. John sente di dover com­piere una mis­sione… Lui stesso si defi­ni­sce così ‘Sono un po’ compulsivo’… Non si capi­sce bene quale pro­fes­sione svol­gesse o chi fosse prima della ‘sco­perta’. Si defi­ni­sce un ex rigat­tiere… Pos­siamo dire tran­quil­la­mente che fosse un col­le­zio­ni­sta… Pos­siamo soste­nere che per John Maloof… il film (Maloof è autore del sog­getto, diret­tore della foto­gra­fia e regi­sta, ndr) abbia rap­pre­sen­tato un suo per­so­na­lis­simo per­corso alla ricerca di se stesso, se non della sua iden­tità, certo della sua pro­fes­sione». Chi è John Maloof? Figlio di una stirpe di rigat­tieri, nato nel 1981 a Chi­cago, decide di met­tersi a scri­vere un libro che rac­conti i quar­tieri della città. È il 2009 quando par­te­cipa a un’asta in cui ven­gono bat­tuti nume­rosi sca­to­loni. Alcuni sono zeppi di nega­tivi. John se ne aggiu­dica gran parte per meno di quat­tro­cento dol­lari, ed è costretto a por­tarsi via anche abiti, scarpe, cap­pelli, rice­vute, rita­gli di gior­nali, volan­tini, biglietti dei mezzi pub­blici. Il tutto appar­te­neva a una certa Vivian Maier. Su di lei, goo­gle non dà rispo­ste. John decide di scan­ne­riz­zare una qua­ran­tina di foto. Le posta e sca­tena un coro una­nime di lodi entu­sia­ste. Nes­suno, però, ha idea di chi sia l’autrice degli scatti. Il gio­vane e ormai ex rigat­tiere si tra­sforma in detec­tive. Trova alcuni numeri di tele­fono su scon­trini e rice­vute, negli anni ’50 e ’60 senza pre­fisso urbano. A forza di ten­ta­tivi, rie­sce final­mente a met­tersi in con­tatto con i tito­lari di un self sto­rage, un depo­sito. Sal­tano fuori muc­chi di sca­to­loni, vali­gie, bauli, sca­tole di ogni forma e dimen­sione. Insieme ad altri nega­tivi e rul­lini in attesa di svi­luppo. John se li prende, li stipa in casa e si mette a fare un inven­ta­rio. Adesso il suo patri­mo­nio foto­gra­fico ammonta a cen­to­mila nega­tivi, due­mila rul­lini in bianco e nero non svi­lup­pati, set­te­cento rul­lini a colori anch’essi non svi­lup­pati, cen­to­mila pel­li­cole in otto e sedici mil­li­me­tri. Di nuovo si affac­cia l’interrogativo, già vaga­mente in odore di osses­sione: chi era quella signora che aveva accu­mu­lato una quan­tità impres­sio­nante di imma­gini tra il 1950 e la fine del Ven­te­simo secolo? Per quale ragione si por­tava die­tro un immenso baga­glio di cose per­so­nali mischiate a cose appa­ren­te­mente inu­tili? John, però, una cer­tezza la pos­siede: la Maier è stata una grande foto­grafa, e dun­que la sua opera va divul­gata. Tat Gal­lery, Moma e isti­tu­zioni varie respin­gono il mate­riale, addu­cendo la scusa di pro­durre sol­tanto mostre o volumi di autori viventi. Scusa spe­ciosa. non veri­tiera. Final­mente arriva l’ok dal Chi­cago Cul­tu­ral Cen­ter. All’inaugurazione, e nei tre mesi della mostra Fin­ding Vivian Maier: Chi­cago Street Pho­to­gra­pher, da gen­naio ad aprile 2011, il Cen­tro Cul­tu­rale regi­stra un afflusso record di pub­blico. La stampa, le tele­vi­sioni, i talk show rilan­ciano a milioni di per­sone l’interrogativo di Maloof. Un que­sito non chiuso innan­zi­tutto per lo stesso John, che usando inter­net, tele­fono, rita­gli, un giorno riceve una rispo­sta a dir poco inat­tesa ‘Vivien Mayer? Era la mia bambinaia!’. Seconda parola da ricor­dare: ano­ni­mato. Una serie di viaggi da New York al Min­ne­sota danno modo a Maloof di comin­ciare a dise­gnare un iden­ti­kit della foto­grafa. Ma è giu­sto defi­nirla tale e basta? No. Il detec­tive per caso incon­tra gli ex ram­polli di fami­glie bene­stanti. Par­lano con lui seduti in comodi divani, qua­dri alle pareti dei saloni, cami­netto acceso. Upper class. Ricor­dano bene quella strana figura entrata a far parte della loro vita per uno o più anni. Tutti la descri­vono molto alta, vestita con cap­pelli di fel­tro e lun­ghi abiti «Somi­gliava, nell’abbigliamento, alle donne dell’Unione Sovie­tica», anda­tura mili­ta­re­sca a lun­ghi passi e brac­cia oscil­lanti avanti e indie­tro, capelli arruf­fati a cre­sta oppure lisci e corti. Trat­teg­giano una per­sona gen­tile, accu­dente, capace di inven­tare per loro avven­ture mira­bo­lanti. Que­sta era la Vivian care­gi­ver, badante. Paral­lela a una Vivian nasco­sta die­tro l’anonimato di un mestiere umile, fati­coso, di scarso red­dito, e subito oltre la porta della sua camera, resa inac­ces­si­bile gra­zie a una robu­sta ser­ra­tura e a un ordine impo­sto con garbo, ‘Non entrate mai in camera mia’. Dice nel film un’intervistata «Una volta Vivian lasciò la porta semia­perta, ed ebbi così la pos­si­bi­lità di sbir­ciare all’interno. C’erano pile di gior­nali quasi fino al sof­fitto, cose sparse ovun­que». Iden­tico spet­ta­colo si offre a una seconda inter­vi­stata durante un’ispezione alla stanza di Vivian, per­ché il sof­fitto dello stu­dio sot­to­stante dava segnali di crollo «Mi ritro­vai a cam­mi­nare in spazi stret­tis­simi, gli unici lasciati liberi da ciò che Vivian con­ti­nuava a radu­nare». Fuori dalla stanza e dalla casa, la bam­bi­naia fa di tutto per nascon­dere colei che è dav­vero. For­ni­sce a una com­messa il cognome Smith per una rice­vuta; a volte dice di chia­marsi (e si firma) Mayer, oppure Meier. Vaghe le sue rispo­ste a chi le chiede le ori­gini dell’accento fran­cese, avver­ti­bile, nono­stante il lungo tempo in Ame­rica, nella sua par­lata. L’accumulo com­pul­sivo sfo­cia nella crea­ti­vità della foto­gra­fia. Tutti gli ex bam­bini ram­men­tano la bam­bi­naia con al collo la Rol­lei­flex nel verde di un parco, su una spiag­gia, più sovente in giro per i quar­tieri di New York o Chi­cago. La Rol­lei­flex è una mac­china che si tiene all’altezza del ven­tre. La messa a fuoco e lo scatto non avven­gono tra­mite mirino. Dun­que, chi foto­grafa può vedere e non essere visto, è pre­sente e al mede­simo tempo invi­si­bile. Ano­nimo, appunto. Non sol­tanto da un punto di vista ana­gra­fico. Gli sca­to­loni abban­do­nati, poi ritro­vati da John, hanno pro­tetto una rac­colta di gior­nali dove sono evi­den­ziati fatti di cro­naca soprat­tutto nera: omi­cidi, fol­lia improv­visa e tra­gica, rapi­menti, stu­pri, morti rima­ste senza spie­ga­zione. Sarebbe sba­gliato azzar­dare l’ipotesi di una donna che amava la bru­ta­lità, il san­gue, la mal­va­gità. Giu­sto, invece, pen­sare che attra­verso quelle cro­na­che, Vivian abbia appreso e affi­nato la capa­cità di ‘leg­gere’ le strade metro­po­li­tane nei loro aspetti più degra­dati e più poveri. Se ne par­lerà poco oltre. Alla sfera dell’anonimato appar­tiene anche una que­stione impor­tante e non risolta. Per­ché la foto­grafa tenne per sé, senza mai stam­parli e svi­lup­pando un quan­ti­ta­tivo tutto som­mato mode­sto di rul­lini, gli scatti rea­liz­zati? Avrebbe potuto diven­tare famosa. Optò per la con­di­zione oppo­sta. Forse aveva deciso di met­tere su carta qual­cuna delle sue imma­gini, affi­dan­dole al nego­zio di foto­gra­fia del paese materno. Toppo tardi, però. Adesso occorre dare spa­zio alla terza parola, soli­tu­dine. Vivian, quanto nar­rato sin qui lo dimo­stra, era una donna sola. Se per scelta o per forza, rimane impos­si­bile affer­marlo con cer­tezza. Ma non bastano la porta chiusa della sua stanza, le false gene­ra­lità, il mondo vie­tato agli altri ad esau­rire il qua­dro. Il discorso è più com­plesso, si attor­ci­glia nelle con­trad­di­zioni di una figura capace di espri­mere amore auten­tico per i ‘suoi’ bam­bini, e poi estra­niarsi da loro total­mente; di riser­vare ai suoi padroni, salvo rari casi, una man­ciata di parole venate di bugie a suo uso e con­sumo; di nascon­dere e por­tarsi nella tomba il segreto di una pro­ba­bile vio­lenza foriera di osti­lità verso gli uomini e il matri­mo­nio. «Una volta, men­tre le ero seduta in brac­cio, mi disse ‘Gli uomini ti ten­gono sulle ginoc­chia fin­ché cominci a sen­tire qual­cosa, una punta. Non fidarti mai degli uomini’». Nel 1959 la Maier si licen­zia dalla fami­glia presso cui lavora, annun­ciando che se ne andrà in giro per il mondo. Il viag­gio durerà otto mesi: mezzo secolo fa, da sola, attra­verso l’America, l’Europa, l’Asia, spo­stan­dosi con mezzi di for­tuna. Poi il ritorno alla rou­tine. Quando ini­zia la para­bola discen­dente che porta Vivian ad alte­rare la gen­ti­lezza, la pazienza, l’amore fin lì dimo­strati? Sap­piamo che, mini­miz­zando con un sor­riso, chiese a una fami­glia inten­zio­nata ad adot­tare un bam­bino di adot­tare lei. Sap­piamo che, verso la fine degli anni ’80, una fami­glia le proibì di por­tare i figli nei quar­tieri poveri di Chi­cago. Sap­piamo che la sua misan­tro­pia assunse una vena di cru­deltà sul finire della car­riera di bam­bi­naia «Mi for­zava a man­giare quello che avan­zavo nel piatto, me lo spin­geva in gola e a me veniva da vomi­tare. Non dissi nulla a mio padre, altri­menti avrei dovuto rac­con­tare che Vivian mi pren­deva per le brac­cia e mi faceva girare sbat­ten­domi il corpo con­tro i mobili». Il cer­chio si chiude nei primi anni del Terzo Mil­len­nio. La Maier va a vivere in un paese poco lon­tano da New York, sulla costa. Tutti cono­scono ‘la fran­cese’ che fruga nei cas­so­netti, man­gia carne non riscal­data da una sca­to­letta, siede per ore e ore su una pan­china. Una sua vec­chia datrice di lavoro la incon­tra andando con amici verso uno sta­bi­li­mento bal­neare. Le due donne si rico­no­scono, pur se sono pas­sati trent’anni. Par­lano, cer­cano uno scudo nelle bana­lità dei discorsi. Al momento del con­gedo, Vivian implora ‘Par­lami, par­lami, par­liamo’. Non è pos­si­bile, la sua vec­chia padrona deve andar­sene. La soli­tu­dine è rima­sta l’unica, fedele com­pa­gna. Pochi giorni dopo un’ambulanza por­terà in ospe­dale quella donna vec­chia, pie­gata da un malore che l’ha colta per strada. Lo ave­vamo pre­messo: senza cono­scere quanto si è riu­sciti a cono­scere finora della vita di Vivian Maier, diviene impos­si­bile com­pren­dere quanto ha lasciato su migliaia di nega­tivi. Adesso, forti della quarta parola, genia­lità, potete entrare nelle sale del MAN, rima­nere con lo sguardo incol­lato al bianco e nero di cen­to­venti imma­gini che resti­tui­scono la con­di­zione umana delle metro­poli ame­ri­cane a metà del secolo scorso, diven­tando sim­boli uni­ver­sali al di là della data­zione e dei luo­ghi. Certo, quello di Vivian è repor­tage di strada che pog­gia su basi pre­cise e iden­ti­fi­ca­bili. Certo la dispe­ra­zione, l’abbrutimento, la per­dita di ogni misura sociale o il ten­ta­tivo vano di con­ser­varne un minimo resi­duo hanno attori pre­cisi. Certo le accon­cia­ture e i cap­pelli delle signore, gli sguardi ado­le­scenti e inna­mo­rati, gli auto­bus e i vagoni della metro­po­li­tana dove sie­dono impie­gati e anziani leg­gendo il gior­nale, le facce nere, i rifiuti abban­do­nati, i poli­ziotti cer­beri por­tano il mar­chio Made in Usa e l’impronta del tempo. Ma pos­sie­dono la forza cruda e cru­dele pre­sente nelle viscere di ogni metro­poli ad ogni lati­tu­dine. Vivian la sco­pri­rete in uno dei tanti auto­ri­tratti: fan­ta­sma incor­ni­ciato dal riflesso di un vetro, ombra allun­gata su un prato, bam­bi­naia con la Rol­lei­flex in mano den­tro la cor­nice di una vetrina. Ele­menti estra­nei inter­fe­ri­scono con le imma­gini, ne distur­bano la piena leg­gi­bi­lità. Per­ché Vivian Maier si può sol­tanto imma­gi­nare. Parole di John Maloof. Infor­ma­zioni pratiche Vivian Maier, Street Photographer Museo d’Arte di Nuoro (MAN) Via S. Satta 27 Fino al 18 ottobre Per infor­ma­zioni, 0784/252110, museo​man​.it Cata­logo, Edi­zioni Con­tra­sto, pp. 285, € 39 Appro­fon­di­menti: vivian​ma​ier​.com, fin​ding​vi​vian​ma​ier​.com Inter­vi­sta al diret­tore del MAN Da EX3, Cen­tro per l’Arte Con­tem­po­ra­nea di Firenze al MAN di Nuoro. Il salto lo ha com­piuto Lorenzo Giu­sti, toscano, poco meno di qua­ranta pri­ma­vere e da tre anni diret­tore del museo. A lui si deve, in col­la­bo­ra­zione con la cura­trice euro­pea Anne Morin, la mostra su Vivian Maier. Altro salto: dagli Sta­tes e le capi­tali euro­pee le foto di Vivian sono appro­date alla cit­ta­dina sarda. Diret­tore, come ci è riu­scito? «Mi capita sovente di riba­dire che il luogo fisico non rive­ste molta impor­tanza. Sta a te pen­sare che Nuoro, ma non solo, può diven­tare New York o Los Ange­les. Quel che conta è il modo di pen­sare la cul­tura, e nello spe­ci­fico l’arte con­tem­po­ra­nea». Vale a dire? «Pensa glo­bal­mente, agi­sci local­mente». Suona un po’come uno slo­gan «Per me lo spa­zio di un museo deve essere assi­mi­la­bile a quello dell’agorà greca, la piazza. È uno spa­zio di pro­po­ste e con­fronti; uno spa­zio didat­tico in cui allar­gare e misu­rare le pro­prie cono­scenze. Quando dico ‘agire local­mente’, non intendo sol­tanto rife­rirmi al luogo fisico in cui si svolge una mostra. Agire local­mente signi­fica sti­mo­lare la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini, com­piere con loro scelte di cre­scita e di svi­luppo cul­tu­rale». È una strada che lei sem­bra per­cor­rere senza timori. Accanto alla mostra della Maier, il Man ospita i col­la­ges di Tho­mas Hir­schorn, arti­sta sviz­zero moto quo­tato che cen­tra il suo lavoro su forti pro­vo­ca­zioni visive. Terzo ospite Sar­de­gna Repor­tage 2015, una col­let­tiva ispi­rata alla foto­gra­fia di strada «Par­lare di agorà, di spazi di con­fronto, di pen­siero glo­bale e locale signi­fica pro­prio que­sto. Un museo non deve essere espo­si­zione di opere e basta. Ma realtà che non smette di agire e inte­ra­gire» (l.d.s.)